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I giochi visti dalla parte degli arbitri: il sorteggio per le fasi eliminatorie delle discipline di combattimento ai giochi Olimpic

dei Cantic

TESTO 42. I giochi visti dalla parte degli arbitri: il sorteggio per le fasi eliminatorie delle discipline di combattimento ai giochi Olimpic

(introduzione, note e commento di Luisa Poppi)

Luciano di Samosata (121 – 181 d. C.) fu un prolifico scrittore di lingua greca, esponente della corrente della cosiddetta “seconda sofistica” ed autore di opere di retorica, di filosofia, di letteratura, di satira. Nei suoi scritti, in particolare quelli in forma dialogica, mette alla berlina i luoghi comuni della vita umana, condannando con toni beffardi e sarcastici la falsità e la stupidità che spesso la contraddistingue. Nell’Ermotimo, i protagonisti trovano il tempo di dedicare un po’ di attenzione agli aspetti “nascosti” degli eventi sportivi, una curiosità che per noi è oggi una preziosa fonte di informazione.

LICINO: Io credo che tu, Ermotimo, hai visto i giochi molte volte. ERMOTIMO: Sai bene che è proprio così: molte volte e in molti luoghi. LICINO: E ti sei mai seduto vicino a coloro che li presiedono?

ERMOTIMO: Sì, proprio poco tempo fa, nei giochi Olimpici, sedetti a sinistra degli arbitri, dove Evandride di Elide mi fece trovare posto tra i suoi conterranei. Io avevo davvero una gran voglia di vedere da vicino cosa fanno gli arbitri.

LICINO: E ti ricordo il modo in cui estraggono a sorte ed accoppiano i lottatori e i pancraziasti? ERMOTIMO: Me lo ricordo bene, certo!

LICINO: Tu dunque puoi dirlo meglio di me, dato che l’hai visto da vicino! ERMOTIMO: Anticamente, quando Ercole stabilì i giochi, le fronde di alloro …

LICINO: Lascia perdere queste anticaglie, Ermotimo! Dimmi piuttosto quello che hai visto da vicino! ERMOTIMO: Un’urna d’argento sacra al dio sta in mezzo208; in essa si mettono le sorti, che sono piccole come fave, e scritte. Due di queste hanno scritta un A, due un B, due un e così di seguito, e sono tante quanti sono gli atleti, e sempre due sorti portano scritte una medesima lettera. Ciascuno degli atleti si avvicina e, fatta una preghiera a Zeus, pone la mano nell’urna e ne trae fuori una sorte, e dopo di lui un altro: e vicino a ciascuno una guardia gli tiene la mano chiusa e non gli permette di leggere la lettera che ha estratto210. Quando tutti hanno in mano le loro sorti si dispongono in cerchio e l’atletarca211, o uno degli arbitri (non mi ricordo bene), gira intorno e guarda i due che hanno la lettera A, e li accoppia per la lotta o il pancrazio; poi unisce il B al B, e così gli altri che hanno la medesima lettera. Si fa in questo modo se gli atleti sono in numero pari, come quattro, otto, dodici; se sono dispari, come cinque, sette, nove, una lettera dispari e senza corrispondente si scrive sopra una sola sorte, che si pone nell’urna con le altre: chi trae questa lettera rimane seduto ad aspettare finché gli altri abbiano combattuto, perché non vi è controlettera. E questo non è davvero un piccolo vantaggio per una atleta, il combattere fresco contro quelli che sono già stanchi212.

(Luciano, Ermotimo, 39-40; in Luciano di Samosata, I dialoghi e gli epigrammi, traduzione di L. Settembrini, Fratelli Melita, Roma, 1988, p. 286)

208 Facciamo notare come, ancora in età tarda, persino le fasi preliminari dei giochi fossero vissute come rituali religiosi:

l’urna è consacrata al dio, gli atleti pregano prima di estrarre la loro sorte.

209 Le lettere sono le maiuscole greche: A = alpha; B = beta;  = gamma.

210 Questa forma di controllo poliziesco ci fa pensare che fosse comune cercare di “addomesticare” il sorteggio,

cercando di accoppiarsi con atleti accondiscendenti, ai quali restituire il favore in altre occasioni.

211 Letteralmente “colui che è a capo degli atleti”: il termine indica il giudice responsabile dei giochi, il quale

probabilmente delegava ai suoi subalterni il compito di seguire i sorteggi; questo spiegherebbe come mai Ermotimo “non ricordi” chi era il sovrintendente di quel sorteggio.

212 Una procedura molto simile è tuttora in vigore non solo negli sport di combattimento, ma in tutti quelli nei quali vi

siano dei gironi eliminatori. In alcune competizioni di judo nelle quali si ritrovino categorie con 3 atleti, si preferisce, se lo svolgimento delle gare lo permette, fare combattere tutti gli atleti due volte, anziché favorirne uno con la sorte ammettendolo alla finale senza combattere.

