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Il rapporto tra processo attribuzionale e risposta alla critica

LE MINACCE ALL’IDENTITÀ SOCIALE

3. Quando la minaccia arriva dall’interno: l’ingroup criticism

3.2 Il rapporto tra processo attribuzionale e risposta alla critica

Considerato quanto si è detto finora, ci si può rendere conto che nel momento in cui una persona riceve una critica relativa al gruppo sociale di cui fa parte non si limiterà ad esaminarne il contenuto, ma cercherà di capire il motivo che precede la critica stessa e il risultato di questa valutazione avrà implicazioni pesanti per il modo in cui questa verrà accolta. Se si può supporre che la critica arrivi da un individuo che si preoccupa del gruppo a cui si rivolge o che agisce nell’interesse di questo allora le modalità di risposta difensiva dovrebbero essere abbandonate e il contenuto del messaggio sarà valutato per quel che è, ma se le motivazioni del soggetto che critica sono percepite come distruttive e disgreganti nei confronti del gruppo, allora il messaggio sarà accolto con sospetto e genererà emozioni negative (Hornsey, 2005).

L’analisi delle motivazioni alle spalle di una critica si fonda generalmente su processi di tipo euristico e l’appartenenza di gruppo dell’individuo criticante è una delle basi più forti da cui partire: come si è visto in precedenza, la fiducia verso i membri

dell’ingroup è accordata in modo istintivo (Brewer, 1981) e gli individui tendono ad aspettarsi che i membri del proprio ingroup discriminino a loro favore (Duck e Fielding, 2003; Jetten, Duck, Terry e O’Brien, 2002). Esistono evidenze empiriche che sostengono l’ipotesi per cui la propensione alla sfiducia intergruppi si pone come uno dei processi di base sia dei conflitti tra nazioni o gruppi etnici (Maoz, Ward, Katz e Ross, 2002) che della polarizzazione politica (Cohen, 2003).

Nell’ottica delle analisi delle critiche rivolte ad un determinato gruppo sociale, quindi, l’appartenenza di gruppo diviene un elemento cruciale nel tentativo di comprendere se la motivazione di chi critica è costruttiva o distruttiva: se una critica proveniente dall’interno del gruppo può apparire orientata a migliorare l’ingroup, la stessa critica proveniente dall’esterno può essere percepita come un tentativo atto a guadagnarsi una sorta di supremazia intergruppi (Hornsey, id.).

Parallelamente, oltre alla costruttività/distruttività del messaggio, quando la critica proviene da un membro dell’outgroup può elicitare un’altra serie di considerazioni, legate in questo caso alla legittimità della critica stessa. Al di là della percezione di expertise sopra citata, essere criticati da un membro dell’outgroup può quindi venire considerato semplicemente ingiusto: in questo caso il contenuto del messaggio è visto come parte di una strategia di relazioni intergruppi orientate al miglioramento dello status di un gruppo rispetto all’altro. Quando invece la critica arriva dall’interno del proprio gruppo, la legittimità percepita non permette di bypassare il contenuto del messaggio: la critica va presa quindi sul serio, per cui il meccanismo di protezione della propria immagine di sé positiva sposta l’attenzione dalla veridicità del contenuto alle motivazioni del messaggio in sé, tornando così alla valutazione in termini di intenzione costruttiva o distruttiva della critica (Hornsey, Oppes e Svensson, 2002).

Il bias attribuzionale relativo alla costruttività del messaggio media pienamente la relazione su cui si articola l’intergroup sensitivity effect (Hornsey e Imani, 2004), dato confermato anche da altre ricerche sul rapporto tra appartenenza di gruppo di chi critica e positività/negatività della risposta nei suoi confronti (Hornsey, Trembath e Gunthorpe, 2004).

