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Regole di comportamento del penalista nelle investigazioni difensive

Ad integrare i generali canoni di condotta inseriti nel codice deontologico forense, come anticipato, sono intervenute regole peculiari concernenti quella particolare figura di professionista che è il difensore penale, colto nello specifico momento in cui si appresta a svolgere indagini difensive al fine di ricercare elementi di prova in favore del proprio assistito. La predisposizione delle regole di comportamento, peraltro, è il frutto dell’impegno di riflessione portato avanti dall’Unione delle Camere penali italiane già all’indomani dell’approvazione definitiva della nuova legge in materia di indagini difensive, allorché la Giunta dell’organismo – con delibera urgente del 17 novembre 2000 – sospendeva l’efficacia delle norme deontologiche risalenti al 1996 e divenute incompatibili con il quadro della nuova disciplina dell’investigazione privata. A colmare la contingente lacuna, frattanto, sopraggiungeva un corpo di otto articoli – adottati con delibera del 16 gennaio 2001135 – in attesa dell’emanazione della definitiva versione delle “Regole di comportamento del penalista nelle investigazioni difensive”, approvate dal Consiglio dell’Unione delle Camere penali il 14 luglio 2001136. Prendeva corpo, così, un

135 Il testo della delibera è pubblicato in Guida dir., 2001, n. 4, p. 120 e ss.

136 A commento delle nuove norme deontologiche, si segnala RANDAZZO, Per un corretto funzionamento del

complesso normativo, scandito in sedici articoli, che andava a sostituire – abrogandole – le direttive deontologiche varate nel 1996, per affiancarsi alla disciplina contenuta nel codice deontologico forense, il cui doveroso rispetto anche nello svolgimento delle investigazioni difensive da parte del difensore veniva espressamente richiamato dall’art. 1 comma 1 delle stesse Regole di comportamento137.

Si è affermato che le prescrizioni così elaborate dai penalisti italiani avrebbero assolto la funzione di supplire alle lacune che punteggiavano il tessuto della legislazione in ordine alle concrete modalità di assunzione, documentazione e utilizzazione delle indagini difensive138. Nondimeno – e ribadendo quanto già poc’anzi sostenuto – pare opportuno sottolineare che, per come si è evoluto il sistema a seguito della ridistribuzione tra entrambe le parti del potere di formazione unilaterale della prova operato con la legge sulle indagini difensive, l’unico strumento abilitato a colmare efficacemente le lamentate carenze della disciplina processuale non può che essere, appunto, una legge processuale, la sola che possieda l’incisività e l’autorevolezza necessarie per penetrare la riluttanza giurisprudenziale a riconoscere al frutto dell’indagine difensiva valore di prova.

Preso atto – rispetto a tale scopo di validazione – dell’inidoneità funzionale anche delle più capillari regole di comportamento, si concretizza il rischio di ritenere davvero necessario che la legge processuale si faccia carico di certificare la genuinità probatoria dell’atto unilaterale di provenienza privata. Il contraccolpo derivante da una simile opzione risulterebbe, tuttavia, tristemente evidente in quella fatale combinazione a catena per cui, più si dovesse infittire la legge processuale, più aumenterebbe il numero di regole comportamentali da osservare a pena di inutilizzabilità dell’atto, finendo con estendere la casistica delle ipotesi in cui le indagini difensive, assunte senza il rispetto di canoni formali, sarebbero private di efficacia persuasiva, anche nei contesti in cui non si intendesse impiegarle a fini di prova e dove, giustamente, minore sarebbe l’ansia di genuinità del risultato.

Pertanto, ben venga la proliferazione delle regole comportamentali, quale segno di maturazione e riflessione della categoria forense nell’impegno dell’assoluta trasparenza e lealtà d’azione dell’inquirente difensore, purché, tuttavia, quelle prescrizioni esauriscano la

137 Da ultimo, le Regole di comportamento sono state oggetto di alcuni ritocchi con un intervento del 19 gennaio 2007.

138 Così RANDAZZO, Rapporto tra indagini difensive e codici deontologici, cit., p. 358, senza peraltro assegnare alle sole norme deontologiche alcun valore di esaustività. Nello stesso senso, cfr. DANOVI, Dopo la

rivalutazione delle indagini difensive solo piccoli ritocchi ai codici deontologici, in Guida dir., 2001, n. 2, p.

propria efficacia vincolante in sede deontologica e disciplinare139. Diversamente, qualora si ritenesse che – onde annettere garanzia di genuinità alla prova privata – fosse imprescindibile elevare le regole di comportamento in norme processuali dettate a pena di inutilizzabilità, si travalicherebbe la specifica funzione delle regole medesime, condannando alla paradossale sterilità il libero difendersi indagando.

