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Le conseguenze delle rivoluzioni arabe sulla politica di Obama e sui rapporti transatlantic

L’ARCO DI CRISI: LE RELAZIONI TRANSATLANTICHE L’ultimo capitolo della presente analisi tratterà di un tema molto ampio e con

4.1.3 Le conseguenze delle rivoluzioni arabe sulla politica di Obama e sui rapporti transatlantic

Gli effetti della Libia su Obama, sulla politica estera statunitense e sui rapporti transatlantici sono stati determinanti quanto quelli di tutte le rivoluzioni arabe nel loro complesso.

Obama si trovò di fronte, nel 2011, anno cruciale per il disengagement dal Medio Oriente, una nuova variabile imprevista e imprevedibile nelle sue modalità e conseguenze. Le primavere arabe o rivoluzioni arabe o persino the arab winter401, come qualche commentatore le ha ridefinite ex post, hanno contribuito al rallentamento del progetto di disimpegno obamiano dal Medio Oriente. Inoltre colpendo i principali alleati chiave degli Stati Uniti hanno contribuito a rendere la risposta americana esitante ed incerta402, nonostante fosse guidata da alcuni principi cardine: limitare il coinvolgimento diretto, preservare la stabilità regionale, garantire gli interessi statunitensi. Nell’approccio altalenante verso l’Egitto, la costante fu l’indispensabilità di questo Paese nel mantenimento della pace con Israele e il suo ruolo chiave nella cooperazione militare e di intelligence ai fini della lotta la terrorismo.

Per le due crisi “minori” di Yemen e Bahrein, in sostanza, l’atteggiamento di Obama fu guidato dalla necessità e dalla volontà di mantenere le storiche alleanze, garantire gli interessi strategici militari e affidare la soluzione dei sommovimenti ad una strategia di offshore balancing, che vide nei sauditi i protagonisti.

Per quanto riguarda la Libia, unica occasione in cui Obama optò per l’intervento militare, la linea rimase quella del no boots on the ground e di trovare una base legale per un’operazione multilaterale, con un adeguato burden sharing con gli alleati europei. Il leading from behind, in sostanza, era giustificato da due ordini di motivazioni per Obama: la prima di carattere internazionale, la Libia non avrebbe dovuto diventare un nuovo Iraq; la seconda di carattere interno. Poichè l’intervento in Libia era una delle guerre intraprese dagli Stati Uniti dagli anni 2000 con minor

400https://www.telegraph.co.uk/news/2016/08/02/barack-obama-orders-us-bombing-of-islamic-

state-in-libya/

401https://www.economist.com/middle-east-and-africa/2016/01/09/the-arab-winter

402 R. G. Kaufman, Dangerous Doctrine: How Obama’s Grand Strategy Weakened America, University

123 supporto da parte dell’opinione pubblica, un light footprint, ovvero un impegno lieve, era necessario in quanto avrebbe consentito di evitare una ratifica da parte del Congresso. Tuttavia l’errore tattico di Obama fu quello di vincere la guerra e perdere la pace, proprio come aveva fatto Bush in Iraq. Agli Stati Uniti e ai propri alleati era mancata totalmente la programmazione post war, e tale mancanza favorì il vacuum nel quale si inserì presto ISIS.

Le conseguenze della questione libica si dipanarono su due fronti principali.

L’intervento in Libia allontanò indefinitamente un possibile intervento statunitense ed occidentale nell’altra rivoluzione araba, sviluppata precedentemente: la Siria. La catastrofe, succeduta al ritiro della NATO in Libia, fece rafforzare la convinzione di Obama sulla necessità di evitare il coinvolgimento americano in un’altra guerra in Medio Oriente403.

