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Una concezione “sportiva” della guerra: il torneo e la giostra come forme di addestramento e di svago dell’aristocrazia cavalleresca

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TESTO 75. Una concezione “sportiva” della guerra: il torneo e la giostra come forme di addestramento e di svago dell’aristocrazia cavalleresca

(note a cura di Silvia Susin)

L’addestramento cavalleresco prevedeva la formazione sia del corpo sia dello spirito, sia del valore guerresco sia della “cortesia”, una serie di virtù comportamentali da praticare nella società. Dal punto di vista della preparazione fisica, il giovane che aspirava al cavalierato cominciava a praticare esercizi di irrobustimento e a cavalcare fin dall’età di sette anni; successivamente si impratichiva nella cosa, nel salto, nella lotta, nel lancio del giavellotto, nell’arrampicata e nell’arte della scherma. Con la nomina a scudiero, infine, si specializzava nella cavalcata di caccia, nel nuoto, nella falconeria; cominciava inoltre ad essere istruito nelle maniere di corte, nello svolgimento di incarichi di fiducia o nel servizio di una dama.

La confidenza con l’equitazione e la necessità di un allenamento costante per la pratica bellica svilupparono successivamente una serie di attività equestri di carattere ludico – sportivo.

326 La “canzone di gesta” è un poema epico in lingua d’oil (l’antico francese), destinato originariamente ad essere

recitato oralmente, che narrava avventure e fatti d’arme di personaggi storici divenuti poi leggendari. Ne sono pervenute circa 90, tutte anonime, alcune in strofe di decasillabi e altre di endecasillabi, le più antiche con assonanze e le più recenti con rime a fine verso.

327 Orlando, o Rolando, fu il più noto dei comites palatini (“compagni di palazzo”, da cui il termine “paladini”) di Carlo

Magno: morì durante la battaglia di Roncisvalle, uno scontro di retroguardia con i Mori di Spagna, nel 778. Lo scontro divenne un’epica battaglia nella Chanson dedicata ad Orlando e la morte del paladino, che suona il corno (chiamato “olifante”) per chiamare i rinforzi e cerca inutilmente di spezzare la sua spada (la “Durlindana”) sulla roccia per non farla cadere nelle mani del nemico, entrò nella leggenda e nell’immaginario medievale e rinascimentale.

I cavalieri, l’abbiamo detto, muoiono relativamente di rado nei combattimenti. [...] ...molte delle ragioni chiamate in causa traducono la concezione cavalleresca della guerra: una specie di sport, certo pericoloso, ma in cui si prendono tutte le precauzioni per limitare i rischi grazie alla sicurezza offerta dall’armamento e alla deviazione dello scontro verso il suo aspetto ludico. Si tratta di uno sport dove i cavalieri si conoscono e imparano a stimarsi, talvolta si incontrano ora in veste di nemici, ora di alleati, cosa che crea fra gli avversari del giorno legami di solidarietà, se non di classe. Protezione, metodi di combattimento, concezione della guerra ed etica particolari distinguono nettamente i cavalieri da tutti gli altri combattenti.

Come abbiamo visto, il nuovo metodo di combattimento richiedeva, più ancora che in passato, un accordo tra le due parti. Di fatto, la carica aveva bisogno di un terreno sgombro abbastanza vasto e della mutua accettazione dello scontro. Di qui l’abitudine, giudicata “cavalleresca”, di preavvertire il nemico del luogo e del momento di un attacco. Talvolta si tratta addirittura di una bravata, di un “bluff” destinato ad impressionare l’avversario per spingerlo a rinunciare al combattimento, o di un mezzo per fare bella figura. […]

La professione dei cavalieri richiedeva una buona forma fisica e un regolare allenamento al combattimento. La caccia nelle vaste foreste, il loro svago favorito, forniva loro l’occasione di affrontare, con l’arco, ma anche con la lancia e con la spada, gli animali selvaggi ancora numerosi nell’Europa occidentale. Anche diverse attività “sportive” contribuivano al miglioramento della loro condizione fisica. Ma era necessario aggiungervi un addestramento specifico al combattimento a cavallo, soprattutto dopo il generalizzarsi della carica frontale.

