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LE MINACCE ALL’IDENTITÀ SOCIALE

3. Quando la minaccia arriva dall’interno: l’ingroup criticism

3.1 L’intergroup sensitivity effect

In contrasto con quanto esposto al riguardo del black sheep effect, un fattore che ha mostrato di avere una forte influenza sul modo in cui un membro di un gruppo risponde ad una critica ricevuta è l’appartenenza di gruppo dell’individuo che sta criticando.

In tal senso Moreland e McMinn (1999) hanno creato una situazione sperimentale in cui il campione di partecipanti viene prima suddiviso in gruppi ampi che svolgono attività di team-building; in seguito i gruppi sono spezzati in sottogruppi e svolgono un compito creativo sul quale ricevono un falso feedback negativo da parte degli ex- membri dell’ingroup o dei membri dell’outgroup. I risultati hanno evidenziato come la critica da parte degli ex-membri dell’ingroup provochi sentimenti di stress e rifiuto più forti rispetto a quando proviene da un gruppo col quale non si era precedentemente collegati.

Un paradigma simile è stato utilizzato da Hornsey, Oppes e Svensson (2002) ma utilizzando categorie sociali naturali ed ampie (gruppi nazionali) invece che gruppi minimi creati in laboratorio; parallelamente la critica è stata manipolata in modo da provenire da un membro di un outgroup o da un membro attuale del proprio ingroup. Dalle analisi è emerso che ricevere una critica elicita risposte maggiormente difensive quando questa proviene da un membro dell’outgroup piuttosto che dell’ingroup: Hornsey e coll. (id.) hanno definito questa tendenza come intergroup sensitivity effect, ovvero come l’aumento della sensibilità alle critiche a seconda dell’appartenenza di gruppo dell’individuo che la esprime. Nel medesimo studio è stato inoltre rilevato che i partecipanti tendono ad essere maggiormente in disaccordo con il contenuto della critica quando questa arriva da un membro dell’outgroup, mentre se sono esposti ad un

commento positivo non è possibile riscontrare una differenza nell’accordo col contenuto.

Hornsey e Imani (2004) propongono che la differenza nelle risposte alle critiche provenienti dall’outgroup o dall’ingroup sia da ricercarsi nel fatto che chi viene criticato legge una motivazione diversa alle spalle della critica in base all’appartenenza di gruppo di chi l’ha espressa.

Quando il messaggio critico proviene dall’interno del proprio gruppo, gli individui possono ad esempio presupporre che il messaggio vada inteso come orientato al bene dell’ingroup e di conseguenza tollerarlo; del resto i principi della social identity theory prevedono che, in un contesto sociale dinamico in cui i gruppi sono coinvolti per ottenere uno status e un’identità positiva, gli individui siano fortemente motivati ad agire nell’interesse del gruppo di cui fanno parte (Tajfel e Turner, 1979). Esiste una serie consistente di ricerche sul modo in cui i membri di un gruppo pensano e si comportano al fine di mantenere una vicinanza relativa con gli altri appartenenti allo stesso gruppo: gli individui attribuiscono ai membri del proprio ingroup credenze simili alle proprie (Wilder, 1984), mentre l’appartenenza comune ad un gruppo riduce la distanza psicologica e l’arousal negativo durante le interazioni (Stephan e Stephan, 1985), oltre a promuovere il comportamento prosociale (Dovidio et al., 1997; Perdue, Dovidio, Gurtman e Tyler, 1990). L’identità di ingroup è alla base della fiducia e della disponibilità a cooperare con gli altri membri del gruppo (Tyler, 2001) e Brewer (1981) ha parlato al riguardo di “fiducia depersonalizzata” per descrivere sia il modo in cui la fiducia è estesa – in modo squisitamente euristico – a chi appartiene ad ingroup rilevanti per l’individuo, sia il fatto che viene bypassata la necessità di una storia di relazioni interpersonali per la costruzione del senso di fiducia stesso.

Di conseguenza, sulla scorta di Hornsey e Imani (id.) si può dedurre che nel momento in cui la critica proviene dal proprio ingroup ci sia una base forte per attribuire motivazioni positive e costruttive al messaggio ricevuto.

