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Tantissime sono le classificazioni dei modelli di scaling, delle tecniche, dei tipi di scala e dei criteri con cui poterli distinguere30. Il repertorio introduttivo presentato in questa sede ha un valore esemplificativo, teso a mettere in luce solo alcuni elementi ri- levanti, quelli strettamente essenziali a inquadrare i passi successivi. Innanzitutto è fon- damentale fissare l’attenzione sul fatto che la scelta di un modello e di una tecnica di

scaling non è mai neutra, ma presuppone un set di assunti e ipotesi su ciò che si sta an-

dando a scalare. Ogni criterio di distinzione tra modelli, ogni fundamentum divisionis dietro alle varie classificazioni presuppone in qualche modo un’idea sulla natura dei co- strutti da “misurare”. Da un certo punto di vista, richiamandoci al tema dell’ordine logi- co tra funzioni di assegnazione e strutture empiriche, la costruzione dello strumento co- stituisce e delinea il costrutto stesso. Il modello passa al vaglio della corroborazione empirica, pur essendo talvolta assai complesso distinguere, in caso di scarso adattamen-

30 Altri esempi sono Coombs [1964], che sviluppa la classificazione di Stevens, cercando di aumen-

tarne e specificarne le fattispecie: il caso delle scale metriche ordinali sarà discusso tra poco. Marradi [1981; 1985] propone una classificazione basata sulla natura delle procedure di rilevazione; Ricolfi [1985] risponde con una tipologia che tiene conto delle operazioni matematiche legittime per ogni tipo di scala.

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to del modello ai dati, quale/i assunto/i sia/no inadeguato/i e quindi in cosa modificare il quadro. Senza contare che spesso mutare o eliminare o aggiungere uno o più assunti si- gnifica revisionare profondamente il concetto stesso in via di misurazione.

Ogni modello interpreta anche il rapporto tra la struttura latente che s’intende mi- surare e gli item che sono utilizzati come sua manifestazione. Si possono immaginare i secondi come espressione di una struttura ordinata e cumulativa fortemente integrata, oppure come elementi che insieme ricostruiscono i vari aspetti dell’intensione di un concetto31, oppure immaginarli connessi da una rete di relazioni di preferenza ecc. Pa- rimenti cambia anche la relazione che s’ipotizza tra la struttura latente (l’atteggiamento, il valore, la propensione ecc.) e i soggetti.

Infine, non dovremmo dimenticare, anche se la letteratura tecnica tende a metterlo tra parentesi, il fatto che ogni modello considera, spesso implicitamente, procedure e tecniche di rilevazione di un certo tipo in modo preferenziale, mentre è meno adatto a interpretare e processare materiale empirico operativizzato e codificato in modi diversi da quello considerato canonico. Ciò significa che ogni modello tende, quindi, ad abbi- narsi ad alcune tecniche di rilevazione, che sono le più adatte a rappresentare l’oggetto cognitivo nella forma richiesta dagli assunti e dai caratteri generali del modello. Posso- no esserci casi in cui le informazioni rilevate sono non interpretabili o poco utili rispetto al taglio epistemologico previsto dal particolare modello; allo stesso tempo, da una me- desima base empirica, dati rilevati con una specifica tecnica (per esempio di rating) possono essere mutati ex post in dati di tipo diverso (per esempio risposte dicotomiche). Questo è un aspetto potenzialmente critico, che chiama in causa il ruolo delle tecniche non solo, com’è ovvio, nel rilevare il dato, ma anche nell’influenzarlo, al di là dell’intervento del costrutto. L’impatto della tecnica può provocare fenomeni noti in let- teratura sotto varie forme (“effetto alone”, “response set”, “fattore dello strumento” ecc). Campbell e Fiske [1959] focalizzano questo tema attraverso lo schema dei control- li multitratto-multitecnica, in cui oltre al tradizionale criterio di convergenza nella rile- vazione dello stesso costrutto con tecniche diverse (i risultati devono correlare indipen- dentemente dalla procedura utilizzata), se ne prevede anche uno di divergenza nella ri- levazione di costrutti diversi con la stessa tecnica (i risultati non devono correlare indi-

31 E’ questa una concezione molto diffusa del rapporto tra indicatori e concetto indicato [Marradi

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pendentemente dal costrutto rilevato). La violazione di questo secondo criterio prefigura una situazione in cui la procedura orienta gli esiti delle risposte, piegando perciò i risul- tati sulla base delle caratteristiche della tecnica specifica: questo determina un eventuale circolo vizioso in cui l’immagine finale è proiettata, in misura maggiore o minore, dal modello e dalla tecnica stessi, più che dalla base empirica. Tale fattispecie, tra l’altro, è tutto fuorché infrequente o eccezionale32.

32 Un esempio (senz’altro tra tutti il più modesto) di studio empirico degli effetti sulle risposte dei

soggetti della somministrazione parallela di item identici con tecniche diverse, è contenuto in La Sala [2010]: lì si mostrano vari tipi d’impatto, imputabili alla differente chiusura delle risposte, sul modo in cui i soggetti interpretano i quesiti e affrontano i processi di risposta.

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3 Esempi classici di scaling: Thurstone, Coombs e

Guttman

Dalle osservazioni svolte alla fine del capitolo precedente, che tracciano alcuni degli elementi essenziali da cui non è possibile prescindere quando si affronta un proce- dimento di scaling, faremo adesso un passo avanti in direzione del tema centrale della riflessione. Prima ancora di inoltrarci, nella Parte Seconda, nella trattazione del modello di Rasch, giova applicarsi brevemente su tre casi particolarmente indicativi di modelli di

scaling. Tali esempi sono utili non solo perché mostrano, su un piano deterministico,

elementi che ritroveremo trattando i modelli probabilistici della Item Response Theory, ma anche perché affrontano la questione dello scaling con approcci differenti: la ricerca della misurazione intervallare, di una metrica ordinata senza unità di misura e di una perfetta scalabilità cumulativa. Si tratta di un esercizio prezioso di studio, propedeutico al prosieguo del testo.