L’abilità individuale nel maneggiare la lancia si acquisisce prima di tutto con l’esercizio della quintana329; si tratta essenzialmente di colpire con la punta dell’arma, a tutta velocità, lo scudo retto dal braccio trasversale di un manichino fissato a un palo e di schivare l’urto del colpo di ritorno sferrato dall’altro braccio, armato, del manichino. Altri giochi di guerra (hastiludium)330 sono probabilmente destinati a preparare i cavalieri ai combattimenti reali. Tuttavia, non ne abbiamo quasi traccia prima dell’XI secolo, epoca della comparsa dei tornei, termine generico che, a partire dal XII secolo, ingloba l’insieme degli esercizi guerreschi specifici della cavalleria.

Tali tornei presentano tre aspetti principali sui quali si fonda la loro specificità: un aspetto utile di allenamento ai reali combattimenti di guerra; una dimensione ludica che ne fa, insieme, un gioco ma anche uno sport per professionisti il cui scopo è di vincere per la gloria e per il guadagno, non di uccidere; un carattere festivo, che fa di queste assemblee uno spettacolo assai apprezzato da un pubblico numeroso ed entusiasta. Questi tre elementi uniti esaltano e cristallizzano i valori propri della cavalleria, contribuendo così alla formazione dell’ideologia cavalleresca. [...]

Sono, insieme, esercizi militari, scontri armati reali, giochi dove si può perdere o vincere, feste mondane e popolari. Questi aspetti riuniti costituiscono le ragioni principali del loro immenso successo.

Il loro aspetto guerriero e di utilità pratica è innegabile. Almeno fino alla metà del XIII secolo, il torneo si differenzia poco da una guerra. È un incontro organizzato che riunisce tutti gli aspetti di una battaglia reale: in una data fissata, in un luogo determinato in prossimità di una città dove prendono alloggio partecipanti e osservatori, guerrieri venuti da luoghi diversi scelgono volontariamente di partecipare a un combattimento che oppone due campi formati appositamente per questa occasione. In effetti, i partecipanti scelgono prima del torneo a quale campo desiderano appartenere. [...]

I metodi di combattimento sono quelli della guerra, proprio come le svariate armi utilizzate: i cavalieri vi prendono parte con i loro scudieri, fanti, arcieri, il ruolo e i numeri dei quali non sono

329 Dato che spesso il manichino veniva “vestito” per impersonare il nemico, e il nemico per eccellenza, per molti secoli

è stato il soldato di fede islamica o il pirata saraceno, la “giostra della quintana” veniva anche chiamata “giostra del saracino”: ancora oggi, alcune rievocazioni storiche, come quella di Arezzo, hanno questo nome.

ancora limitati come avverrà più tardi. La zona del confronto è assai vasta, attorno a una “città” che una delle due squadre difende (“quelli di dentro”), mentre l’altra l’assedia a partire dal proprio campo (“quelli di fuori”); questa zona comprende campi aperti, pascoli o coltivi per le cariche e le battaglie, boscaglie, foreste o vigneti per permettere le imboscate; le due squadre non sono uguali numericamente; le cariche sono collettive, e nulla impedisce a un gruppo numeroso di attaccare un isolato, un cavaliere disarmato o ferito. È proprio uno degli scopi del torneo: isolare l’avversario per catturarlo. Se viene preso, un cavaliere è messo “fuori gioco”, a meno di pagare un riscatto. Cavalli e armi catturate appartengono ai vincitori. Il torneo, come la guerra, procura ai vincitori bottino, prede e riscatti.

Tuttavia, differisce dalla guerra nello spirito. Qui infatti, secondo il nostro attuale vocabolario, si tratta di uno sport. Guerriero, violento, brutale, pericoloso, rischioso anche... ma pur sempre sport, e sport di gruppo. [...]

In effetti la mischia, come peraltro la battaglia della guerra normale, non inizia immediatamente con uno scontro di massa. È preceduta da una “messa in condizioni”: le commençailles, i preliminari, fatti di clamori, di sfide, di combattimenti individuali isolati, giostre dove generalmente si affrontano i più giovani, i bachelers. La giostra, che poco a poco va trasformandosi in una particolare forma di torneo, all’inizio non è dunque che una fase minore di quest’ultimo, e deriva dai combattimenti individuali. La si trova di solito all’inizio delle azioni, ma il vocabolo definisce altrettanto bene lo scontro di due cavalieri che, volontariamente o meno, si isolano dalla massa per combattere, nel torneo come in una qualsiasi operazione di guerra. Non bisogna quindi cercare di separare troppo presto la giostra dai tornei. Spesso essa è solo l’aspetto individuale di uno scontro collettivo.