Al contrario, i membri dell’outgroup sono generalmente percepiti in un’ottica di sfiducia nei loro confronti (Insko e Schopler, 1998: Worchel, 1979), a tal punto che gli individui si aspettano di essere discriminati da parte di un outgroup o di entrare in competizione con esso sulla base della semplice categorizzazione (Insko, Schopler, Hoyle, Dardis e Graetz, 1990; Vivian e Berkowitz, 1992); queste aspettative sono

inoltre associate a livelli elevati di ostilità intergruppi (Vivian e Berkowitz, 1993). Pertanto, Hornsey e Imani (id.) propongono che la critica proveniente dall’outgroup sia sostanzialmente interpretata come sostenuta da motivazioni ostili e distruttive nei confronti dell’ingroup, spiegando così la differenziazione derivante dall’intergroup sensitivity effect.

Si tratta quindi di una spiegazione di tipo attribuzionale non distante da quanto sostiene la letteratura scientifica sui processi persuasivi: il target della persuasione attiva un processo di interpretazione per individuare i motivi reali alle spalle di una determinata comunicazione (Eagly, Wood e Chaiken, 1978). Le affermazioni persuasive possono essere interpretate come derivanti dall’intenzione a supportare un preciso atteggiamento, per cui la questione riguarda la misura in cui il persuasore ha una conoscenza accurata della realtà esterna sulla quale si pronuncia (knowledge bias); in un’altra prospettiva potrebbero essere le pressioni sociali da parte dell’audience o implicite nella situazione in sé a modificare la capacità del persuasore di presentare correttamente le informazioni (reporting bias). Eagly e coll. argomentano che se la comunicazione viene interpretata come viziata da uno dei bias precedenti non ci sarà un’influenza da parte del messaggio ricevuto, mentre se non ci sono ragioni plausibili per queste attribuzioni allora la comunicazione potrà essere considerata sincera e influenzare l’ascoltatore.

Nella spiegazione dell’intergroup sensitivity effect i bias sono associati alla competizione intergruppi e si ricollegano alla nozione di knowledge bias di Early e coll.; tuttavia, diversamente da quanto accade con un messaggio persuasivo, la critica elicita anche risposte di tipo affettivo ed è implicitamente minacciosa, in quanto il core del contenuto del messaggio riguarda una sostanziale mancanza da parte dell’ingroup e la necessità di porvi rimedio (Hornsey e Imani, id.). La ricerca ha fornito evidenze empiriche al presupposto per cui a nessuno piace ricevere un feedback negativo riguardante il sé o il gruppo sociale di cui si fa parte (Baumeister e Cairns, 1992; Kay, Meyer e French, 1965), per cui la prontezza ad accogliere una critica come costruttiva dipende dalla misura in cui questa è plausibilmente sincera e non viziata da bias di qualunque tipo; per contro, nel momento in cui una critica viene rifiutata per l’assenza delle suddette condizioni, il senso di minaccia percepito può tradursi in un aumento di affettività e giudizi valutativi negativi nei confronti di chi ha espresso la critica.

Una seconda attribuzione possibile relativa alla critica risiede nel grado di esperienza e conoscenza che il soggetto criticante ha del gruppo target del messaggio, in quanto una scarsa conoscenza del gruppo non fornisce un fondamento accurato per esprimere dei giudizi (Raven, 1965): tornando alla letteratura sulla persuasione, si può dire che un persuasore percepito come esperto dell’argomento risulta più efficace di uno inesperto (Homer e Kahle, 1990), per cui l’expertise appare come una delle componenti fondamentali della credibilità della fonte (Hovland e Weiss, 1955; Petty e Wegener, 1999). Le ricerche di Hornsey e Imani (id.) non hanno però sostenuto questa spiegazione alternativa, dal momento che un soggetto criticante che mostra di avere un’elevata conoscenza del gruppo target riceve una risposta difensiva non differente da quella destinata ad un completo outsider. Ne deriva quindi che le radici dell’intergroup sensitivity effect non sono da ricercarsi in un’analisi razionale della veridicità del contenuto della critica né dell’expertise dimostrata da chi critica l’ingroup, ma piuttosto in aspetti più strettamente attribuzionali.