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Capitolo 3. Le fiabe in psicoanalisi e nella psicologia analitica

3.3 Le fiabe nelle opere di C G Jung

Carl Gustav Jung (1875-1961), psicologo svizzero, fondatore della psicologia analitica (conosciuta anche come psicologia del profondo) colloca le fiabe fra le manifestazioni dell‟inconscio collettivo, assieme ai miti. Il concetto di inconscio collettivo costituisce uno degli elementi teorici che differenziano Jung rispetto al maestro Freud; il dissenso intellettuale nei confronti di quest‟ultimo diviene evidente nel 1912 con la pubblicazione di Wandlungen und Symbole der Libido (Trasformazione e simboli della libido) – opera rivista ed ultimata sino all‟edizione del 1952 dal titolo Symbole der Wandlung-Analyse des Vorpiels zu

einer Schizophrenie (Simboli della trasformazione-Analisi dei prodromi di un

caso di schizofrenia) – sebbene la rottura dei loro rapporti sia datata ufficialmente

l‟anno successivo, nel 1913.

Per quanto riguarda la concezione dell‟inconscio, Jung sostiene che esso sia composto oltre che da uno strato personale (il quale comprende i complessi individuali a tonalità affettiva) da uno più profondo che viene definito collettivo, in quanto innato ed universalmente presente in tutti gli uomini, diversamente da Freud che si è limitato ad una descrizione del carattere personale di tale sfera psichica. È lo stesso Jung a riconoscere:

Per Freud l‟inconscio, benché almeno metaforicamente compaia già come soggetto attivo, in sostanza non è altro che il punto ove convergono questi contenuti rimossi e dimenticati, e deve ad essi soli la sua importanza pratica. Conseguentemente, secondo questo modo di vedere, esso è esclusivamente di natura personale, benché d‟altra parte Freud ne abbia riconosciuto la modalità di pensiero arcaico mitologica.177

177

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Pertanto, anche l‟approccio freudiano alla dimensione del folclore rimane legato al tentativo di individuare corrispondenze con alcune condizioni psichiche individuali: per quanto tipici, i motivi fiabeschi cui Freud ricorre nelle sue opere vengono solitamente utilizzati in riferimento all‟area personalistica della psiche. A questo proposito Saverio Parise commenta nel saggio Le fiabe: “i racconti popolari sono per Freud il luogo in cui si manifesta un simbolismo che nella psiche individuale appare fortemente deformato dalla censura. In tale prospettiva, la narrazione e l‟ascolto delle fiabe consentono alla coscienza di accostarsi a contenuti repressi o addirittura rimossi, altrimenti inavvicinabili”178

.

La prospettiva junghiana, invece, apre ad una dimensione collettiva. Secondo Jung, i contenuti dell‟inconscio collettivo sono gli archetipi, ossia immagini primordiali, che costituiscono le strutture a priori dell‟esperienza psichica, una sorta di eredità derivata dall‟umanità primitiva. In Der Begriff des kollektiven

Unbewussten (Il concetto di inconscio collettivo) – originariamente conferenza

tenuta a Londra nel 1936 – Jung afferma, per l‟appunto:

[…] oltre alla nostra coscienza immediata, che è di natura del tutto personale e che riteniamo essere l‟unica psiche empirica (anche se vi aggiungiamo come appendice l‟inconscio personale), esiste un secondo sistema psichico di natura collettiva, universale e impersonale, che è identico in tutti gli individui. Quest‟inconscio collettivo non si sviluppa individualmente, ma è ereditato. Esso consiste di forme preesistenti, gli archetipi, che possono diventare coscienti solo in un secondo momento e danno una forma determinata a certi contenuti psichici.179

Fra i contesti in cui gli archetipi trovano espressione vi sono le fiabe e i miti, anche se bisogna precisare che in questi casi “si tratta di forme specificatamente improntate, trasmesse nel corso di lunghi periodi”180

, ossia sottoposte ad

178

S. Parise, “Le fiabe” in A. Carotenuto, Trattato di psicologia analitica, Utet, Torino, 1992, p 620.

179

C. G. Jung, “Il concetto di inconscio collettivo” in Opere vol. 9*, cit., p 44.

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un‟elaborazione cosciente che manca nell‟essenza dell‟archetipo. In se stessi gli archetipi sono semplicemente delle vuote possibilità di rappresentazioni, presenti in ogni tempo e luogo: esse si concretizzano in un contenuto specifico quando vengono calate nelle trame dei racconti e rappresentate secondo tratti particolari. Nell‟ottica junghiana, le narrazioni fiabesche e mitiche rientrano nelle rappresentazioni collettive attraverso le quali l‟umanità primitiva ha cercato di consolidare la coscienza per giungere ad una comprensione della propria dimensione psichica: parafrasando un‟espressione junghiana presente in Über die

