• Non ci sono risultati.

Relazione tra comportamento aggressivo e minacce all’identità

LE MINACCE ALL’IDENTITÀ SOCIALE

4. Relazione tra comportamento aggressivo e minacce all’identità

Quanto esposto finora ha permesso di mettere in luce quali siano le risposte prevedibili da parte di un individuo nel momento in cui un’identità sociale saliente viene messa in discussione, sia che si tratti di un utilizzo di una categorizzazione inappropriata (e quindi discordante con l’immagine e la rappresentazione di sé che l’individuo si dà), sia che si parli di una svalutazione vera e propria delle dimensioni che caratterizzano il gruppo al quale l’individuo appartiene, sia che la posizione dell’individuo all’interno del gruppo sociale saliente appaia periferica o a rischio di esclusione, sia che il gruppo sociale in sé non sia più in grado di fornire una distintività positiva in confronto ad altri gruppi presenti nel medesimo contesto.

La domanda che ci si pone in questa sede nasce da alcune considerazioni basate sulle manipolazioni sperimentali del costrutto di social identity threat: si è visto infatti che l’introduzione dell’aspetto minaccioso per l’identità sociale di un individuo viene effettuata mediante strategie sostanzialmente basate su meccanismi quali l’indicazione della percezione del partecipante come appartenente ad una particolare categoria (categorization threat), la deduzione del valore del gruppo in base alla discriminazione ricevuta o al confronto con un outgroup su attributi relativi allo status o alla performance (group value threat), la presentazione di valutazioni del partecipante non

perfettamente concordanti con quella di membri prototipici dell’ingroup (prototypicality threat) o di valutazioni del gruppo che annullano la distinzione intergruppi e presentano una somiglianza preoccupante con un outgroup (distinctiveness threat).

Ma cosa potrebbe accadere se la minaccia all’identità sociale non provenisse dai risultati di un processo di confronto sociale e fosse contenuta invece in un messaggio verbale? In altre parole, cosa potremmo aspettarci se un individuo riceve una provocazione incentrata su un particolare aspetto di una sua appartenenza di gruppo?

Le considerazioni al riguardo si sviluppano principalmente su due fronti. Dal punto di vista dell’effetto di una minaccia all’identità sociale in sé e per sè, è già stato individuato come un feedback negativo basato su un’identità sociale si associ sostanzialmente ad un mood negativo e ad una diminuzione dell’autostima (McFarland e Bucher, 1995; Barreto e Ellemers, 2000), con ulteriori conseguenze dipendenti dal grado di identificazione dell’individuo col gruppo di cui fa parte e che è stato minacciato. Se il grado di identificazione è ridotto i processi di self-stereotyping saranno ridotti al minimo (Spears, Doosje e Ellemers, 1997; Ellemers, 2001) e contrastati invece da strategie di creatività sociale orientate a resistere alla categorizzazione negativa e a ricentrare la definizione di sé su altre identità disponibili che consentono di riacquisire un’autostima positiva (Cialdini et al., 1976; Mussweiler, Gabriel e Bodenhausen, 2000). Se invece il grado di identificazione con l’ingroup minacciato è elevato ci si può aspettare di andare incontro a risposte affettive di rabbia e disprezzo, accompagnate ad una propensione più marcata ad attaccare l’outgroup (Fiske, Cuddy e Glick, 2001; Mackie, Devos e Smith, 2000; Smith, 1993); i comportamenti che ne derivano saranno maggiormente orientati alla svalutazione dell’outgroup, dalla discriminazione manifesta (Branscombe e Wann, 1994; Jetten, Spears e Manstead, 1999, 2001) ad espressioni di odio e disgusto vere e proprie (Keltner e Haidt, 1999).

La minaccia all’identità sociale si configura quindi come un evento fondamentalmente negativo per l’individuo, che sottende un rischio di disgregazione della rappresentazione positiva di sé così come di rifiuto da parte di un gruppo percepito come saliente ed importante o di annullamento del senso di distintività positiva che si ricava da un particolare appartenenza di gruppo: parallelamente, quindi, le risposte che ne scaturiscono saranno sicuramente orientate ad un ripristino della positività perduta

ma allo stesso modo conterranno un aspetto più o meno latente derivato dalla negatività dell’esperienza minacciosa in sé, che in qualche misura può trovare un’espressione dal punto di vista emotivo o comportamentale.