Piuttosto, varrebbe la pena di rimeditare con ampiezza sistematica il cruciale momento dei rapporti tra la fase preliminare e il processo, annullando le occasioni in cui si ammette l’uso probatorio della risultanza unilateralmente formata dalla parte. Allora sì, non si avvertirebbe più l’esigenza di un apparato processuale garante di genuinità dell’atto probatorio di provenienza privata, e si potrebbe proficuamente sviluppare il percorso deontologico secondo la finalità che ad esso compete, vale a dire assicurare l’affidabilità dell’indagine difensiva nelle sedi decisorie in cui non si formano prove. In tali contesti, quindi, la violazione della prescrizione formale potrebbe comportare sia responsabilità che sanzione disciplinare – oltre che riverberarsi sulla minorata affidabilità della risultanza – ma non anche l’invalidazione processuale derivante dall’inutilizzabilità dell’atto, posto che non si sta discorrendo di uso probatorio sul merito dell’imputazione. Nell’altra, unica sede in cui si formano le «prove» – il dibattimento, appunto – a garantire l’affidabilità dell’atto vi sarebbe, invece, il contraddittorio (art. 111 comma 4 Cost.).

139 Cfr. BERNARDI, Maggiori poteri agli avvocati nella legge in materia di indagini difensive (I). Le attività di

indagine, in Dir. pen. proc., 2001, p. 208, il quale, nell’osservare come le norme deontologiche abbiano

svolto “una funzione anticipatrice perché, nella sostanza, risultano recepite dalla l. n. 397 del 2000”, conferma l’attualizzazione del rischio paventato nel testo, vale a dire l’elevazione dei canoni comportamentali a regole processuali, stabilite a pena di generalizzata inutilizzabilità. Favorevole alla mutazione RANDAZZO, Una conquista nel solco del giusto processo ma senza la riforma del gratuito

patrocinio, in Guida dir., 2001, n. 1, p. 36, che saluta come sintomo di cessata precarietà la circostanza che

l’indagine della difesa possa “nutrirsi di paradigmi normativi anche notevolmente innovativi e senz’altro più

PARTE SECONDA

Premessa

Esiste, oggi, un autentico “microsistema” normativo dedicato alle investigazioni difensive, in cui si è cercato di comprimere il passaggio da un liberale, ma inefficace, diritto di difendersi indagando a un vincolato, ma più “dignitoso”, diritto di difendersi formando prove. Lo strumento che ha consentito l’evoluzione epocale è rappresentato, appunto, dalla serrata tipizzazione dei soggetti, dei tempi, dei luoghi, delle forme, della documentazione e dell’utilizzazione del potere di indagine conferito al difensore, obiettivo che la legge 7 dicembre 2000, n. 397, ha perseguito con tenace ostinazione per assicurare il glorioso sviluppo del difensore inquirente nel difensore istruttore.

Tuttavia, se si voleva assecondare il gusto per l’orpello, non si creda che tramite la legge lo si sia potuto soddisfare. Dilaga, anche dopo quell’imponente intervento riformatore, un incurabile horror vacui che affligge interpreti e operatori, condannati all’incessante ricerca di quanto davvero la legge dice o non dice tra le righe delle sue cavillose previsioni, così distanti da quelle claris in cui, si diceva, non fit interpretatio.