La giostra propriamente detta assume tuttavia un’importanza sempre maggiore a seguito

dell’individualismo dei cavalieri, della loro ricerca di fama, dei progressi dell’armamento difensivo e del gusto del pubblico, in particolare femminile, desideroso di assistere ai tornei. Qui, lo scontro avviene in un campo chiuso, la lizza, spesso nel pieno centro della città; le barriere che separano i due avversari, tanto spesso descritte, non compaiono prima dell’inizio del XV secolo. Vi si combatte unicamente – o almeno principalmente – con la lancia. I progressi dell’armatura la rendono presto meno letale, al punto che le giostre restano spesso autorizzate anche nei periodi di proibizione dei tornei. La violenza dell’urto può tuttavia causare la morte di un uomo. È per questo motivo che, dal 1250, in alcune giostre e tornei compaiono armi smussate e lance dette “di

cortesia”, in cui la punta è sostituita da una corona a tacche. Da allora le giostre e i tornei “cortesi” si moltiplicano. La scelta delle armi si definisce di comune accordo, all’inizio dei tornei. Si nota allora che la scelta di armi da guerra (dette “a oltranza”) è invece quasi la regola nei combattimenti singolari o ridotti, organizzati durante le tregue, che mettono di fronte contingenti di “nazioni” avversarie in guerra. In questo caso, si tratta di una semplice riproduzione regolamentata di operazioni di guerra. Malgrado il loro distinto sviluppo, scontri guerreschi e tornei restano dunque mescolati e si influenzano l’un l’altro.

(Jean Flori, Cavalieri e cavalleria nel Medioevo, Einaudi, Torino, 1999, pp. 131, 135-136, 142-144, 154-155)

COMMENTO

Una serie di eventi così complessa ed avvincente, come quella descritta nel brano precedente, non poteva non generare una vera e propria ideologia torneale, che da un lato celebrava i vincitori e li additava ad esempio agli altri cavalieri, dall’altro dava lustro alle casate dei nobili organizzatori: ben presto quindi, un’attività nata per scopi ludici divenne un vero e proprio business, con tornei sempre più frequenti, premi sempre più remunerativi e cavalieri che diventavano quasi professionisti. Nel 1139 la Chiesa prese posizione contro questo genere di manifestazioni, che ovviamente non era affatto esente da incidenti mortali, nonostante il carattere dichiaratamente simulato del combattimento, e negò la sepoltura cristiana ai cavalieri deceduti nei tornei. Il grande

successo di queste manifestazioni però favorì ugualmente il loro sviluppo, generando addirittura un’ampia produzione poetica e letteraria, come il Livre des tournois di Renato d’Angiò (XV secolo). Il meccanismo messo in moto, così come era stato per i giochi ellenici e per i ludi romani, era dunque ormai troppo grande per essere fermato: la necessità di evitare però inutili spargimenti di sangue fece evolvere il “torneo”, competizione poco controllabile e molto pericolosa, nella “giostra”, uno scontro individuale più facile da regolamentare e meno rischioso.

Conclusioni

Al di là dei massimi sistemi dello sport mondiale, ormai ingovernabili e incontrollabili da parte dell’uomo della strada, questa antologia ha cercato di parlare a persone appassionate alla loro attività che cercano in ogni modo di migliorarla e sanno di poterlo fare perché si tratta di eventi educativi a portata di mano, di cuore e di mente, per utilizzare una nota metonimia di ascendenza pestalozziana.

Perché l’azione educativa fisico-sportiva sia efficace, però, c’è bisogno di una sana passione e di una grande cultura fisico-sportiva, capace di motivare la ricerca del gesto più appropriato, del metodo più adeguato, della giusta parola di incoraggiamento o di rimprovero.

Questi sono, in somma sintesi, i motivi di questa raccolta antologica centrata sull’educazione fisica e sulla pratica sportiva dell’antichità e del medioevo: offrire al pubblico un prodotto finito che rappresentasse non solo una piacevole lettura, ma anche e soprattutto una stimolante riflessione pedagogica sull’educazione fisica e sullo sport del mondo contemporaneo.