Archetypen des kollektiven Unbewussten (Gli archetipi dell‟inconscio collettivo) –

scritto pubblicato nel 1934 e poi riveduto nell‟edizione del 1954 –, si tratta di muraglie erette sin da epoche remote contro il pericolo di rimanere inconsci a se stessi. È per questo che Jung definisce i miti come manifestazioni psichiche, nelle quali i fenomeni descritti non vanno interpretati in senso allegorico, bensì come proiezioni di dinamiche inconsce. Egli scrive, infatti, che “[…] la psiche contiene tutte quelle immagini dalle quali i miti sono sorti, e che il nostro inconscio è un soggetto attivo e passivo, il cui dramma l‟uomo primitivo ritrova per analogia in tutti i processi naturali grandi e piccini”181.

All‟interno del vasto corpo delle opere di Jung, le fiabe trovano uno specifico spazio di trattazione nel saggio Zur Phänomenologie des Geistes im Märchen (Fenomenologia dello spirito nella fiaba), pubblicato dapprima nel 1945, per poi essere ampliato nell‟edizione definitiva del 1948. Qui Jung si occupa dell‟archetipo dello spirito, termine con cui viene inteso quell‟aspetto della psiche che è all‟origine delle manifestazioni immateriali e produce spontaneamente immagini, senza che queste siano connesse alla percezione sensoriale. Dapprima

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Jung mostra che a livello individuale tale archetipo può manifestarsi nei sogni sotto forma di una figura paterna, dispensatrice di consigli o proibizioni, come vecchio saggio nella veste di sacerdote, mago o maestro e in alcuni casi anche come gnomo o animale parlante. Spostandosi sul piano collettivo Jung indirizza l‟attenzione sulle fiabe, nelle quali “l‟anima testimonia di se stessa e gli archetipi si rivelano nella loro naturale combinazione come „formarsi, trasformarsi, eterno gioco dell‟eterno senno‟ ”182

. Nel contesto fiabesco – analogamente a quello onirico, con la sola differenza di una tratteggiatura più generica rispetto alle caratteristiche specifiche assunte nei casi individuali – lo spirito è rappresentato dal personaggio del vecchio, il quale accorre in aiuto al giovane eroe: quando quest‟ultimo si trova in una situazione critica e manca della capacità riflessiva o intuitiva necessaria per uscirne, “a compensarne la deficienza interviene la cognizione necessaria sotto forma di pensiero personificato, appunto, nella figura del vecchio portatore di aiuto e consiglio”183

. Tale figura spinge l‟eroe alla presa di coscienza, condizione attraverso cui è possibile raccogliere le forze per reagire e superare la criticità del momento. Riguardo alle sue modalità di intervento, Jung precisa:

Spesso nelle fiabe il vecchio interroga sul chi, sul perché, sul donde e sul dove, per avviare con ciò la riflessione su se stessi e la concentrazione delle forze morali; ancora più spesso egli accorda i mezzi magici necessari, cioè l‟insperata e improbabile capacità di successo che rappresenta una caratteristica della personalità unificata nel bene e nel male. Altrettanto indispensabile appare l‟intervento del vecchio, cioè la spontanea oggettivazione dell‟archetipo, in quanto la sola volontà cosciente non può essere in grado di unificare la personalità, così da farle raggiungere una straordinaria capacità di successo.184

182

C.G. Jung, “Fenomenologia dello spirito nella fiaba” in Opere vol. 9*, cit., p 210.

183

Ivi, p 211.

184

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Il carattere spirituale del vecchio sta nelle qualità morali della sollecitazione alla riflessione e della benevolenza, poiché spesso invita il giovane ad un riposo ristoratore prima di affrontare le difficoltà, così come in quelle intellettive della saggezza, dell‟intuizione e della capacità di fornire le informazioni utili, indicando la strada da intraprendere o gli animali cui rivolgersi.

