Capitolo 4. Il rapporto delle fiabe con i miti: motivi ricorrenti e linguaggio simbolico
4.1 I confini del fiabesco rispetto al mito
Nel tentativo di delinearne i caratteri e le specificità della fiaba, non risulta possibile prescindere dal legame che sembra collegarla al mito – in qualità di narrazione fantastica e simbolica – al quale spesso attinge.
Le fiabe possono essere considerate come la forma decaduta del mito: secondo questa prospettiva, i caratteri spirituali e religiosi del mito – quale narrazione in cui è riassunto simbolicamente il senso del rituale sacro, compreso quello iniziatico tribale – si sarebbero deteriorati nel corso del tempo per lasciare il posto a racconti dal valore puramente estetico e di intrattenimento. Una volta caduta storicamente l‟usanza del rito di passaggio alla vita adulta, la traccia della sua conservazione si sarebbe riversata nei racconti degli anziani che, tramandati di voce in voce, si sono trasformati nelle fiabe popolari – patrimonio orale di tutte le civiltà – perdendone la caratterizzazione religiosa di verità di fede. Questa è la tesi sostenuta da Propp in Istoričeskie korni volšebnoj skazki (Le radici storiche dei
racconti di fate), testo del 1946 nel quale la nascita della fiaba di magia – e
probabilmente di tutti i tipi fiabeschi – come espressione artistica è collocata nel momento di distacco della narrazione dal rito mistico-iniziatico, una volta sancito l‟abbandono di quest‟ultimo: “liberata dai convenzionalismi religiosi, essa evade
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nella libera atmosfera della creazione artistica che riceve il suo impulso da fattori sociali già diversi, e incomincia a vivere una vita rigogliosa”274
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Riguardo la teoria della fiaba come mito decaduto, la junghiana Von Franz sostiene che in essa sia contenuta una parte di verità, precisando che “La fiaba è come il mare, mentre leggende e miti somigliano alle onde in superficie: un racconto si innalza fino a diventare un mito e si abbassa di nuovo, ridiventando una fiaba”275
. Dunque, la posizione del mito al livello della superficie, ovvero il suo innalzamento rispetto alla fiaba, è data dalla maggiore vicinanza alla coscienza razionale e al materiale storico conosciuto da una civiltà; il racconto fiabesco, invece, si otterrebbe da una sorta di inabissamento della narrazione, perché la sua semplice struttura racchiude contenuti che corrispondono alle profondità della psiche collettiva. È in questo senso che può essere inteso il decadimento della fiaba rispetto al mito, più che nell‟ottica di un impoverimento o corruzione di un originario significato di maggior rilievo. Per Von Franz, l‟origine delle fiabe può intrecciarsi anche con le leggende locali, laddove la narrazione prenda in prestito il ricordo di un episodio particolare per trasportarlo in una dimensione di vaghezza e genericità, così da poter essere riferito ipoteticamente a tutti. Ciò sarebbe dimostrato dal fatto che nel racconto di una fiaba solitamente non si indugia sulla descrizione delle emozioni del protagonista: l‟eroe agisce secondo uno schema quasi stereotipato, come sottolinea Von Franz richiamandosi allo studioso svizzero Max Lüthi, autore di La fiaba popolare europea.
In direzione opposta ad una concezione della derivazione della fiaba dal mito si colloca la posizione del linguista e romanziere J.R.R. Tolkien, che nel saggio
Sulle fiabe (1947) presenta il mito e la fiaba come due elementi del cosiddetto
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V. Propp, Le radici storiche dei racconti di fate, Boringhieri, Torino, 1985, p 574.
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Albero dei racconti, dove la diversa collocazione dei rami non corrisponde a una
differenza di livello e rilevanza. Mediante un‟ulteriore e significativa metafora, lo scrittore britannico rende ancor meglio il senso di una tale concezione: egli afferma che entrambi i generi sono raccolti in un medesimo contenitore, ossia il
Calderone della Narrazione, nel quale ribollono numerosi ingredienti da tempo
immemore, che i cucinieri – ovvero i narratori – mescolano a piacimento sino ad estrarne la trama da diffondere. Può capitare, allora, che un motivo analogo si riscontri nella forma aulica di un mito ed altrettanto in un racconto popolare quale una fiaba; secondo Tolkien, una tale ricorrenza sta ad indicare che i due racconti derivano da una stessa materia, modellata in maniera differente: a seconda di ciò che viene scelto dall‟insieme del calderone, la vicenda viene attribuita alle figure divine delle credenze mitiche, oppure resta a livello di personaggi umani, anonimi e comuni, come quelli delle fiabe popolari (le cui avventure possono svilupparsi anche in mondi fantastici, costellati da elementi straordinari).
