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I tempi erano ormai pronti per una compiuta normativa di settore che rimediasse ai lamentati inconvenienti di un difensore divenuto inquirente ma, tuttora, incapace di evolversi in istruttore – come invece, da tempo, aveva fatto l’accusatore – per carenza di una disciplina puntuale, garanzia di veridicità dei risultati, che quel ruolo inusitato richiedeva. Portando a termine una laboriosa opera di riflessione120, sotto l’egida dell’indifferibile contingenza giungeva dunque ad approvazione la l. 7 dicembre 2000, n. 397, recante le nuove “Disposizioni in materia di indagini difensive”121; tuttavia, proprio tramite queste, si consacrava la definitiva riduzione in vinculis di quel diritto di difendersi indagando che si aspirava a liberalizzare.

Invero, l’impegno profuso dal legislatore si concentrava tutto nella capillare formalizzazione, indugiando cavillosamente sulla tipologia di atti che il difensore era abilitato a compiere, sulle modalità di svolgimento degli stessi, sulle precise regole di documentazione e sulle possibili sedi di utilizzazione. Venivano coniati, quindi, venticinque articoli chiamati ad incidere sul tessuto dei codici di diritto penale, sia sostanziale che processuale, ai quali fungevano da premessa l’invocata abrogazione

all’attività di investigazione difensiva – secondo un meccanismo esteso altresì alle richieste di prova, a dibattimento già aperto, a norma degli artt. 493 comma 3 e 555 comma 3 c.p.p. – in cui apprezzabile era l’intento di affrancare l’utilizzo processuale delle indagini difensive dalla previa presentazione al giudice per le indagini preliminari e dal conseguente inserimento nel fascicolo degli atti di indagine, echi di una obsoleta teoria della canalizzazione che ancora risuonavano tra le righe del deludente art. 38 comma 2 ter disp. att. c.p.p. Discutibile, nondimeno, il sottointeso riconoscimento del valore probatorio agli atti unilateralmente confezionati anche dalla difesa, con conseguente lesione del metodo dialettico nella formazione della prova.

120 Per un riassunto dei vari passaggi che hanno segnato l’iter di gestazione, cfr. FRIGO, Indagini difensive: un

punto «di non ritorno» sulla strada del riequilibrio tra accusa e difesa, in Dir. pen. proc., 1999, p. 667 e ss.

121 Per un commento analitico delle nuove diposizioni in materia di indagini difensive, cfr. infra, Parte II. Da segnalare, altresì, la pressoché contestuale emanazione di due ulteriori provvedimenti varati nell’ottica di garantire l’effettività del diritto a svolgere l’indagine difensiva, postulante, da un lato, il diritto dell’indagato privo di difensore ad essere assistito da un difensore d’ufficio dotato di specifica preparazione e scelto secondo meccanismi tali da escludere ingerenze discrezionali del pubblico ministero o della polizia giudiziaria; nonché, dall’altro lato, la facoltà per le persone non abbienti di giovarsi dell’investigazione di parte, garantendo la copertura da parte dello Stato anche con riferimento alla nomina di sostituti, consulenti ovvero investigatori privati ed assicurando la capacità tecnico-professionale dei difensori dei soggetti ammessi al gratuito patrocinio, da selezionarsi da appostiti elenchi di avvocati con accertata attitudine ed esperienza, immuni da sanzioni disciplinari e dotati di anzianità professionale non inferiore a due anni. In ordine alle innovazioni in materia di difesa d’ufficio, apportate con l. 6 marzo, 2001, n. 60, cfr. i commenti a prima lettura di PANSINI, La rinnovata difesa d’ufficio, in Dir. pen. proc., 2001, p. 673.; RUGGIERI, La difesa

