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Condanna dell’Italia per discriminazione disabili sul lavoro Con la sentenza del 4 luglio 2013, nella causa Commissione c.

italiano per mancato o inesatto recepimento delle direttive europee.

5.5 Condanna dell’Italia per discriminazione disabili sul lavoro Con la sentenza del 4 luglio 2013, nella causa Commissione c.

Repubblica italiana, la Corte di giustizia dell’Unione europea, adita dalla Commissione europea con il ricorso per inadempimento, condanna l’Italia per avere violato l’art. 5 della direttiva 2000/78 del 27 novembre 2000111 attuata in Italia con il decreto legislativo n. 216 del 9 luglio 2003 – che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro –, non avendo questa imposto a tutti i datori di lavoro di prevedere, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, soluzioni ragionevoli

applicabili a tutti i disabili.

La pronuncia della Corte ha origine da un procedimento di infrazione avviato nei confronti dell'Italia dalla Commissione europea nel 2006 e culminato nel 2011 a seguito della risposta italiana di conferma della propria posizione del 13 gennaio 2010.

L’art. 5 della direttiva 2008/78/CE prevede che:

<< per garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili, sono previste soluzioni ragionevoli. Ciò significa che il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato. Tale soluzione non è sproporzionata allorchè l’onere è compensato in modo sufficiente di misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore dei disabili>>.

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Pubblicata nella G.U.C.E. 2 dicembre 2000, n. L 303. Entrata in vigore il 2 dicembre 2000

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Secondo la Commissione, in particolare, contrariamente a quanto prescritto dalla normativa europea, le disposizioni italiane concernenti il trattamento delle persone disabili in materia di occupazione (tra cui la l. 68/1999), circoscrivono la tutela solo ad alcune tipologie di disabilità specificamente individuate, non gravano su tutti i datori di lavoro e non riguardano neppure tutti i diversi aspetti del rapporto di lavoro. Nemmeno la legge n. 381/1991 e la legge n.104/1992 garantiscono in pieno che tutti i datori di lavoro siano tenuti ad adottare provvedimenti efficaci e pratici, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, a favore dei disabili, come esige l’art. 5 della Direttiva 2008/78112.

La difesa italiana113, nel suo controricorso, rispetto alla prima censura sollevata dalla Commissione, ha sostenuto davanti alla Corte che né la direttiva né la giurisprudenza della Corte di giustizia contengono una definizione di disabilità o di handicap che abbia un contenuto concreto e specifico.

La Corte di giustizia ha respinto questo argomento richiamandosi alla sentenza resa, l’11 aprile 2013, nella causa C-335/11 e C-337/11, HK Denmark, in cui ha affermato che, <<alla luce della Convenzione dell’ONU, la nozione di “handicap” deve essere intesa nel senso che si riferisce ad una limitazione risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature che, in interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori>>. Sulla base di tale premessa, la Corte ha affermato che «l’espressione “disabile”

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A. Casotti – M. R. Gheido, Misure per l’occupazione e la crescita, Milano, IPSOA, 2013, Cit. pag. 129.

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utilizzata nell’articolo 5 della direttiva 2000/78 deve essere interpretata come comprendente tutte le persone affette da una disabilità corrispondente alla definizione enunciata nel punto precedente.

Al tempo stesso, però, la Corte ha espresso un principio importante, affermando che la direttiva adotta il termine handicap ma non ne fornisce una definizione, né fa rinvio al diritto degli Stati membri. In base al principio dell’applicazione uniforme del diritto eurounitario e a quello di uguaglianza, quindi, la nozione di handicap deve essere oggetto di un’interpretazione autonoma e uniforme nell’Unione europea, tenendo conto del contesto della disposizione e delle finalità della normativa di cui trattasi.

In ottemperanza al dettato europeo, il datore di lavoro è tenuto a prendere i provvedimenti appropriati per consentire ai disabili l’esecuzione del lavoro.

Parimenti, la Corte di giustizia non ha accolto la difesa dell’Italia secondo cui nulla nel testo della direttiva 2000/78 giustificherebbe la posizione della Commissione per cui l’unica modalità accettabile ed idonea a dare applicazione all’art. 5 della direttiva sarebbe l’imposizione di obblighi a carico dei datori di lavoro nei confronti di tutti i lavoratori disabili, e non anche quella consistente nell’organizzare un sistema pubblico e privato atto ad affiancare il datore di lavoro e il disabile.

Per lo Stato italiano l’attuazione della norma può avvenire anche mediante la predisposizione di un sistema di promozione dell’integrazione lavorativa dei disabili essenzialmente fondato su un

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insieme di incentivi, agevolazioni, misure e iniziative a carico delle autorità pubbliche, e in parte su obblighi imposti ai datori di lavoro. Un sistema che nel nostro Paese è il risultato – come sostenuto dall’Italia – della normativa in materia di collocamento mirato, di cooperative sociali, della legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone con disabilità e, sul versante delle mansioni specifiche del lavoratore, sulla normativa in materia di tutela della salute e sicurezza sul lavoro.

Questa interpretazione non è stata condivisa dalla Corte di Giustizia europea, secondo cui, al contrario, l’art. 5 della Direttiva 2000/78, letto alla luce dei considerando 20 e 21, introduce un sistema di obblighi a carico di tutti i datori di lavoro, che non possono essere sostituiti da incentivi e aiuti forniti dalle autorità pubbliche.

<<È compito degli Stati membri imporre a tutti i datori di lavoro l’obbligo di adottare provvedimenti efficaci e pratici, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, a favore di tutti i disabili, che riguardino i diversi aspetti dell’occupazione e delle condizioni di lavoro e che consentano a tali persone di accedere ad un lavoro, di svolgerlo, di avere una promozione o di ricevere una formazione114>> Ora, poiché nella normativa italiana, considerata nel suo complesso, mancano disposizioni in grado di imporre a tutti i datori di lavoro l’adozione “di provvedimenti efficaci e pratici, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, a favore di tutti i disabili, che riguardino i diversi aspetti delle condizioni di lavoro e consentano loro di accedere ad un lavoro, di svolgerlo, di avere una promozione o di ricevere una formazione” secondo quanto disposto dall’articolo 5 della direttiva, l’Italia ha violato il diritto dell’Unione.

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La Corte definisce, quindi, l’ambito di applicazione soggettiva ed oggettiva del principio del ragionevole adattamento che, al di là di quanto normative promozionali dell’occupazione possano prevedere, come nel caso italiano la l. n. 68 del 1999, si estende a tutti i datori di lavoro, a tutte le persone con disabilità nell’accezione fatta propria

dalla Corte e ai diversi profili dell’occupazione, comprendendo anche l’accesso, la formazione e la progressione di carriera.

5.6Responsabilità civile dei magistrati per i danni arrecati ai singoli a

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