ANNE PHILLIPS: IL RAPPORTO FRA UGUAGLIANZA E DIFFERENZA.
3. Differenza, uguaglianza delle opportunità, uguaglianza dei risultati.
Anne Phillips nell’articolo Defending equality of outcome, pubblicato dalla rivista Journal
of poltical philosophy nel 2004, attua un’indagine sul rapporto fra le differenze individuali,
quelle di gruppo, l’uguaglianza e la disuguaglianza183.
L’intento dell’autrice è di mettere in luce quanto sia importante considerare l’eguaglianza dei risultati per verificare che non vi sia una politica sostanziale di disuguaglianza dei sessi e di disuguaglianza razziale ed etnica.
Phillips scrive che non è semplice sostenere la nozione di uguaglianza dei risultati, poiché tale concetto viene spesso accusato di essere troppo semplicistico, e si utilizzano una serie di argomentazioni per screditarne la validità. Ci si chiede cosa si voglia eguagliare nei risultati, se le entrate, la felicità, il benessere e così via. Si afferma che eguagliare le risorse conduca a soprassedere sulla diversità delle preferenze e dei gusti: dato che ciò che le persone desiderano varia in maniera significativa, eguagliare le risorse comporterebbe che alcuni avrebbero a disposizione in eccesso risorse che ritengono inutili, e altri non avrebbero a sufficienza ciò che ritengono utile. Se invece si vuole eguagliare il benessere, è più facile che si vada incontro all’insoddisfazione, piuttosto che alla contentezza, data la varietà della nozione di benessere.
Un’altra argomentazione utilizzata contro l’eguaglianza dei risultati è che neghi l’importanza della responsabilità individuale e della scelta. Se una persona decide di conseguire più qualifiche, piuttosto che lavorare e guadagnare subito come fanno i suoi coetanei, perché si avrebbe da ridire se successivamente guadagna più dei suoi coetanei? Se una persona rinuncia a una vacanza dispendiosa con i suoi amici per fare un mutuo, perché si avrebbe da ridire se riesce a comprare una casa migliore dei suoi amici vacanzieri? Si sostiene che le persone debbano essere responsabili delle proprie azioni, e quindi non è giusto guardare ad ogni ineguaglianza di risultati come prova di ingiustizia sociale.
Inoltre, ogni politica che punta all’eguaglianza dei risultati è letta come un politica di invidia, un attacco a coloro le cui aspirazioni e conseguimenti eccedono una norma presupposta. I politici sono particolarmente attenti alle politiche di invidia, e di solito propongono la meno controversa uguaglianza di opportunità: non si aspettano che le persone ottengano gli stessi beni o lo stesso livello di felicità, ma ritengono sufficientemente equo che abbiano le stesse opportunità di conseguirli.
La politica dell’uguaglianza delle opportunità appare di solito più razionale e meno folle di quella dell’eguaglianza dei risultati. Vi sono poi teorici che interpretano l’eguaglianza delle opportunità nel modo più minimalista: si danno eguaglianza delle opportunità laddove non vi è discriminazione manifesta basata sul genere o la razza. L’ultima tendenza è invece quella di distinguere fra ineguaglianza illegittima che deriva da circostanze al di fuori del
nostro controllo e ineguaglianza legittima che deriva dall’esercizio della scelta personale. Così l’ineguaglianza è associata a circostanze sfortunate: nascere fisicamente debilitati, nascere in una famiglia povera, nascere privi di talento e abilità. Si propongono uguali opportunità per coloro che la natura ha favorito meno, di modo da compensare la mancanza di talento.
L’argomento definitivo per sostenere esclusivamente l’eguaglianza delle opportunità di contro all’eguaglianza dei risultati, è che se si danno a tutti le stesse opportunità, le restanti ineguaglianze derivano esclusivamente da scelte personali. Richiedere che tutti abbiano le stesse opportunità è una cosa, richiedere che tutti abbiano la stessa percentuale di successo è un’altra.
Ma soprattutto a livello accademico, vi è una critica ad un concetto di eguaglianza ristretto al denaro e alla ricchezza. È difficile sostenere che tutti debbano avere lo stesso denaro in uscita, ovvero che tutti debbano risultare egualmente ricchi, perché le preferenze fra l’accumulazione del denaro, l’avere a disposizione tempo libero, impiegare il tempo in attività remunerative o meno sono troppo divergenti. Così lasciare un lavoro cui si dà valore per uno cui si dà meno valore ma più remunerativo non è una scelta ovvia.
Un’ altra critica ad una concezione di eguaglianza basata soltanto sulla ricchezza è che il denaro non necessariamente indica la qualità della vita. Come sostiene Amartya Sen184, l’abilità di trasformare il denaro in opportunità è influenzata da una molteplicità di differenze individuali e sociali; il che significa che alcune persone hanno bisogno di più denaro di altre per sviluppare le stesse capacità. Differenze di età, di genere, disabilità, e così via, possono far sì che due persone pur avendo le stesse risorse monetarie a disposizione abbiano due qualità della vita completamente diverse. Il guadagno è un indicatore parziale; quello che conta non è quante risorse abbiamo, ma cosa siamo in grado di essere e di fare, ovvero le capacità che abbiamo, le funzioni che siamo in grado di attivare.
184 Amartya Sen, Development as freedom, Alfred A Knopf, New York 1999. Tr. It (a cura di) Gianni Rigamonti, Lo
sviluppo è libertà: perchè non c’è crescita senza democrazia, Mondadori, Milano 2000.
Amartya Sen (Santiniketan, Bengala, 1933) ha insegnato a Calcutta, Cambridge, a Delhi, alla London School of
Economics, a Oxford, e Harvard. Premio Nobel per l’economia nel 1998. é rettore del Trinity College a Cambridge. É
autore di numerosi saggi far cui: Poverty and faminess: an essay on entitlement and deprivation, Clarendon Press , Oxford 1981 (coautore) Bernard Williams, Utilitarism and beyond, Cambridge University Press, Cambridge 1982, tr. It.
Utilitarismo e oltre, presentazione di Salvatore Veca, Net, Milano 2002; Inequality reexamened, Clarendon Press,
Così avere diritti politici non è meno significativo di avere a disposizione risorse economiche adeguate. L’invito di Sen è di intendere il benessere in un’ottica più ambiziosa rispetto a quella che si basa esclusivamente sul livello delle entrate e delle risorse, e dirigersi verso la problematica di come gli individui possano divenire esseri autonomi, non pazienti delle loro vite, ma agenti di esse.
Per quanto concerne l’empowerment delle donne, questo significa domandarsi se le relazioni familiari diano ad alcune la possibilità di prosperare, mentre condannino altre a condizioni di dipendenza.