d’ufficio, in AA. VV., Processo penale. Il nuovo ruolo del difensore, a cura di L. FILIPPI, Padova, 2001, p. 569 e ss. Sulle norme in tema di patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti, di cui alla l. 28 febbraio 2001 – attualmente superate dagli artt. 90 e ss. del d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115, in materia di spese di giustizia – cfr. le osservazioni di DEAN, Nuovi profili del patrocinio a spese dello Stato nei giudizi penali, in AA. VV.,

dell’art. 38 disp. att. c.p.p. e l’individuazione di una nuova sedes materiae nel titolo VI bis, appositamente innestato nel corpo del Libro V del codice di rito, degna collocazione nell’ottica di un affiancamento – anche topografico – dell’investigazione difensiva in parallelo all’attività di indagine del pubblico ministero. Spiccava, tra le diposizioni che specificavano la generale facoltà del difensore di svolgere investigazioni per ricercare e individuare elementi di prova in favore del proprio assistito (art. 327 bis c.p.p.), l’espressa previsione del potere di sondare dati di natura dichiarativa, attraverso una lecita attività esplorativa della fonte che poteva articolarsi nel mero colloquio non documentato, ovvero nelle più efficaci forme della ricezione di una dichiarazione scritta, o dell’assunzione di informazioni da certificare mediante verbale (artt. 391 bis e 391 ter c.p.p.) A ben vedere, soltanto la prima delle iniziative menzionate, nella sua struttura assolutamente amorfa, conservava la schietta natura di attività inquirente, volta a saggiare le potenzialità conoscitive della persona informata sui fatti e a trarre da essa utili spunti per impostare o sviluppare la strategia difensiva. Diversamente, gli altri colloqui nascevano per definizione rigidamente strutturati in quanto suscettivi di produrre delle risultanze – cristallizzate attraverso una metodica attività di documentazione ed eventualmente inserite nel neonato fascicolo del difensore (art. 391 octies c.p.p.) – idonee a tramutarsi in prove secondo le cadenze dibattimentali impresse dai meccanismi delle letture-contestazioni (art. 500 c.p.p.) o delle letture-acquisizioni (artt. 512 e 513 c.p.p.), all’uopo richiamate dalla norma di chiusura sulle indagini difensive (art. 391 decies comma 1 c.p.p.). Coerentemente, l’osservanza dei protocolli formali era imposta come condizione per l’utilizzazione delle dichiarazioni ricevute e delle informazioni assunte dal difensore (art. 391 bis comma 6 c.p.p.).

Ebbene, pare opportuno focalizzare fin da ora l’attenzione sulla portata sistematica di una simile combinazione, dettata in un’epoca in cui pressante era divenuta l’esigenza di riequilibrare i poteri tra pubblico ministero e difensore, quando – forti della copertura costituzionale fornita dai commi 2 e 3 dell’art. 111 Cost. di nuovo conio122 – si riteneva legittimo rivendicare la parità delle parti anche in punto di formazione unilaterale della prova. Lo strumento attraverso il quale realizzare tale equiparazione era ravvisato, per

122 Cfr. art. 1 della l. cost. 23 novembre 1999, n. 2, che ha implementato il contenuto dell’art. 111 Cost. – premettendo cinque nuovi commi alle originarie previsioni – al fine di dare espresso riconoscimento ai principi del giusto processo, tra i quali, appunto, lo svolgimento «nel contraddittorio tra le parti, in condizione di parità» (comma 2) e, nel processo penale, la facoltà per la persona accusata di un reato di ottenere, davanti al giudice, «la convocazione e l’interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell’accusa» (comma 3).

l’appunto, in una disposizione di raccordo che assicurasse al valore processuale degli atti di indagine difensiva la stessa identica consistenza probatoria di cui godevano quelli confezionati dal pubblico ministero; pertanto, la regola che estendeva quelle forme di utilizzazione anche al difensore veniva dai più salutata con favore123.

