IL FEMMINISMO UMANISTA DI SUSAN MOLLER OKIN
7. Il comunitarismo e l’attacco alle astrazioni del pensiero liberale.
Alcune femministe, che si occupano di sviluppo morale, ritengono il comunitarismo221 un
alleato nella lotta contro ciò che vedono come un’astrazione e un’enfasi maschilista sull’imparzialità e sull’universalità tipiche di alcune teorie della giustizia. Secondo queste pensatrici le concezioni dei contestuali222 tipiche del comunitarismo sono più affini ai bisogni morali delle donne.
Il principale attacco dei communitarians alle teorie morali e politiche liberali è che queste formulerebbero i loro principi di giustizia da posizioni esterne ai contesti sociali, senza tenere in conto il fatto che le persone reali vivono in determinati tempi e in comunità particolari. Di contro, i principi di giustizia elaborati da questa corrente si basano su una interpretazione di una qualche sintesi delle tradizioni cui le comunità farebbero riferimento.
MacIntyre223, riconosciuto come filosofo della politica aderente al comunitarismo, sostiene
che solo rivolgendoci alle tradizioni che formano il retaggio della cultura occidentale si può effettuare un ragionamento solido sulla giustizia.
Nel suo After Virtue: a study in moral theory,224 MacIntyre si pone lo scopo di fornire una
base alternativa alla fondazione della giustizia rispetto a quella liberale il cui errore di fondo
221 Comunitarismo (communitarianisim) è un termine coniato negli anni Ottanta del Novecento dai teorici della politica
americani per indicare la reazione anti-liberale seguita alla pubblicazione della Teoria della giustizia di Rawls..I comunitari utilizzano il termine comunità in alternativa a quello di associazione per indicare un mondo di valori preesistente alla volontà e alla scelta razionale degli individui. Le comunità sono corpi di tradizioni etniche, linguistiche, religiosi e culturali all’interno nelle quali si situa l’individuo e in cui l’individuo acquista coscienza di sé. Al di fuori delle comunità non ci sono che individui astratti. Definzione tratta da Norberto Bobbio, Nicola Matteucci, Gianfranco Pasquino, Il dizionario di politica, Utet libreria, Torino 2004
222 Ovvero che fanno derivare la scelta morale dal contesto sociale.
223 Alasdair MacIntyre, (Glasgow, 1929) filosofo scozzese, appartenente alla corrente comunitaria, ha insegnato
filosofia all’Università di Notre Dame, Indiana.
224 Alasdair MacIntyre, After virtue: a study in moral theory, University of Notre Dame Press, Notre Dame 1984, tr. it.
sarebbe l’astrattezza. L’etica della tradizione da lui proposta è caratterizzata da un profondo radicamento nel contesto di un ordine sociale determinato, infatti si pone come antagonista all’etica liberale la cui capacità principale sarebbe quella di distaccarsi da ogni punto di vista particolare
Okin fa notare che le tradizioni si basano sulle ascrizioni di specifici ruoli sociali e le etiche fondate sulle tradizioni si concentrano sullo sviluppo delle virtù necessarie allo svolgimento di tali ruoli.
Nel suo testo successivo, Whose justice?: Which rationality?225, MacIntyre sostiene che la
sintesi della tradizione aristotelica e cristiano-agostiniana compiuta da Tommaso d’Aquino rappresenta nel modo migliore razionalità e giustizia. Alcune femministe hanno sottolineato l’importanza dell’apporto delle tesi di MacIntyre per lo sviluppo dell’etica contestuale tipica delle donne.
Al contrario, Okin ritiene non solo errato contrapporre un’etica astratta ad una contestuale, ma anche che MacIntyre non sia attento agli aspetti della dominazione e dell’oppressione che la sua teoria comporta, salutando la tradizione tomista come valida alternativa al liberalismo.