Un esempio su tutti: la finalità dell’indagine del difensore, che l’art. 327 bis comma 1 c.p.p. sembrerebbe accordare limpidamente «per ricercare ed individuare elementi di prova a favore del proprio assistito». Ed invero, la portata applicativa della disposizione – sulla quale si regge l’intero Titolo VI bis del Libro V del codice di rito, appositamente richiamato – dipende tutta dalla semantica che vuole attribuirsi alla locuzione «a favore del

proprio assistito», da limitare soltanto agli elementi pro reo ovvero da estendere altresì a quelli contra alios. Profondamente differenti le conseguenze collegate all’una o all’altra opzione, che conducono a ritenere diversamente legittime le attività di ricerca finalizzate ad acquisire notizie a carico di soggetti terzi rispetto all’assistito: inutilizzabili in un caso, utilizzabili nell’altro. Il timore sottostante alla prima, restrittiva, interpretazione risiede nell’asserita impossibilità di elevare il difensore a inquirente imparziale in posizione simmetrica al pubblico ministero, ostandovi la natura privata e ontologicamente interessata degli atti che egli compie in forza del mandato difensivo. Se ne dedurrebbe, pertanto, una limitazione del potere di azione all’esclusivo reperimento di fonti di favore, riservando soltanto all’organo pubblico dell’accusatore il compito di ricercare elementi a carico di soggetti terzi. Sul versante opposto, potrebbero profilarsi ricostruzioni che esaltano il “nuovo” ruolo istituzionale che oggi compete al difensore, ammesso a partecipare in forma collaborativa alla pubblica funzione giudiziaria nel momento in cui documenta e utilizza processualmente le risultanze delle proprie investigazioni, con superamento di ogni ostacolo a includere tra gli elementi di favore anche quelli a carico di altri. Nondimeno, non pare necessario appellarsi a presunti indici di pubblicità dell’indagine difensiva per ammettere una simile estensione, che riposa sulla lineare quanto scontata considerazione che una – forse la più efficace – tra le strategie di discolpa risiede senz’altro nel reperimento di indizi dell’altrui responsabilità. Senza contare che il difensore della persona offesa dal reato, per svolgere delle investigazioni che siano a favore del proprio assistito, deve necessariamente ricercare elementi a carico di altro soggetto, che sarà, appunto, il potenziale o già attuale indagato. A ben vedere, l’imbarazzo maggiore che si avverte nell’ammettere, o nel pretendere, che l’indagine del difensore – nell’inseguire il favore dell’assistito – possa volgersi a sfavore di un soggetto terzo è tutto racchiuso nella circostanza che gli elementi in questione possano, in svariate ipotesi, tramutarsi in prove da porre a base di una sentenza sul merito dell’imputazione, essendo fin troppo evidente che le remore e i timori si attenuerebbero alquanto allorché la ricerca del difensore non godesse di tale potere di autocertificazione dibattimentale.

Se queste sono solo alcune tra le disparate acrobazie interpretative alle quali costringe l’invocata tipizzazione legale, conviene da subito sposare un canone ermeneutico risolutore che contenga i danni da proliferazione, in ossequio al principio di stretta legalità e certezza testuale. In altri termini, si rende opportuno privilegiare le soluzioni che non appesantiscano arbitrariamente la già nutrita serie legale delle prescrizioni modali e

formali, evitando di coniarne di nuove laddove la sanzione di inutilizzabilità – prevista per la loro violazione – non appaia giustificata dalla ratio che l’ha voluta codificata: assicurare la genuinità del materiale unilaterale in quanto destinato a diventare prova offerta in valutazione. E in applicazione di tale criterio non appare ragionevole una limitazione che impedisca al difensore la ricerca di elementi, tanto a discarico dell’assistito quanto a carico di altri, ma pur sempre di favore, trattandosi di prescrizione che non mira a garantire alcun tipo di genuinità ma che su un presunto difetto di questa, appunto, si basa.

La disfunzione congenita risiede, come noto, nell’ansia da prestazione che assilla il difensore istruttore, ammesso oggi a formare prove in costante crisi di affidabilità al momento della valutazione, per cui il criterio enunciato potrebbe suonare, nella sua arrendevolezza, come una sorta di timido compromesso volto soltanto a limitare i danni. Forse non è molto, visto che non si vorrebbe nemmeno doversi confrontare con tale situazione; ma è comunque un inizio, in attesa che torni il difensore inquirente, non più istruttore.

Capitolo I

SOGGETTI