Nelle fiabe si riscontra spesso anche la presenza di nani o piccoli omini che Jung spiega come una testimonianza della relazione della figura del vecchio con l‟inconscio, il quale è ritenuto il mondo dell‟infinitamente piccolo, in cui non c‟è certezza dell‟idea dello spazio (così come di quella del tempo). A proposito di questi personaggi – come per l‟omino di ferro presente nella fiaba grimmiana Il

grifone, citata brevemente nello scritto185 – Jung commenta che “l‟archetipo del saggio è veramente piccolissimo, quasi impercettibile, e tuttavia possiede una forza che condiziona il destino, come si può vedere andando realmente al fondo delle cose”186

. Però, proprio a partire da queste piccole figure, Jung giunge a sottolineare che l‟archetipo dello spirito possiede anche un carattere negativo:

Tutti gli archetipi oltre a un carattere positivo, favorevole, chiaro, rivolto verso l‟alto, hanno pure un carattere rivolto verso il basso, in parte negativo e sfavorevole, in parte semplicemente ctonio,

185 In questa fiaba, un re ha una figlia malata, alla quale è stato predetto di poter guarire solo mangiando delle

mele. Così, il sovrano annuncia di darla in sposa e cedere la corona a colui che riesca a procurare quei frutti guaritori. Appresa la notizia, un contadino decide di mandare il primogenito Ueli al castello con un cesto di mele; lungo il cammino costui incontra un omino di ferro che gli domanda cosa sia il contenuto del cesto. Ueli dice che si tratta di zampe di rana e l‟omino risponde “Bè, così sia e così resti!”. Giunto al castello, Ueli apre il cesto e al suo interno vi sono zampe di rana ancora sgambettanti: questo provoca la rabbia del re, che caccia via il giovane. Una vicenda analoga capita al secondo figlio del contadino, Säme: incontrato l‟omino di ferro, sostiene di avere nel cesto setole di porco e una volta arrivato al castello ed aperta la cesta, quello è effettivamente il suo contenuto. Allora il terzo figlio del contadino, ritenuto uno sciocco e chiamato “il Grullo”, insiste per poter fare il proprio tentativo; giunto alla presenza dell‟omino dal vestito di ferro, che lo interroga sul contenuto del cesto, risponde di avere delle mele per guarire la principessa. A tale risposta, l‟omino ripete: “Bè, così sia e così resti!”. Giunto al castello e aperto il cesto, il Grullo mostra al re delle splendide mele d‟oro, che effettivamente guariscono la principessa. A questo punto il re dovrebbe concedergli di sposare la figlia, ma richiede ulteriori prove al ragazzo, che vengono tutte superate con successo. È evidente in questa fiaba che l‟omino possieda una notevole forza, al punto di determinare il destino altrui: proprio in questo aspetto sta, nell‟ottica junghiana, il suo carattere di rappresentazione dell‟archetipo dello spirito.

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ma nel più ampio aspetto neutrale. L‟archetipo dello spirito non fa eccezione. Già la sua figura di

nano implica una diminuzione restrittiva, e così anche il carattere allusivo di nume della vegetazione che spunta dal mondo sotterraneo.187

Così come lo stregone primitivo è elogiato in qualità di soccorrevole guaritore ed al tempo stesso temuto in quanto possibile avvelenatore, la figura del vecchio è interessata da una simile ambiguità: può apparire sia come personificazione del bene, negli aspetti già descritti di saggio soccorritore, che come incarnazione del male, in veste di perfido mago.

Jung sottolinea, inoltre, che l‟archetipo dello spirito viene rappresentato anche nella forma di un animale, senza che ciò abbia il significato di una svalutazione: sottolinea, infatti, che quest‟ultimo, a differenza dell‟uomo, “non si è ancora smarrito nei meandri della coscienza, e alla forza, di cui vive, non ha ancora contrapposto alcun Io ostinato, ma compie la volontà che domina in lui in modo quasi assoluto”188

. Gli animali che nelle fiabe rappresentano tale archetipo sono figure soccorrevoli, che comunicano attraverso un linguaggio umano e dimostrano di essere prudenti e sapienti, elevandosi persino al di sopra del livello dell‟uomo: si tratta di rappresentazioni teriomorfiche dello spirito. A questo proposito, Jung prende come esempio la fiaba tedesca La principessa sull‟albero, l‟unica a cui dedica una completa interpretazione. Si tratta della storia di un giovane guardiano di porci che, giunto dinnanzi ad un immenso albero i cui rami si disperdono tra le nuvole, decide di salire fino alla cima per poter osservare il mondo da quell‟altezza. Dopo tre giorni di cammino il ragazzo trova un castello, collocato sul punto più alto dell‟albero, nel quale vive una principessa, prigioniera di uno stregone. Ella lo avverte di non entrare in una stanza, ma il giovane infrange il

187

Ivi, p 218.

