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La natura quantitativa delle proprietà come ipotesi empirica

Tra le ipotesi e gli assunti (esplicitati o meno), necessario a giustificare un livello di misurazione su una scala a intervalli è quello della natura quantitativa degli attributi psicologici. Lo studio approfondito dei caratteri matematici formali di un modello come quello di Rasch e delle trasformazioni ammissibili sulle scale, non ci consente di affron- tare fino in fondo e risolvere la questione epistemologica essenziale, cioè se staremmo compiendo operazioni di rilevazione su una struttura empirica quantitativa e continua

98 Secondo Duhem [1914, 187, cit. in Michell 2004] lo scienziato “non può mai sottoporre un’ipotesi

isolata alla prova sperimentale, ma solamente un intero gruppo d’ipotesi; quando l’esperimento è in di- saccordo con le sue previsioni, ciò che egli apprende è che almeno una delle ipotesi che costituisce questo gruppo è inaccettabile e dovrebbe essere modificata; ma l’esperimento non designa quale dovrebbe essere cambiata.” Michell [2004, 123] è però in disaccordo con l’interpretazione di Borsboom e Mellenbergh, sottolineando che “Duhem pensava che le ipotesi non potessero essere provate isolatamente, nel senso che testare richiede sempre di congiungere le ipotesi con altre proposizioni per dedurre le previsioni, ma egli non intendeva che le ipotesi non potessero essere provate isolatamente nel senso che una prova sperimen- tale non possa mai essere di una sola ipotesi.” Insomma, se si è sicuri della validità delle proposizioni congiunte, allora un esperimento può provare la validità o meno anche di una singola ipotesi empirica.

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rappresentabile lungo i numeri reali, oppure se si tratti solo di una struttura al più ordi- nale.

Sulla pretesa di quantificazione dei modelli psicometrici e sulla netta distinzione logica ed empirica tra strutture quantitative e strutture ordinali (con le seconde che non implicano necessariamente le prime), si concentra la critica di alcuni autori, come si è già in parte discusso nel primo capitolo. Uno degli attacchi più forti è quello articolato in più occasioni proprio da Michell [es. 2000; 2008a; 2009], il quale denuncia quella che ritiene essere la “condizione patologica” delle scienze psicometriche. Perché una scienza possa definirsi patologica99, secondo Michell, è necessario che nel suo “flusso normale” occorrano delle interruzioni (breakdowns). Può accadere, infatti, che si formi- no e siano portate avanti delle ipotesi false o non testate empiricamente che, a differenza di ciò che la pratica scientifica continuamente richiederebbe, non sono adeguatamente controllate, individuate ed eventualmente accertate, rimosse o corrette. Se la presenza d’ipotesi non accertate è il primo presupposto di una scienza patologica, essa richiede un secondo fattore: il campo conoscitivo in questione deve disporsi in modo tale da ren- dere impossibile riconoscere le ipotesi in questione e quindi se necessario rimuoverle, per tornare a un normale svolgimento dell’attività scientifica. La patologia non risiede, quindi, tanto nell’esistenza di un’ipotesi non controllata e potenzialmente fallace, ma soprattutto dall’azzeramento in seno a un settore scientifico degli “anticorpi” che do- vrebbero essere in grado di individuare, affrontare e superare quel possibile errore.

A finire sul banco degli imputati, nel campo degli studi sulle dimensioni attitudi- nali, e a portare Michell a definirlo “patologico” è proprio l’ipotesi che le proprietà in- dagate sarebbero quantitative. Scrive Michell [2000, 650] che nelle scienze psicometri- che

(a) un’ipotesi basilare, empirica (cioè a dire l’ipotesi che gli attributi psicologici sono quantitativi) è accettata come vera senza che ne sia

99 Ci risulta che l’etichetta di “scienza patologica” sia stata coniata in precedenza, nel 1953, dal chi-

mico Irving Langmuir in un’accezione in parte diversa da quella di Michell e riferita alle scienze fisiche e naturali. Con essa s’intendeva la persistenza, in alcuni membri di una comunità scientifica, di convinzio- ni, idee e obiettivi che fossero già stati dimostrati fallaci o impossibili e trattati come tali dalla maggio- ranza degli altri componenti. Si tratta di un processo psicologico per cui si accettano formalmente i pre- supposti e le regole del metodo scientifico, salvo poi violarli inconsapevolmente con pretese che non pos- sono essere scientifiche. In questo concetto ci sono quindi alcune connessioni con quelli celeberrimi di “paradigma” e “scienza normale” dello storico della scienza Kuhn [1970].

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mai stata testata seriamente l’adeguatezza e (b) il fatto che questa ipo- tesi non sia mai stata testata soddisfacentemente è tenuto nascosto.