L’autore presenta tre tradizioni per cui optare in alternativa al liberalismo. La prima è la visione omerica del mondo in cui, secondo la sua interpretazione, le guerre combattute dagli eroi erano finalizzate alla prosperità delle loro famiglie e di tutta la comunità. L’autore sostiene che tutti i membri della comunità traevano vantaggio dalle virtù dell’élite guerriera, che erano forza fisica, coraggio, intelligenza e ricchezza. L’interpretazione positiva di tale visione del mondo non ritiene problematico che la società eroica avesse un carattere profondamente gerarchico, e che sia alcuni uomini sia tutte le donne fossero escluse da tale mondo. L’autore riconosce che le virtù delle donne, fedeltà e attrazione fisica erano differenti da quelle degli uomini, ma non ne mette in rilievo l’aspetto del potere: le virtù femminili si definiscono in relazione a quelle maschili e non viceversa.
Inoltre il fatto che gli eroi omerici lottassero per il benessere della comunità è un’interpretazione del tutto personale, infatti si potrebbe sostenere il contrario, ovvero che le famiglie e la comunità fossero la base economica e riproduttiva di guerre combattute per conquistare fama immortale, gloria, e ricchezze personali. Secondo altre interpretazioni il
mondo omerico rappresenta una società nella quale la maggioranza delle persone era concepita al servizio di un’ élite maschile e nella quale le virtù erano solo ad essi riservate. MacIntyre in virtù del fatto che nella società eroica non c’è nessun esterno, se non quello dello straniero, critica i filosofi moderni che apprezzano la capacità di distaccarsi da un punto di vista particolare, e di giudicare le cose dall’esterno. In maniera molto veloce quindi l’autore accantona l’obiettività dell’etica liberale, ma il suo ragionamento presuppone che se noi fossimo membri della società omerica saremmo tutti eroi. MacIntyre non contempla la possibilità molto più realistica di essere schiavi, donne o di classi inferiori e quindi non eroi, per questo può liquidare il punto di vista esterno, che invece tiene conto della prospettiva di chi è escluso dal gruppo dominante. I valori della società omerica che l’autore sostiene essere una parte della nostra cultura, cui quindi bisogna far riferimento, non sono valori condivisi, ma valori che riflettono il punto di vista di un’élite maschile dominante.
La seconda etica cui bisogna fare riferimento per MacIntyre è quella aristotelica, che apprezza perché rifiuta la falsa distinzione fra valori e fatti e identifica il bene con la realizzazione della natura essenziale dell’uomo. Agire secondo le virtù aristoteliche significa realizzare la vera natura umana e perseguire il fine veramente umano. L’obiettivo polemico di MacIntyre è l’Illuminismo, in quanto rigetta una visione teolologica della natura umana. Secondo la visione aristotelica essere uomo significa interpretare una serie di ruoli, ciascuno dei quali ha una propria motivazione e un proprio fine. Essere uomini non significa essere individui astratti, ma essere membro della famiglia, cittadino, soldato, filosofo, servo di Dio, di contro alla visione illuminista dell’individuo precedente e distinto da ogni ruolo.
MacIntyre tralascia la struttura gerarchica elitaria e sessista della polis, per sostenere che il fine della giustizia nella città-stato aristotelica fosse realizzare il bene complessivo della
polis, e non i beni specifici di attività particolaristiche.