Nondimeno, gli istintivi entusiasmi avrebbero immediatamente dovuto confrontarsi con la disciplina – di poco successiva – dettata per dare attuazione al principio del contraddittorio nella formazione della prova, anch’esso regolatore del processo penale giusto (art. 111 comma 4 Cost.), ma, rispetto al canone della parità delle parti, destinatario di minore considerazione al momento del varo delle legge sulle indagini difensive. Con l’emanazione della l. 1 marzo 2001, n. 63, che recava “Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale in materia di formazione e valutazione della prova” e ridimensionava le occasioni di uso probatorio dell’atto di indagine conformemente al dettato costituzionale, qualsiasi ambizione difensiva in tema di formazione unilaterale della prova si sarebbe rivelata un’effimera illusione poiché la scelta di principio avrebbe inibito ogni ulteriore aspirazione. Ed invero, la nuova modulazione delle letture dibattimentali degli atti del pubblico ministero avrebbe parallelamente circoscritto l’efficacia probatoria degli atti di indagine del difensore, grazie al meccanismo del richiamo operato dal citato art. 391 decies c.p.p., che legava in un identico destino processuale le risultanze di parte, sia pubblica che privata. Contestualmente, peraltro, nell’intento di raggiungere questo pur fugace risultato, si accettava di vedere il difensore fatalmente condannato a districarsi, nell’attività di investigazione, tra un reticolo di rigide prescrizioni che delimitavano poteri e doveri di azione; e, questo, non soltanto in vista della potenziale formazione unilaterale delle prova – dove la forma, garanzia di genuinità delle risultanze, era quanto legittimava l’eccezionale uso probatorio dell’atto non formato in contraddittorio – ma altresì nell’ambito dei contesti in cui prove in senso tecnico non se ne formavano affatto.

Insomma, la sanzione di inutilizzabilità, che minacciava la sorte delle indagini difensive irrituali, avrebbe ben presto sortito il proprio effetto invalidante anche in momenti diversi da quello deputato alla verifica del merito dell’imputazione, paralizzando l’efficacia persuasiva degli atti del difensore proprio nelle sedi – indagini preliminari, fase cautelare, udienza preliminare – compatibili con una decisione non supportata dal metodo dialettico in quanto non finalizzata ad un risultato di concludenza e, pertanto, meno

123 Emblematico CRISTIANI, Guida alle indagini difensive, cit., p. 5, secondo il quale risulta essenziale che la condotta investigativa del difensore consenta “la redazione di documenti corrispondenti con precisione alla

condizionata dall’asserita minorata genuinità del materiale unilaterale offerto in valutazione. Questo perché, nell’architettura complessiva del sistema, anche gli atti difensivi prodotti in contesti decisori differenti dal tema di imputazione avrebbero potuto, in seguito, tramutarsi in prove in vista della pronuncia dibattimentale e, pertanto, si rendeva necessario garantirne, fin dalla formazione, la fedeltà ai protocolli formali da cui trarre indici di affidabilità e veridicità da spendere in sede di valutazione.

Allo stato, dunque, che aspiri a formare, o soltanto a ricercare prove, il difensore viene ugualmente inquadrato in rigidi schemi legali di comportamento al cui rispetto è condizionato il vigore dimostrativo degli elementi prodotti; ma, se tale vincolo risulta, per così dire, doveroso in vista di un’eccezionale sostituzione dibattimentale del contraddittorio mancante, fatalmente inappropriato si rivela nelle sedi differenti, in cui un contraddittorio da sostituire non è neppure contemplato. In tali ultime ipotesi, i limiti al potere di azione suonano piuttosto come una costrizione; tuttavia imposta, di necessità, dalla incauta scelta di sistema che, portando a compimento il lungo percorso inaugurato all’epoca dell’emanazione del nuovo codice, ha permesso l’evolversi del libero diritto di difendersi indagando nel vincolato diritto di difendersi formando prove.

Capitolo III

CANONI DEONTOLOGICI

SOMMARIO: 1. Finalità. – 2. Codice deontologico forense. – 3. Regole di comportamento del penalista nelle