Gli studiosi degli atteggiamenti, delle opinioni, dei valori avrebbero, secondo quanto sostiene Michell [2008a], applicato la teoria della misurazione di Stevens, con- centrandosi sul versante formale dei sistemi relazionali, dando per scontato di stare mi- surando proprietà quantitative continue su scale a intervalli, senza però adoperarsi per provare efficacemente tale assunto100. Michell ipotizza che i motivi di tale omissione ri- siederebbero nella volontà di presentare la propria disciplina come affine, nei metodi e negli esiti, alle scienze fisiche e naturali, secondo un atteggiamento etichettato come “scientismo”101. In questo contesto, ai modelli probabilistici della IRT si riconosce un

ruolo per certi aspetti più avanzato rispetto a quelli della Teoria classica dei test, basati principalmente sui punteggi grezzi. Eppure anche nelle ricerche che utilizzano i primi, l’assunto del carattere quantitativo degli attributi è dato praticamente sempre per sconta- to, senza testare l’ipotesi sul campo.

Come si è avuto modo di ripetere a più riprese (e come dovrebbe essere stato con- fermato in maniera abbastanza chiara attraverso lo studio del modello di Rasch), il tipo d’indagine scientifica che coinvolge le dimensioni psicologiche non utilizza procedure assimilabili a quelle abbracciate dalla concezione classica della misurazione fondamen- tale estensiva: se anche fossero grandezze quantitative, gli attributi psichici non lo sa- rebbero comunque di un tipo concatenabile. Non possediamo e non siamo in grado di definire teoricamente un’unità di misura che possa essere idealmente giustapposta

100 Michell [2007] riporta alcuni esempi di conoscenza convenzionale, attestazioni sulla natura inter-

vallare della misurazione senza che siano avanzate giustificazioni nemmeno per una di tipo ordinale: “la misurazione intervallare è probabilmente la scala più comune in psicologia” [Lehman 1991, 54]; “gran parte delle misure di stati e tratti psicologici e dei costrutti quali gli atteggiamenti e le interpretazioni di eventi delle persone sono al livello di intervalli” [Whitely 1996, 117]; “è elevata la probabilità che molte scale e test usati nella misurazione psicologica ed educazionale approssimino la misurazione intervallare” [Kerlinger e Lee 2000, 635]; “la vasta maggioranza dei test psicologici che misurano intelligenza, abilità, personalità e motivazione… sono scale a intervalli” [Kline 2000, 18]. A questi esempi, aggiungiamo an- che Lord e Novick [1968, 21]: “Il livello di misurazione specificato più spesso nella teoria dei test mentali è la misurazione a intervalli, che produce una scala a intervalli.”

101 Michell avanza anche una seconda motivazione, di carattere economico: il prestigio di una scienza

e l’autorevolezza imputata ai suoi risultati sono elementi importanti anche per il reperimento di fondi e il sostegno finanziario alla ricerca accademica [cfr. anche Heene 2013]. Come si capisce, quello di Michell è un attacco portato con grande forza e su più fronti.

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all’oggetto da misurare un numero n di volte. Il tipo di “misurazione” delle dimensioni psicologiche latenti coinvolta nel modello di Rasch, concedendo che di misurazione in senso quantitativo si tratti, è di natura diversa perché utilizza l’osservazione dell’effetto congiunto di due variabili per stimare la posizione dei soggetti sul continuo latente in- cognito.

Parallelamente allo sviluppo dei modelli psicometrici probabilistici, nell’ultimo mezzo secolo, a partire dall’ambito della Teoria rappresentazionale della misurazione (Representational Measurement Theory, RMT), sono stati compiuti sforzi teorici robusti per studiare e approfondire i presupposti necessari affinché, anche nelle condizioni par- ticolari in cui si trova la ricerca sugli atteggiamenti, sia possibile dimostrare in via as- siomatica che un certo tratto latente sia effettivamente quantitativo. I risultati di tale opera di elaborazione sono individuati da quella che è definita “Teoria della misurazio- ne additiva congiunta” (in inglese Additive Conjoint Measurement Theory, ACM). Indi- viduare un modello di misurazione in grado di affrontare gli assunti dell’ACM signifi- cherebbe aprire la strada alla possibilità di testare empiricamente l’ipotesi che una certa struttura empirica latente possieda i caratteri di un attributo quantitativo. La critica di Michell è che, pur avendo ora a disposizione gli strumenti per testare le ipotesi sulla na- tura delle proprietà psicologiche102, gli scienziati della sfera umana abbiano continuato a “nascondere la polvere sotto il tappeto”, ricercando raramente e in modo insoddisfacen- te conferme.

A questo proposito, una serie di studiosi (come vedremo tra poco) ha individuato proprio nel modello di Rasch un caso di misurazione additiva congiunta, in una versione probabilistica, suscitando però perplessità in altri autori. La discussione, da questo pun- to in poi, si svilupperà su questo nodo: può il modello di Rasch rappresentare un trait

d’union tra approcci diversi al concetto di misurazione e può, attraverso la logica

dell’ACM, aiutare a scogliere il nodo della natura delle dimensioni psicologiche? Co- minciamo illustrando le caratteristiche e gli assunti della misurazione additiva congiun- ta.

102 Michell [2009] tiene a sottolineare che il suo richiamo all’ACM non significa che egli accolga in

generale i presupposti teorico-concettuali del frame rappresentazionalista, in cui gli assiomi della misura- zione congiunta sono stati, come detto, sviluppati.