Il testo nel suo complesso e i singoli testi in esso raccolti contengono pertanto un messaggio prezioso, indirizzato non solo agli studenti del Corso di Laurea in Scienze Motorie dell’Università di Padova, ma anche e soprattutto ai protagonisti del mondo dell’educazione fisica e dello sport italiano, sia locali sia nazionale, ai quali viene offerta un’ulteriore occasione di riflessione su questo mondo dal quale tanto abbiamo ricevuto e al quale tanto dobbiamo restituire perché continui ad essere un infaticabile laboratorio di educazione e di promozione umana.

La lezione del mondo antico e del mondo medievale ci insegna un ripensamento profondo non solo delle radici di alcune nostre pratiche, ma anche e soprattutto nel senso che noi vogliamo dare alle pratiche educative e ricreative che oggi implementiamo e che domani vorremo migliorare.

Il curatore

Nicola Barbieri è ricercatore in storia della pedagogia presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Padova; insegna pedagogia generale e storia dell’educazione fisica e dello sport presso il Corso di Laurea in Scienze Motorie presso la Facoltà di Medicina. È stato educatore scout per dieci anni nel Corpo Nazionale Giovani Esploratori ed Esploratrici Italiani (CNGEI), e successivamente ha ricoperto incarichi regionali e nazionali; attualmente dirige il Centro Studi Scout “Eletta e Franco Olivo” di Trieste. In campo sportivo, pratica il judo da 20 anni ed ha conseguito il grado di cintura nera 2° dan e il diploma di allenatore; è anche istruttore presso i Centri di Avviamento allo Sport.

I collaboratori

Stefano Allegri, laureato in ingegneria civile idraulica presso l’Università degli Studi di Pavia, esercita la libera professione. È stato educatore scout per dieci anni nel CNGEI ed è attualmente impegnato nell’animazione pastorale della parrocchia di Sant’Agostino a Cremona.

Federica Fiori, laureata in lettere classiche presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Bologna, si è specializzata in archeologia. È stata educatrice scout per dieci anni nel CNGEI ed attualmente insegna e frequenta la Scuola di Specializzazione per gli Insegnanti di Scuola Superiore dell’Emilia Romagna.

Mirco Lanzoni è geometra esperto in pianificazione urbanistica e sistemi informativi territoriali presso il Comune di Reggio Emilia. In campo sportivo, pratica il judo da 35 anni ed ha conseguito il grado di cintura nera 4° dan e la qualifica di Maestro; direttore tecnico della Scuola di arti marziali Miyamoto Musashi di Reggio Emilia, è anche delegato provinciale del CONI per la Federazione Italiana Judo, Lotta, Karate ed Arti Marziali (FIJLKAM).

Agata Moretti, diplomata all’Accademia delle Belle Arti di Bologna, è docente abilitata di disegno e storia dell’arte, discipline che insegna presso le scuole medie inferiori e superiori della provincia di Reggio Emilia. È diplomata guida turistica.

Elena Poppi, laureata in economia aziendale presso la Facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Modena e specializzata presso la Scuola di Specializzazione in Diritto Amministrativo e Scienza dell’Amministrazione di Bologna, è dirigente al controllo interno e ai progetti europei del Comune di Reggio Emilia. È stata educatrice scout per dieci anni, con brevetto Wood Badge, ed ha ricoperto l’incarico di Commissaria Internazionale per conto del CNGEI. Luisa Poppi, laureata in giurisprudenza presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Parma, è magistrato presso il Tribunale di Locri. È stata educatrice scout per cinque anni nel CNGEI.

Silvia Susin, dopo la maturità classica, si è laureata in scienze dell’educazione presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Padova, con una tesi sulla storia della formazione professionale.

Laura Valentini ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Classico “Ariosto” di Reggio Emilia e si è laureata in filosofia presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Parma, con una tesi sul pensiero di Eraclito.

_______________________________________________ Stampato nel mese di aprile 2003

presso la C.L.E.U.P. “Coop. Libraria Editrice Università di Padova”

Tipografia e copisteria: Via G. Belzoni, 118/3 - Padova (Tel. 049 650261) tipografia@cleup.it www.cleup.it

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