In secondo luogo, va considerato l’aspetto squisitamente interattivo del rapporto tra provocazione e ritorsione. Esistono diversi modelli che spiegano come il comportamento antisociale ed aggressivo risulti da un processo continuo di scambi interpersonali in cui uno dei membri della diade coinvolta percepisce una minaccia alla propria identità e di conseguenza mette in atto una ritorsione verso l’origine della minaccia: la percezione di essere stati danneggiati, così come quella di aver subito un’ingiustizia o di essere stati vittime di un’iniquità si accompagnano agli aspetti emotivi di odio e indignazione nella definizione del concetto di vendetta (Stuckless e Goranson, 1992). Si ricorda inoltre quanto detto a proposito del fenomeno di “pressione verso l’alto” nella risposta ritorsiva: da un lato, la percezione di un comportamento provocatorio può essere infatti viziata da un bias di attribuzione ostile, per cui il danno inflitto al provocatore non è uguale al danno ricevuto, ma di intensità maggiore (Anderson e Carnagey, 2004; Rubin, 1994); dall’altro, rifacendosi alle teorie socio- interazioniste sull’aggressività (Felson, 1992; Tedeschi e Felson, 1994), la ritorsione assume un aspetto funzionale nel senso di una strategia di deterrenza orientata ad evitare che la provocazione ricevuta si riproponga nel futuro, nella stessa forma o da parte dello stesso soggetto (Kim e Smith, 1993; Wilson, 1983).

Se incrociamo le due linee di ragionamento sopra descritte e immaginiamo una situazione di provocazione in cui il messaggio è percepito come ingiusto o offensivo in quanto danneggia un individuo in base ad una sua appartenenza di gruppo, non è difficile trovare un punto di contatto. In generale le persone cercano di mantenere un’identità sociale positiva (Tajfel e Turner, 1986) e pertanto sono fortemente motivate a difendersi da ogni possibile azione che la minacci (Baumeister, Smart e Boden, 1996; Felson e Steadman, 1983). La minaccia all’identità sociale colpisce la rappresentazione positiva di sé che un individuo si costruisce, introducendo tanto un aspetto di negatività affettiva per la persona colpita quanto un senso di iniquità subita, che varia dall’illegittimità di un restringimento della percezione dell’individuo a livello di una categorizzazione indesiderata all’espressione di giudizi di valore negativi e stereotipici, dall’indicazione di una non completa adesione al prototipo di gruppo all’assimilazione

ad un outgroup che andrebbe considerato invece come saliente e distinto. Sommando la valenza negativa del contenuto del messaggio alla sua presentazione in forma provocatoria, è plausibile pensare che gli aspetti comportamentali altrettanto negativi della risposta al social identity threat si facciano strada anche nella messa in atto di una ritorsione nei confronti del provocatore. I comportamenti difensivi possono arrivare ad essere definiti come antisociali quando potenzialmente potrebbero danneggiare l’elemento minaccioso (Aquino e Douglas, 2003). Ad esempio, uno studio recente di Maass, Cadinu, Guarnieri e Grasselli (2003) ha sottoposto un campione di partecipanti maschi a differenti tipologie di minaccia all’identità sociale, di cui tre riconducibili alla tassonomia descritta in precedenza (group value threat, prototypicality threat e distinctiveness threat) ed una, definita come legitimacy threat, che prevede il confronto con soggetto del sesso opposto che esprime atteggiamenti relativi ai ruoli di genere di stampo femminista e mette in discussione le differenze di status tra uomini e donne; la variabile dipendente utilizzata era invece l’inclinazione a comportamenti sessuali molesti, misurata come numero di immagini a carattere erotico/pornografico che i partecipanti potevano selezionare e spedire via e-mail al soggetto femminile avvertito come minaccioso (tale paradigma è stato definito computer harassment). I risultati hanno indicato chiaramente come le condizioni di legitimacy, prototypicality e distinctiveness threat portino ad un aumento significativo nella messa in atto di tali comportamenti molesti.

Tuttavia, il target della ritorsione può non essere necessariamente chi ha messo in atto l’identity threat vissuto come provocatorio: come si è visto in precedenza, il comportamento aggressivo può essere trasferito (displaced aggression) in risposta ad eventi trigger di moderata intensità (Marcus-Newhall, Pedersen, Carlson e Miller, 2000). In questi casi l’aggression assume un valore espressivo, che sebbene non consenta di fare giustizia per il torto subito e non possa fungere da deterrente contro eventuali minacce future (Felson, 1992; Tedeschi e Felson, 1994; Baumeister et al., id.) può tutto sommato essere diretta verso obiettivi più convenienti, disponibili e sostanzialmente deboli (Thomas, 1992; Bies, Tripp e Kramer, 1997).

PARTE I

Studio 1

Differenze tra tipologie di social identity threat: provocazioni,