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La famiglia vista dalla teoria femminista

IL FEMMINISMO UMANISTA DI SUSAN MOLLER OKIN

9. La famiglia vista dalla teoria femminista

Nonostante vi siano femministe “conservatrici”232 che tendono a idealizzare la famiglia, la

maggior parte delle femministe ha criticato la famiglia strutturata secondo il genere, anche se questo non significa voler necessariamente attaccare tutte le varietà di famiglie.

Alcune femministe si impegnano affinché ogni gruppo in cui vi siano relazione intime e che lo desiderino possano essere riconosciute come famiglie, per cui si avanza il sostegno al matrimonio omosessuale. La maggior parte delle femministe criticano la distribuzione di potere disuguale nella famiglia, ma non per questo cadono nell’estremo di proporre l’abolizione di qualsivoglia famiglia.

Ma la tesi centrale del pensiero femminista sulla famiglia è il rifiuto di accettare come naturale ed inevitabile la divisione sessuale del lavoro. Se mutasse l’organizzazione familiare, muterebbero anche i rapporti fra i generi, ma finché la divisione sessuale del lavoro non sarà riconosciuta come problema dalla teoria politica e finché sarà incoraggiata

232 Okin fa riferimento a femministe quali Elshtain o Sarah Ruddick, cfr. capitolo della tesi “Sul pensiero materno e sul

socialmente e politicamente, le donne non otterranno l’uguaglianza né nella sfera privata né in quella pubblica.

Il femminismo ha mostrato la politicità di quello che prima era considerato alieno dalla sfera politica: la sessualità, il lavoro domestico, la cura dei figli e della vita familiare. Gli studi femministi hanno evidenziato quanto la segregazione e la disuguaglianza lavorativa delle donne sia connessa al ruolo domestico e quanto la socializzazione di genere che si ha nella famiglia sia legata all’oppressione psicologica della donna.

Sostenere la non ingerenza dello stato nella sfera domestica è sbagliato, non solo perché concretamente lo stato influisce in tale sfera, ma anche perché essa è strettamente interrelata alla vita sociale e politica.

Se il tratto distintivo della politica è la dinamica del potere, quello che avviene nella famiglia e nella vita personale non è immune da tale dinamica, quindi è politico. Pertanto è necessario opporsi ad una visione che vede il dominio del marito sulla moglie e dei genitori sui figli come qualcosa di naturale, quindi non politico, o come determinato dall’altruismo e dall’armonia di interessi e quindi estraneo a dinamiche di subordinazione.

Un esempio concreto di tale subalternità femminile è la violenza di genere diffusa nella sfera domestica. La violenza fisica perpetrata nei confronti di una moglie o di una fidanzata da parte del partner è più tollerata dalla gente, anche perché è un retaggio patriarcale del dominio maschile nella famiglia. La privacy richiesta dai primi teorici liberali legittimava il diritto dei mariti e dei padri di castigare fisicamente moglie e figli. E fino a non molto tempo fa la violenza in famiglia, anche se non ammessa de jure, veniva ignorata, in quanto vi era riluttanza sia da parte della polizia sia da parte dei tribunali ad intervenire in contesti considerati privati.

La violenza fisica domestica è strettamente connessa con la differenza di potere fra i sessi, infatti è agita sulle donne e non è l’unica dinamica di potere subita da queste. Sostenere la non ingerenza dello stato nella sfera domestica significa legittimare il potere economico e fisico dell’uomo adulto verso la moglie e i figli.

Bisogna tenere in considerazione che la stessa definizione di “sfera privata” e “domestica” è un atto politico, infatti i limiti che definiscono questo spazio, i tipi di comportamento accettabili e non accettabili in essa dipendono tutti da decisioni politiche.

È una falsità affermare che lo stato non si occupa della vita familiare, infatti impone le clausole del matrimonio. Per secoli esso ha negato la personalità giuridica delle donne

sposate; ha imposto alle donne di vivere con il marito, ha negato diritti normalmente esercitati dagli uomini nelle sfere del lavoro, del mercato e della politica, in virtù del fatto che esercitare questi diritti avrebbe impedito lo svolgersi dei loro compiti domestici. Nonostante lo stato fosse un agente attivo nel creare la domesticità, a livello ideologico si propugnava la separazione del pubblico dal domestico, e del politico dal personale. Lo stato decide attualmente chi si può sposare, chi è giuridicamente figlio, per quali motivi ci si può separare e divorziare. Lo stato determina le scelte domestiche che influenzano la dimensione esistenziale nella sua complessità.

È un dato di fatto che lo stato interviene nella vita domestica, quindi il problema non è se esso intervenga o meno, ma come interviene.

Il personale è politico anche perché in famiglia si acquisisce la prima identificazione di

genere. Teoriche come Nancy Chodorow233, hanno spiegato l’influenza che

nell’acquisizione del genere ha il fatto che il genitore primario sia di sesso femminile. Attraverso la teoria delle relazioni oggettuali Chodorow afferma che l’esperienza di individuazione di un bambino, ovvero separarsi da chi lo cura, con cui egli o ella è in principio psicologicamente fuso, è molto diversa per quelli dello stesso sesso di chi li cura, rispetto a quelli dell’altro. In una società strutturata secondo il genere, ove le allevatrici primarie sono quasi sempre le madri, o comunque donne, questo produce uno sviluppo differenziato per bambini e per bambine. Le bambine si identificano con il genitore madre che è sempre presente, invece i bambini si identificano con un genitore che spesso è assente. Questa differenza di comportamento genitoriale spiega la differenza psicologica riscontrabile nei sessi: le donne sono più legate psicologicamente agli altri, più propense a scegliere la cura e a sentirsi adeguate ad essa; gli uomini sono indotti invece ad una maggiore capacità di individuazione e ad essere considerati adatti ad essa. Il meccanismo psicologico è quello della riproduzione della maternità. La divisione sessuale del lavoro nella famiglia crea le differenze rilevanti fra uomini e donne, quindi la politicità della famiglia è innegabile.

Ci si dovrebbe chiedere come mai allora le donne sono nella maggioranza dei casi i genitori primari. Una risposta plausibile è l’esistente segregazione lavorativa delle donne in occupazioni a basso salario e senza sbocchi. È pertanto una scelta di natura economica che fa sì che siano le donne ad occuparsi dei figli, e ciò non fa altro che perpetuare il circolo

vizioso del genere, per cui le donne hanno uno status lavorativo inferiore rispetto agli uomini nella sfera sociale, e svolgono la maggior parte del lavoro non retribuito nella sfera domestica.

Infine la divisione sessuale del lavoro che avviene in famiglia istaura una barriera psicologica e pratica contro le donne in tutte le altre sfere. Nella sfera politica la partecipazione delle donne al dibattito e alle decisioni è puramente simbolica; nei tribunali la donna è penalizzata sia in quanto vittima sia in quanto avvocata a causa di pregiudizi maschilisti; nel lavoro la donna non solo è segregata in determinate occupazioni, ma subisce anche molestie sessuali. La generale penalizzazione del sesso femminile, rende difficile alle donne di muoversi dalla sfera privata a quella pubblica e viceversa. La separazione delle due sfere, di cui l’una sarebbe indifferente all’altra è del tutto ideologica.

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