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9 La teoria della misurazione additiva congiunta

Si è visto nel primo capitolo che una delle critiche più diffuse rivolte alla teoria delle scale di Stevens (teoria di stampo rappresentazionale e operazionalista) riguarda la centralità, per stabilire il livello di misurazione, delle operazioni ammissibili sulle scale che ne mantengano invariante la struttura delle relazioni. Potremmo riassumere la critica in questa forma: tra la funzione di rappresentazione (che connette la struttura relazionale empirica con quella formale) e quella di unicità (che stabilisce le trasformazioni ammis- sibili sulla scala formale), alla seconda è dato un peso maggiore che alla prima, ri- schiando di rendere “misurazione” qualsiasi assegnazione numerica e di mettere in se- condo piano la reale consistenza della scala formale rispetto alla struttura empirica. Questo elemento si associa, nelle scienze umane, alla difficoltà di giustificare empiri- camente il carattere quantitativo degli attributi mentali, che non riguardano grandezze concatenabili103 estensive, bensì intensive.

Nonostante già Hölder all’inizio del XX secolo avesse chiarito in generale i requi- siti di una struttura additiva, è dagli anni Sessanta che si presenta in forma completa una teoria della misurazione congiunta che, per via algebrica e assiomatica, dimostra in qua- li condizioni e secondo quali presupposti, attributi non concatenabili possono comunque essere accertati come quantificabili e additivi. A inaugurare in modo organico questa nuova pagina della Teoria rappresentazionale della misurazione (RMT) sono Luce e Tukey [1964] sul Journal of Mathematical Psychology, seguiti da altri contributi che hanno ampliato e approfondito l’orizzonte della teoria [Scott 1964; Krantz 1964] fino all’opera di Krantz, Luce, Suppes e Tverski [1971] sui fondamenti della misurazione, che sviluppa a largo raggio la teoria assiomatica della misurazione e fornisce giustifica- zioni sulla base di una raffinata e complessa rete di dimostrazioni algebriche.

Il lavoro di Luce e Tukey [1964] ebbe una portata secondo molti potenzialmente rivoluzionaria, non da ultimo perché dimostrava che anche gli attributi psicologici, in- tensivi e non concatenabili, possono essere legittimamente ipotizzati come quantitativi e continui e che è possibile testare empiricamente tale ipotesi attraverso la soddisfazione di una serie di assiomi. La tesi di N. R. Campbell, certificata dalla Commissione Fergu-

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son poco più di venti anni prima, era in via teorica messa in seria discussione, se non smentita.

Per impostare l’illustrazione della teoria104, cominciamo presentando la tabella

9.1. Qui troviamo due attributi, A e M, dei quali non dobbiamo conoscere necessaria- mente la natura ordinale o quantitativa, ma di cui sia possibile però distinguere e identi- ficare vari livelli tra loro indipendenti, per cui A sarà composto dai livelli a, b, c ecc. e

M dai livelli m, n, o ecc.

M

m N o … …

A

a (a,m) (a,n) (a,o) … … …

b (b,m) (b,n) (b,o) … … …

c (c,m) (c,n) (c,o) … … …

… … … … …

… … … … …

… … … …

Tab. 9.1 – Tabella dei tre attributi A, M e Z.

Il terzo attribuito presente nella tabella, Z, è il risultato di una combinazione non

interattiva di A e M nelle coppie ordinate dei loro livelli: (a,m), (b,m), (a,n) ecc. Z è

quindi il prodotto cartesiano di A e M. I tre attributi sono considerati contemporanea- mente (congiuntamente, appunto)105.

104 Per la ricostruzione della teoria ci baseremo principalmente, tra gli altri, oltre che sui testi già cita-

ti di Luce e Tukey [1964], Scott [1964], Krantz [1964], Krantz, Luce, Suppes e Tversky [1971], anche su Green [1986], Burro [2007; 2009], Kyngdon [2008a; 2008b], Michell [2008b; 2009], Zand Scholten [2011], Noventa e Vidotto [2012a; 2012b].

105 In concreto, A e B possono essere costituiti da insiemi disgiunti di oggetti, i quali esprimono un

certo livello dell’attributo in questione. In questo senso, nella logica della presente esposizione si può par- lare di livello dell’attributo o di oggetto, elemento (con quel determinato livello di attributo) in modo pressoché indifferente.

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Gli assiomi della ACM descrivono le relazioni che devono sussistere tra i livelli di

Z affinché gli altri due attributi possano essere dimostrati quantitativi continui e additivi

rispetto a Z. Nello specifico, è possibile dire che Z = 〈A × M, ≥〉 è una struttura empirica di misurazione congiunta additiva se e solo se i seguenti assiomi sono verificati:

1) ordine parziale; 2) indipendenza;

3) doppia cancellazione; 4) risolvibilità;

5) condizione archimedea.

Cercheremo ora di capire il significato degli assiomi e il loro ruolo nell’accertamento del carattere quantitativo e continuo degli attributi, provando a espor- re il tutto nel modo più sintetico e semplificato possibile.