Soffermiamoci sulle divergenze che intercorrono fra i due generi, in linea con le osservazioni riportate da Bettelheim in Il mondo incantato. Come egli nota, una prima differenza si evince dalla maniera in cui le vicende straordinarie vengono narrate: nel mito è trasmessa una sensazione di unicità, mentre nella fiaba traspare quella di ordinarietà. Il racconto mitico, impregnato di sacralità e verità spirituali connesse a precise visioni del mondo, narra eventi che si intrecciano con le volontà e le azioni delle divinità. Il mito trasmette la particolarità e la grandiosità di un accadimento miracoloso, la cui esclusiva singolarità esige il riconoscimento nominativo nel momento della narrazione: tutti gli eroi mitici sono chiamati per nome proprio, così come tutto l‟insieme dei personaggi coinvolti, diversamente dalla genericità caratteristica della fiaba. In essa – sottolinea Bettelheim – anche
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gli avvenimenti più insoliti e meravigliosi sono presentati attraverso un tono di consuetudinarietà, come per suggerire la possibilità che capitino, ad un tratto, a chiunque si trovi in analoghe situazioni di partenza. È per questo che nella narrazione fiabesca è usuale il ricorso a denominazioni e descrizioni generiche e vaghe, così da poter essere accolta come il racconto di qualcosa che ci è vicino, il quale parla di noi e delle nostre possibili esperienze:
La fiaba, invece [rispetto al mito], avverte chiaramente che parla di persone comuni, assai simili a ciascuno di noi. Titoli tipici sono La Bella e la Bestia, La fiaba dell‟uomo che voleva conoscere la
paura. Anche storie di recente invenzione ricalcano questo modello: per esempio Il piccolo principe, Il brutto anatroccolo, Il soldatino di stagno. I protagonisti delle fiabe vengono chiamati
“una ragazza”, per esempio, oppure “il fratello minore”. Se compaiono dei nomi, è chiarissimo che non sono nomi propri, ma generici o descrittivi. Ci viene detto che “Era sempre sporca di cenere, e per questo la chiamarono Cenerentola”, oppure: “Aveva un cappuccio rosso che le stava così bene che fu chiamata per sempre Cappuccetto Rosso”. Anche quando l‟eroe riceve un nome, come nelle storie del ciclo di Jack o in Hansel e Gretel, l‟uso di nomi comunissimi li rende dei termini generici, validi per qualsiasi ragazzo o ragazza.276
Nella fiaba il protagonista si trova, seppure in circostanze fantastiche, ad affrontare problemi del tutto comuni (quali la gelosia provata dai fratelli, l‟esser vittima di ingiustizie, il non riconoscimento delle proprie capacità da parte dei genitori…), situazioni che vengono districate sino al raggiungimento di una risoluzione positiva. Come riconosciuto da Bettelheim, una fondamentale caratteristica della fiaba consiste proprio nella presenza del lieto fine, punto culminante di una prospettiva ottimistica e rassicurante cui si contrappone il pessimismo che solitamente avvolge il mito. L‟eroe mitico, trasposto in un contesto trascendente rispetto alla normalità, si sente schiacciato sotto il peso del confronto con gli dei: lo psicoanalista precisa che tali figure rappresentano le
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richieste del Super-Io, investendo una moralità che nella prospettiva dell‟esistenza umana risulta impossibile osservare per intero, poiché vi entrano in collisione le tendenze ed i desideri inconsci, così come i meccanismi difensivi dell‟Io. Un emblema del pessimismo della narrazione mitica che Bettelheim stesso riporta, trattandosi peraltro di un elemento significativo dell‟impianto teorico psicoanalitico, è la vicenda di Edipo, il quale, ignaro della propria effettiva identità – egli si crede figlio dei reali di Corinto – uccide un uomo con il quale si scontra in una diatriba e sposa la regina di Tebe, la vedova Giocasta, per giungere in seguito a scoprire di essere l‟uccisore del padre e di aver commesso un incesto sposando la madre. L‟oracolo di Delfi gli aveva già predetto una simile sorte ed egli crede di sfuggirvi abbandonando Corinto: la sua decisione risulta vana e non gli consente di sfuggire al proprio tragico destino. Venuto a conoscenza della drammatica verità, Edipo si acceca e si allontana definitivamente da Tebe. Il protagonista fiabesco, invece, vive delle avventure surreali proprio all‟interno della cornice dell‟esistenza terrestre, esprimendo simbolicamente il percorso di autorealizzazione individuale come un tragitto che passa attraverso delle prove, sino al traguardo di un esito positivo, raggiunto con il compimento del trionfo personale.
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