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divieto e in essa trova un corvo crocifisso alla parete con tre chiodi, il quale è assetato e chiede da bere. Spinto dalla compassione, il giovane gli offre dell‟acqua: a ciascun sorso cade uno dei chiodi fino a che il corvo, libero, vola via. L‟accaduto provoca sconforto nella principessa, in quanto l‟uccello è in realtà lo stregone maligno, da cui si aspetta di venire rapita. Così avviene poco tempo dopo e il giovane parte alla ricerca della fanciulla scomparsa; disceso dall‟albero, lungo il cammino incontra un lupo, poi un orso ed infine un leone: questi animali gli donano a turno un ciuffo del loro pelo, di cui potrà servirsi in futuro per chiamarli in caso di difficoltà. Inoltre il leone lo informa che la principessa è tenuta prigioniera da un cacciatore, nuova sembianza assunta dallo stregone. Il giovane trova la principessa, ma grazie all‟aiuto di un magico cavallo a tre zampe è rintracciato dal cacciatore, il quale si limita a riprendere la ragazza e lo lascia libero, in segno della passata riconoscenza. Riuscendo ad introdursi di nascosto nella casa dello stregone, il giovane induce la principessa a scoprire come costui si sia procurato un cavallo magico. Ella riesce nell‟intento e rivela che quegli animali fatati sono in possesso di una strega poco distante, la quale ne concede uno a chiunque riesca a custodire la mandria per tre giorni, aggiungendo al compenso anche una dozzina di agnelli per sfamare i dodici lupi voraci che ostacolano la partenza. A suo tempo, il cacciatore era riuscito nell‟impresa, ma non aveva ricevuto gli agnelli e così nello sfuggire all‟inseguimento dei lupi il cavallo conquistato era stato da loro mutilato di una zampa. Apprese queste informazioni, il giovane si reca dalla strega, riesce a superare la prova grazie al soccorso del lupo, dell‟orso e del leone e pretende di ottenere il cavallo migliore, ossia quello personale della vecchia. A sua insaputa, la strega fora gli zoccoli del cavallo e succhia via il midollo spinale, con il quale prepara una focaccia che offre

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al giovane per il viaggio, insieme ai dodici agnelli. Accorgendosi della stanchezza del puledro, il ragazzo gli porge la focaccia e costui riacquista le forze; dopo di ché i due riescono a superare incolumi il branco di lupi, i quali si acquietano grazie all‟offerta degli agnelli. Il giovane torna dalla principessa e la sottrae al cacciatore, il quale, però, li raggiunge rapidamente, in sella al proprio cavallo. Il puledro dell‟eroe si ferma ed attende l‟arrivo del cavallo a tre zampe, a cui grida: “Sorellina, buttalo giù!”. A quel punto, lo stregone è disarcionato e calpestato dai due cavalli. La principessa sale sul cavallo a tre zampe e cavalca insieme al giovane in direzione del regno paterno, dove vengono celebrate le nozze fra i due. Il cavallo quadrupede prega il padrone di tagliare la testa a lui e all‟altro animale; acconsentendo a tale richiesta, si rompe l‟incantesimo a cui erano stati sottoposti dallo stregone: i due cavalli riacquistano la loro forma umana, trasformandosi in una splendida coppia regale, che parte alla volta del proprio regno.

In questa storia, l‟archetipo dello spirito è rappresentato sia in qualità di funzione (di conoscenza ed intuizione) da parte di un cavallo da sella, sia in quella di soggetto autonomo nei panni dello stregone che ne è in possesso. A rappresentare teriomorficamente lo spirito è tanto il cavallo tripede quanto quello quadrupede: “I due cavalli sono animali prodigiosi, parlanti e sapienti, e rappresentano quindi lo spirito inconscio, che in un caso è soggetto al cattivo stregone e nell‟altro alla strega”189

. La distinzione fra triade e quaternità è relazionata alla differenziazione fra maschile e femminile, considerando il tre come numero maschile (stregone) e il quattro come numero femminile (strega). Jung precisa, inoltre, che “come in altri luoghi, la strega significa una mater natura, lo stato primitivo, „matriarcale‟

189

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per così dire dell‟inconscio”190: l‟eroe, sottraendole il cavallo, compie la

liberazione di uno spirito (o di un pensiero) dal dominio dell‟inconscio.

