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Conseguenze dell’acquisizione di un’identità di gruppo comune

STRUTTURE COMPLESSE DI CATEGORIZZAZIONE SOCIALE

1. Il Common Ingroup Identity Model: un approccio alla riduzione del bias intergrupp

1.2 Conseguenze dell’acquisizione di un’identità di gruppo comune

Il secondo obiettivo delle linee di ricerca intraprese dal gruppo di Gaertner e Dovidio ha indagato le conseguenze cognitive, affettive e comportamentali che derivano dalla formazione di un’identità di ingroup comune, partendo dal presupposto che la maggior parte delle ricerche nell’ambito dei processi di categorizzazione sociale si basa su misure di self-report (dall’assegnazione ipotetica di punteggi o denaro alla valutazione di tratti di un determinato target) e di atteggiamenti valutativi e che il sostegno empirico alla relazione tra atteggiamenti e comportamenti intergruppi non è dei più robusti (Dovidio, Brigham, Johnson e Gaertner, 1996).

La prima proposta (Gaertner et al., 2000) è che la rappresentazione nei termini di un unico gruppo migliori gli atteggiamenti intergruppi dapprima in modo euristico e stereotipico, gettando le basi per far sì che l’interazione si evolva maggiormente su un piano individualizzato e personale. Il supporto empirico a questa ipotesi arriva da una precedente ricerca (Dovidio, Gaertner et al., 1997) in cui il paradigma dei gruppi minimi è stato utilizzato per creare una prima categorizzazione, alla quale è seguita una conferma della categorizzazione o una ricategorizzazione in un gruppo unico mediante le manipolazioni di elementi strutturali citate nel paragrafo precedente (Gaertner, Mann, Murrell e Dovidio, 1989; Gaertner, Mann, Dovidio, Murrell e Pomare, 1990). Le variabili dipendenti in esame erano la possibilità di aiutare un membro dell’ingroup o dell’outgroup proveniente da una sessione sperimentale precedente (in modo da testare anche la generalizzazione dei benefici del processo di ricategorizzazione anche al di fuori della situazione di contatto) e la possibilità di parlare apertamente con un membro dell’ingroup o dell’outgroup presente (interazione di self-disclosure). In entrambi i casi i risultati ottenuti sono in accordo con il Common Ingroup Identity Model, per cui l’ingroup bias che si manifesta nella condizione in cui i due gruppi sono tenuti ben distinti si riduce nella condizione di rappresentazione di un singolo gruppo; le risposte emotive di tipo empatico sono risultate correlate con i comportamenti d’aiuto ma non mediano la relazione, cosa che invece accade ancora per la rappresentazione di gruppo sovraordinato.

I benefici ottenuti mediante l’introduzione di un’identità di gruppo comune possono essere estesi anche ai gruppi naturali che si trovano in conflitto uno con l’altro

(Gaertner, Dovidio et al., id.): in questo caso le evidenze arrivano dai lavori di Gaertner, Dovidio e Bachman (1996) che hanno mostrato come il comportamento prosociale nei confronti di una persona appartenente ad un diverso gruppo etnico aumenti se viene resa saliente un’identità di ingroup sovraordinata, nello specifico l’appartenenza alla stessa università. Un risultato simile è stato ottenuto in una situazione sperimentale (Nier, Rust, Ward e Gaertner, 1996) in cui i soggetti si trovavano a partecipare all’esperimento assieme ad un’altra persona (della quale veniva manipolata l’appartenenza etnica) ed erano indotti a percepire la coppia così formata come “partecipanti in contemporanea” o come “membri dello stesso gruppo di laboratorio”: i dati hanno permesso di rilevare un’interazione significativa tra le due variabili, per cui non appaiono differenze di valutazione del partner nella condizione di medesima appartenenza etnica, mentre quando il partner è membro di un gruppo etnico differente le valutazioni sono significativamente più positive quando è introdotto come collega piuttosto che come semplice partecipante. Il risultato è particolarmente interessante se si considera che nella condizione di gruppo etnico diverso la valutazione del collega è migliore anche di quella del collega appartenente alla stessa etnia, confermando l’idea che gli ex-membri dell’outgroup sono oggetto di reazioni particolarmente favorevoli in seguito alla ricategorizzazione in un unico ingroup.

Allo stesso modo, una ricerca recentissima di Levine, Prosser, Evans e Reicher (2005) ha portato ulteriori conferme all’ipotesi: lo studio ha utilizzato il paradigma sperimentale del “buon samaritano” (in cui un assistente dei ricercatori finge un incidente e i partecipanti si trovano nella condizione di aiutarlo o meno; Darley e Batson, 1973) e si è basata su un contesto intergruppi fortemente sentito come quello dei supporter di squadre di calcio differenti. I risultati hanno indicato chiaramente che l’introduzione di una categoria sovraordinata – quella di “tifoso” in senso aspecifico – prima di assistere all’incidente aumenta significativamente la disponibilità ad aiutare un individuo che appartiene evidentemente all’outgroup in quanto indossa una maglia di una squadra diversa da quella che sostengono i partecipanti.

L’aspetto di comportamento cooperativo intergruppi previsto dal Common Ingroup Identity Model è stato indagato in un esperimento di Gaertner, Rust e Dovidio (1998) mediante il paradigma dei gruppi minimi e l’esito di una singola prova al “dilemma del prigioniero”. I gruppi creati sperimentalmente sono stati indotti a mantenersi distinti o a

ricategorizzarsi in un gruppo più ampio attraverso la manipolazione di elementi strutturali (Gaertner, Mann, Murrell e Dovidio, 1989; Gaertner, Mann, Dovidio, Murrell e Pomare, 1990) e le condizioni di negoziazione implicavano alternativamente la presenza di tutto il gruppo o di un solo rappresentante. I risultati sostengono in parte le previsioni del modello: la ricategorizzazione in un gruppo unico riduce il bias nei giudizi valutativi verso i membri dell’outgroup, ma non porta ad un comportamento cooperativo più marcato; tuttavia, nella condizione in cui la negoziazione avviene tra i gruppi al completo e non solo tra i rappresentanti, il comportamento cooperativo aumenta drasticamente e i partecipanti riferiscono di percepirsi maggiormente come membri di un unico gruppo piuttosto che di gruppi separati.

Infine, anche il senso di fiducia e di connessione interpersonale con il gruppo di cui si fa parte può avere un impatto sugli obiettivi e le motivazioni che animano un individuo: Snider e Dovidio (1996) hanno riscontrato come in un campione di studenti afroamericani o internazionali lo sviluppo di un’identità di ingroup comune in quanto studenti di una determinata università (misurata come positività delle relazioni con gli altri studenti, con docenti e amministrativi e con la comunità locale) porta ad aumentare la volontà di completare gli studi in quella stessa università e di raccomandarla ad altri studenti.