L’autore fa notare che la teoria aristotelica meritocratica della giustizia politica dipende dalla convinzione che agricoltori, mercanti, artigiani e donne non sappiano esercitare le virtù per la partecipazione alla vita attiva del miglior tipo di città-stato. Eppure ritiene che sia necessario fare riferimento alle virtù aristoteliche, senza spiegare come un aristotelico moderno possa superare la problematica dell’esclusione. Questa è una lacuna molto importante, perché nella tradizione aristotelica finalizzata al bene umano, sono considerati pienamente umani soltanto coloro i cui bisogni di servizi produttivi, riproduttivi e quotidiani
vengano interamente curati da altri, il che li rende liberi di occuparsi della vita politica e intellettuale. Se il bene supremo aristotelico consiste nella combinazione di un’attività morale e politica virtuosa con la ricerca contemplativa, chi si occupa del lavoro riproduttivo, del lavoro domestico e della produzione delle necessità quotidiane non può vivere la vita di eccellenza. MacIntyre suggerisce per ovviare a questo problema di ridistribuire i compiti al fine di risolvere il problema dell’esclusione delle donne e dei lavoratori manuali. Ma tale correzione non è possibile all’interno di un paradigma aristotelico perché risulterebbe in una cittadinanza che, in quanto occupata parzialmente in lavori manuali e domestici, non riuscirebbe a concentrarsi interamente sulla attività politica e intellettuale, come invece prevede Aristotele per il cittadino libero e agiato. MacIntyre fa un tentativo di rifiutare il destino biologico previsto da Aristotele, ma non spiega come sia possibile raggiungere la vita buona in assenza di persone che come nel mondo aristotelico sono preposte a fornire prodotti e servizi necessari per la vita umana. Nel caso delle donne, rifiutare il destino biologico di Aristotele significa far entrare nella trattazione il problema dell’allevamento e della cura dei figli, cosa che MacIntyre non fa.
Le istituzioni e le usanze della famiglia sono state strutturate in modo da rendere impossibile alle donne che svolgono lavori di cura e di socializzazione familiare partecipare alla vita buona così come concepita da Aristotele. Inoltre MacIntyre parte dal presupposto che i cittadini siano adulti e indipendenti, ma non si occupa di come raggiungano il livello della maturità.
In Whose Justice?226 l’autore sostiene che la sintesi fra Aristotele e il cristianesimo
agostiniano compiuta da d’Aquino227 sia la giustificazione più solida per la giustizia e la
moralità. Il tomismo è interpretato come una versione dell’aristotelismo che si può applicare al di fuori della polis greca. Nella sua apologia della sintesi tomistica l’autore ignora il rapporto gerarchico fra i sessi previsto tanto dalla tradizione greca quanto dalla tradizione
cristiana agostiniana. Se è vero che Agostino228 credeva che uomini e donne fossero uguali
nell’anima e nella capacità di partecipare alla vita divina, tuttavia riteneva anche che la donna, presa nella sua singolarità, in quanto aiutante dell’uomo non fosse come lui a immagine di Dio. La donna è differente dall’uomo dal punto di vista corporeo, essa è associata alla carnalità, alla passione e al peccato, come simboleggiato dal ruolo di Eva nella
226 Alasdair MacIntyre, Whose Justice?: Which Rationality? … cit. 227 Su d’Aquino vd. Capitolo Terzo
Caduta, pertanto è giustamente e naturalmente subordinata all’uomo, che simboleggia la ragione superiore. Nella città di Dio di Agostino uomini e donne sono uguali, ma nella Città dell’uomo la donna è soggetta al maschio e relegata nella sfera domestica.
Nella Mulieris dignitatem229 Giovanni Paolo II conferma l’esistenza di sfere separate fra uomo e donna, e le limitazioni per le donne, giustificandole come Agostino con il peccato di Eva.
Tommaso aggiunge all’associazione cristiana delle donne con il peccato, la biologia teolologica aristotelica: la donna maschio malriuscito, difettosa nella ragione, è soggetta per natura all’uomo poiché in lui prevale la capacità di ragione. La donna inferiore all’uomo è soggetta all’uomo nel suo interesse, e come i bambini date le sue minori capacità, trae vantaggio dal suo ruolo subordinato.
MacIntyre si richiama alla tradizione cristiana poiché la interpreta come capace di superare le limitazioni e le esclusioni che per ragioni storiche erano contemplate dalla teoria della giustizia aristotelica, ma lo fa a costo di ignorare i presupposti gerarchici della struttura di genere sulla quale essa si basa.
In definitiva, la difficoltà di questa teoria contestuale del bene è il suo volontario ignorare il problema del dominio. Soltanto l’élite maschile può porsi il problema di cosa sia il bene, altre soggettività sono del tutto inesistenti.