Mentre il cavallo quadrupede – da considerare superiore al cavallo tripede a cui impartisce un ordine (quello di disarcionare il cacciatore) – simboleggia la totalità, l‟animale a tre zampe rappresenta una mutilazione, in quanto perde una delle quattro zampe a causa dei dodici lupi inferociti:

La qualità di tripede del cavallo bianco è dovuta a una disgrazia , accaduta nel momento in cui l‟animale stava per lasciare il regno della madre tenebrosa. […] È rimasto nel regno della madre oscura, trattenuto dalla lupina voracità dell‟inconscio, che nulla vorrebbe lasciar sfuggire dalla sua giurisdizione, a meno che non si offra adeguato olocausto.191

Jung sottolinea che così come il cavallo della fiaba diviene tripede pur essendo in origine quadrupede, qualcosa di analogo può essere attribuito alla triade in sé: rappresentando la quaternità con un quadrato e tracciandone la diagonale, la figura risulta divisa in due triangoli i cui vertici indicano direzioni opposte. In questo modo si può riconoscere dalla totalità della quaternità la derivazione di due triadi opposte. L‟opposizione delle triadi è una concezione che Jung ricava dall‟alchimia192

– secondo la quale alla trinità divina corrisponde una triade inferiore affine al male – ed applica al contesto della fiaba in questione. Lo spirito maligno è rappresentato dallo stregone che si presenta inizialmente come corvo, crocifisso con tre chiodi in una stanza del castello alla sommità di un altissimo albero, in cui è tenuta prigioniera la stessa principessa da lui rapita. La fanciulla va concepita come una creatura del luminoso mondo superno: a questo punto, secondo Jung, la crocifissione del corvo può essere interpretata come la giusta 190 Ivi, p 225. 191 Ivi, p 226. 192

Jung ha dedicato vari saggi, scritti dal 1928 sino all‟anno della propria morte, ai temi dell‟alchimia, dei quali analizza il simbolismo implicito. Tali testi sono stati raccolti in Studi sull‟alchimia.

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punizione per la trasgressione commessa da uno spirito maligno che, bramoso di luce, ha osato sconfinare nell‟ambito opposto. Anche se nella fiaba non viene detto espressamente, Jung ritiene lecito supporre che il corvo sia stato crocifisso per una condanna pronunciata nel nome uno e trino, proveniente dalla triade superiore, espressione del bene. “Una triade condanna il corvo e una triade è pure la potenza dello spirito maligno: sono le due triadi che hanno direzioni opposte”193

, afferma Jung: ecco le polarità da cui ha origine il conflitto. Esse riflettono la stessa struttura funzionale della psiche cosciente e inconscia: in effetti Jung concepisce la psiche come un sistema dinamico, sostenendo che l‟energia psichica (libido) scorra fra due poli opposti ed il suo movimento si articoli all‟interno di un principio regolatore secondo il quale una volta che uno degli estremi è stato raggiunto la direzione della libido si volge verso l‟opposto.

Jung tiene a sottolineare la presenza nella fiaba in questione di significative antinomie, tutte rivolte al raggiungimento di un superiore sviluppo della coscienza. Il guardiano di porci, eroe del racconto, simboleggia la coscienza di un Io maschile che si eleva da una condizione di bassezza ad una sommità ricca di prospettive, allargando il proprio orizzonte: il giovane sale sino alla cima dell‟immenso albero e qui trova la principessa; costei rappresenta la sua Anima, ovvero il suo corrispondente femminile inconscio. Però, la principessa-anima è prigioniera di uno spirito maligno – rappresentato nella figura tenebrosa del corvo – e in più sembra partecipare personalmente al gioco infernale, poiché appare intenzionata ad impedire al giovane di scoprire il segreto della propria reclusione, avvisandolo di non entrare in una stanza. Un simile atteggiamento può essere paragonato alla resistenza del paziente nel corso di un‟analisi: come scrive Parise,

193

Ivi, p 228. Lo spirito maligno è connesso con una triade sia nella forma del corvo, a causa dell‟incantesimo dei tre chiodi, sia in quella del cacciatore, in quanto possiede il cavallo tripede.

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si tratta “di una sorta di resistenza al dispiegarsi del processo, che però, proprio