Il bias descritto tuttavia non consente a tutti i membri dell’ingroup di fare qualsiasi tipo di commento sul gruppo: se si prende in considerazione il livello di identificazione con l’ingroup di chi sta criticando il pattern di risposte si modifica drasticamente, dal

momento che l’intergroup sensitivity effect si verifica solo in risposta ad individui che appaiono fortemente identificati con il gruppo di appartenenza; quando invece il livello di identificazione del criticante è basso, il messaggio viene accolto allo stesso modo di quando proviene da un membro dell’outgroup e si ripresenta la stessa mediazione da parte della costruttività percepita della critica (Hornsey et al., id.).

Le evidenze raccolte al riguardo sono quindi coerenti con quanto ci si potrebbe aspettare in base alle previsioni sugli effetti dell’intergroup sensitivity effect, ma va sottolineato che una ricerca come quella appena citata pone una serie di problemi in termini di validità ecologica e di generalizzabilità della situazione sperimentale: infatti, se da un lato nella vita di tutti i giorni è più che plausibile ricevere una critica relativa ad un gruppo sociale di cui si fa parte ed essere a conoscenza dell’identità di gruppo dell’individuo che ha criticato, dall’altro è improbabile avere informazioni precise relativamente al grado di identificazione del criticante col proprio gruppo (Hornsey, id.).

A tal proposito, una delle ricerche di Hornsey e coll. (id.) ha utilizzato una manipolazione differente per suggerire la misura in cui il soggetto che critica si identifica con l’ingroup: nello specifico, sono stati variati i pronomi personali utilizzati all’interno della critica stessa per indicare il gruppo sociale colpito, alternando un linguaggio di tipo inclusivo (ad es. “Noi italiani siamo razzisti”) con uno di tipo esclusivo (ad es. “Gli italiani sono razzisti”). I risultati hanno confermato quanto già emerso nella ricerca precedente, per cui chi critica in forma inclusiva è percepito come maggiormente attaccato all’identità di gruppo sulla quale ha fatto commenti negativi, riceve valutazioni più positive e un’attribuzione di motivazioni costruttive maggiore rispetto a chi si esprime in forma esclusiva.

La teorizzazione sull’intergroup sensitivity effect ha preso in considerazione un ultimo possibile elemento collegato alle appartenenze di gruppo che potrebbe avere un ruolo nell’interpretazione attribuzionale della critica, ovvero il tempo per il quale l’individuo che critica è stato un membro del gruppo (Moreland e Levine, 1989): in quest’ottica, ci si potrebbe aspettare che la critica ricevuta da parte di un “veterano” del gruppo sociale in questione sia accolta in modo meno difensivo rispetto alla stessa critica espressa invece da un “nuovo arrivato” (Hornsey, id.). L’ipotesi è sulla scorta dei risultati ottenuti da Hollander (1958), per cui i membri di un gruppo che hanno

consolidato il proprio commitment e la propria conformità alle norme del gruppo nel corso degli anni sono quelli che possono permettersi un margine maggiore di accettabilità dei propri comportamenti e, per estensione, possono permettersi anche di spingere il gruppo in nuove direzioni; i nuovi arrivati non hanno invece questa possibilità, dal momento che le proprie “credenziali” devono ancora essere definite e consolidate.

I dati di una recentissima ricerca di Hornsey, Grice, Jetten, Paulsen e Callan (under review) hanno confermato l’ipotesi: i partecipanti all’esperimento hanno ricevuto una critica da parte di un membro di un outgroup, di un membro dell’ingroup appartenente alla categoria da quasi vent’anni o da un nuovo arrivato nell’ingroup; come previsto, la critica da parte del “veterano” ha portato a risposte meno negative nei termini di emozioni e accordo col contenuto del messaggio, mentre il nuovo arrivato e l’outsider sono trattati in modo ugualmente difensivo. L’effetto è inoltre mediato dalla percezione di commitment verso il gruppo che viene espressa con la critica: in altri termini i membri “storici” del gruppo possono criticarlo perché se ne preoccupano, mentre la medesima critica non è letta nello stesso modo se proviene da un nuovo arrivato.