COMMENTO

Di Luciano apprezziamo in questo dialogo la caratterizzazione di Ermotimo come competente che cerca in tutti i modi di fare sfoggio del suo sapere, prontamente rintuzzato da Licino che lo riporta ad una descrizione sobria ed essenziale di ciò che lo interessa.

Ermotimo racconta di una procedura piuttosto rigorosa, che non deve lasciare spazio a contestazioni o ad imbrogli: tutto è minuziosamente regolamentato, dal modo in cui estrarre al modo in cui disporsi dopo l’estrazione. L’aspetto sacrale e rituale contribuisce anche ad attivare una funzione di controllo, meramente finalizzata alla regolarità e all’efficienza delle operazioni.

2.4. La concezione dell’educazione fisica e del gioco sportivo a Roma

Nonostante nell’immaginario collettivo la pratica motoria romana sia indicata come effetto dell’assimilazione di quella greca, preferiamo qui sottolinearne le differenze che, da impercettibili durante la sovrapposizione tra età ellenistica ed inizio dell’espansione romana nel Mediterraneo, diventeranno macroscopiche in età imperiale.

Secondo la tradizione, ben prima di entrare in contatto con i Greci, i Romani presero dagli Etruschi la passione per i giochi sportivi, ma più in generale per la festa da celebrare mediante lo spettacolo, chiamata ludus. Durante i Ludi, la principale attrazione erano i circenses (“giochi nel circo”), principalmente le gare di carri; successivamente furono organizzate le venationes (“cacce”), spettacoli in cui animali selvatici venivano cacciati nell’arena, e i ludi scenici (letteralmente “giochi sulla scena”), rappresentazioni teatrali di varia natura, dalle commedie “alte” di Terenzio, recitate da attori famosi come Esopo (il noto autore di favole), alle farse e alle azioni di mimo. Solo in tarda età repubblicana apparvero a livello pubblico degli spettacoli di gladiatori, dapprima organizzati privatamente in occasione della celebrazione di funerali, di solito nel Foro.

I Romani avevano quindi una consolidata tradizione di giochi quando incontrarono il mondo greco: proprio durante lo svolgimento dei giochi greci caratterizzati dall’atmosfera più popolare, i giochi Istmici di Corinto, nel 196 a. C. il console Lucio Quinto Flaminino ad effetto fece solenne, proclamazione della libertà della Grecia singolare segnale dell’inizio della “colonizzazione” culturale dei Greci vinti sui Romani vincitori. I Romani cominciarono a poco a poco ad assumere le usanze elleniche, come dimostra l’organizzazione a Roma dei primi giochi di stile grecizzante, nel 186 a. C. dopo la guerra etolica, da parte del console M. Fulvio Nobiliore. A questi giochi, caratterizzati da un alto grado di spettacolarità, con atleti fatti venire apposta dalla Grecia ed animali feroci importati dall’Africa, se ne aggiunsero poi altri, nella tarda repubblica, tutti promossi in occasione di vittorie militari: di questi giochi si può supporre, dato che non abbiamo notizie dettagliate sui loro contenuti, che avessero un programma simile alle gare olimpiche, per imitarne il prestigio; che gli atleti gareggiassero vestiti alla leggera e non nudi; che la partecipazione degli atleti fosse incentivata o con sovvenzioni generalizzate o con premi anche per i secondi e i terzi classificati. Peraltro, questi calchi romani dei giochi greci non scalzarono la preferenza per i ludi di derivazione etrusca nei quali si stavano diffondendo sempre più le competizioni gladiatorie.

Come abbiamo visto, i Romani conobbero il mondo greco relativamente tardi, quando da tempo non era più indipendente politicamente e, almeno inizialmente, manifestarono sempre una certa alterità rispetto alle forme dell’agonismo greco. In primo luogo, i Romani contestavano l’aspetto del professionismo organizzato, dato che, almeno durante il periodo repubblicano, non concepivano che dei cittadini perdessero il loro tempo in competizioni agonistiche. In secondo luogo, essi avevano forme di esterofobia assai pesanti, come è dimostrato da più fonti storiche e letterarie: apprezzare o addirittura importare forme di cultura non romane significava inquinare la cultura nazionale, quindi anche partecipare a giochi greci od organizzare simili manifestazioni rientrava in questo sintomo di debolezza. In terzo luogo, i Romani criticarono sempre, anche in epoche molto distanti tra loro, la nudità degli atleti greci, sulla base di un comune sentire assai diverso e di forme di pudicizia molto più marcate rispetto al mondo greco. Infine, i Romani con

compresero mai a fondo il significato dei giochi ellenici come forma di identità nazionale per un popolo unito dalla cultura e diviso dalla politica, visto che l’identità nazionale romana si esprimeva sempre in forma unitaria, fondata su un’idea di progressiva condivisione sociale dell’unico potere statale, per cui appartenenza ad un territorio e cittadinanza erano un tutt’uno. I

ludi romani, quindi, furono sempre molto più simili ai giochi etruschi che a quelli ellenici, e

questi ultimi non furono più osteggiati sono nella fase imperiale, quando Roma era ormai una grande città cosmopolita, una sorta di melting pot dell’antichità, e i veti degli antichi patres erano venuti meno perché non più sostenuti da un forte senso della romanità.

Una radicale svolta a favore dei giochi grecizzanti si ebbe grazie sotto il principato di Ottaviano Augusto che, contrariamente a molti governatori delle province orientali che avevano cercato di scoraggiare la pratica delle feste atletiche, promosse un atteggiamento positivo nei loro confronti: per esempio, dopo la vittoria navale di Azio, restaurò dei giochi atletici preesistenti chiamandoli

Actia (“i giochi della città di Azio”), e poi istituì delle vere e proprie Olimpiadi romane, che

originariamente prevedevano solo gare ginniche e nelle quali poi confluirono tutte le competizioni tipiche dei “giochi del periodo”, compresi gli agoni musicali. Questa maggiore attenzione ai giochi atletici è testimoniata anche dal maggior spazio che questi ricevono nella letteratura dell’età augustea, da Orazio ad Ovidio fino ad arrivare, come vedremo, a Virgilio.

La politica sportiva di Augusto fu ripresa da tutti gli imperatori: Caligola inventò competizioni tra pugili campani e pugili africani a Roma, giochi greci a Siracusa e gare di oratoria greca e latina a Lione; Nerone nel 60 d. C. celebrò il quinto anniversario dell’inizio della sua dominazione istituendo una festa grecizzante comprendente agoni ginnici, ippici, musicali, retorici e drammatici, e fece organizzare ad Olimpia un’edizione straordinaria dei giochi, la 221^, partecipandovi in prima persona; Domiziano istituì giochi in onore di Giove Capitolino, nella quale i vincitori ottenevano in premio una corona di fronde di quercia; Antonino Pio istituì dei giochi greci a Pozzuoli, per celebrare l’imperatore Adriano recentemente scomparso, proseguendo il legame tra rito funebre e giochi sportivi. L’atteggiamento degli imperatori nei confronti dei giochi greci fu di incoraggiamento interessato, intravedendo in essi un utile instrumentum regni, come dimostra anche la politica di concessione della cittadinanza romana agli atleti migliori, o il largheggiamento in onorificenze e titoli ai protagonisti del mondo sportivo.

Ad ogni modo, i giochi romani mantennero sempre differenze marcate rispetto ai giochi greci. In primo luogo, gli agones greci furono sempre delle gare caratterizzate da una sfida “seria”, mentre i ludi romani erano dei “giochi” nel senso moderno del termine, eventi considerati un puro diversivo dalla vita quotidiana. In secondo luogo, quindi, mentre gli agones avevano lo scopo di far gareggiare atleti e di far conquistare loro dei premi, materiali o immateriali, i ludi romani avevano un senso solamente per coloro che vi assistevano, avevano una pura e semplice valenza spettacolare. Infatti, e questa è la terza differenza, mentre gli atleti greci erano cittadini, uomini liberi, i partecipanti ai ludi erano prevalentemente schiavi, o comunque individui prezzolati: se gli spettatori greci, i quali in ogni caso richiedevano agli atleti una “spettacolare” condotta di gare, si sentivano rappresentati da essi, o perché conterranei o perché comunque connazionali, gli spettatori romani vedevano nei partecipanti ai ludi solamente dei professionisti dello spettacolo, che nulla rappresentavano ai loro occhi dal punto di vista dei valori della romanità: nel caso dei

ludi gladiatorii, poi, la loro vita non aveva alcun valore. Infine, mentre per il cittadino greco era

normale partecipare direttamente agli agones, o comunque vedere suoi concittadini partecipare, per il cittadino romano aveva senso solo partecipare in qualità di spettatore.

Molte analogie ci sono invece tra il mondo etrusco e quello romano, visto che quest’ultimo avrebbe reperito giusto in quello diversi elementi della propria peculiare cultura sportiva: prima di tutto, il gusto dell’attività sportiva come gioco e come spettacolo; in secondo luogo, i luoghi della pratica ludica (il “circo”), in terzo luogo i tipi di manifestazione (ginnico – atletica, gladiatoria, musicale) derivanti dai giochi funebri. Nelle prime fasi dei ludi romani, gli atleti, specialmente i cavalieri e i pugili, provenivano dall’Etruria, a testimonianza di un primato consolidato in questo tipo di attività.

In conclusione, nel variegato panorama delle popolazioni della penisola italica, i Romani fusero tradizioni autoctone ed elementi di importazione dando avvio, sempre all’interno di una dimensione sacrale e rituale, a forme ludico – sportive dell’espressione corporea e dell’attività motoria in genere di grande impatto spettacolare.

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