Inoltre, i rapporti transatlantici furono duramente messi alla prova dall’atteggiamento di free riding di Stati europei appartenenti alla NATO come Francia e Regno Unito, che avevano necessità politica di tornare alla ribalta internazionale, ma non avevano le capabilities necessarie per guidare attivamente la fase post war in Libia404. Nella lunga, già citata, intervista a Goldberg, Obama accusò apertamente gli Europei di avere un atteggiamento da free riders, giovandosi dei benefici dell’ordine internazionale garantito dagli Stati Uniti, non contribuendo tuttavia sulle questioni internazionali basilari. In questo senso, Obama non ruppe il classico Washington Playbook, chiedendo una maggior partecipazione europea alle grandi sfide contemporanee come l’assertività russa, il terrorismo, o la gestione dei flussi migratori. Un risultato, seppur simbolico, in questo senso, arrivò solo con la Dichiarazione Congiunta al Summit NATO del Galles nel settembre 2014, quando venne ribadita la volontà degli Alleati di contribuire alla difesa comune, incrementandone le spese dei relativi bilanci fino al 2% del PIL per ogni Stato Membro405.

Come indicato da D. Keohane in un articolo su Carnegie Europe, erano tre, principalmente, le lezioni che la questione libica avrebbe dovuto insegnare agli Europei: inizialmente, l’internazionalizzazione della crisi libica fu guidata dall’asse

403 R. Toscano, L’Iran e il Medio Oriente secondo Obama, in Il Mondo Obama (a cura di) P. Magri,

Mondadori – ISPI, 2016, pp 79

404 M. Scacchioli, R. Florio Il medioriente: la Fine della Pax Americana, in La Dottrina Obama: la politica estera americana dalla crisi economica alla presidenza Trump (a cura di ) P. Wulzer, Textus

Ed.,2017, pp 148-164

124 franco-inglese. Cameron e Sarkozy si posero a capo dell’intervento militare, cercando di bypassare le cautele poste dal Pentagono riguardo un possibile intervento statunitense. In realtà, senza le capabilities militari statunitensi, le operazioni non avrebbero avuto il medesimo impatto. Il primo aprile 2011, il Consiglio dell’Unione Europea diede vita all’operazione militare EUFOR Libya406, per supportare le operazioni di assistenza umanitaria dell’agenzia umanitaria dell’ONU. Tuttavia, l’operazione era subordinata ad una richiesta proveniente dall’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli affari umanitari, che, in realtà, non richiese mai il supporto delle Forze europee407. Così EUFOR Libya si trasformò nel fallimento della Politica estera e di sicurezza dell’Unione Europea nel caso libico408. In tale occasione, il Ministro degli Esteri francese Juppè affermò pubblicamente che la politica di difesa europea era morta.

La seconda lezione era che l’Europa non può assistere paesi che non abbiano un governo legittimo. L’UE ha negli anni focalizzato la propria azione esterna nel capacity building dei Paesi limitrofi. Nel maggio 2013, il Consiglio dell’Unione Europea diede il via libera alla Missione civile EUBAM Libya409 sotto la guida dell’Alto Rappresentante per la Politica estera e difesa europeo, al fine di supportare le autorità libiche nello sviluppo della sicurezza dei confini del proprio Paese. Ma la guerra civile e la presenza di un governo non pienamente legittimato, né in grado di controllare il proprio territorio, non permise alla missione di decollare e venne trasferita successivamente in Tunisia.

Infine la terza lezione, riguardo al controllo dei confini europei. L’UE approvò due missioni: la EUNAVFOR MED Operation Sophia e Triton o Frontex plus. La prima, a modello delle operazioni europee antipirateria di fronte alle coste somale, fu indirizzata al combattere il traffico di vite umane, mentre Triton fu approvata in sostituzione dell’operazione search-and-rescue italiana denominata Mare Nostrum. Numerose critiche inoltre giunsero rispetto alla coerenza delle crisis management capabilities messe in atto dall’Unione Europea. Tali criticità derivavano principalmente dall’ineffettività di una politica estera realmente europea. La questione

406https://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2011:089:0017:0020:en:PDF 407 L’Eurodeputata Ana Gomes sul caso libico e il fallimento di EUFOR Lybia:

https://euobserver.com/opinion/32624

408 R. Gowan, The EU and Libya: Missing in action in Misrata, European Council on Foreign Relations,

Maggio 2011,

https://www.ecfr.eu/article/commentary_the_eu_and_libya_missing_in_action_in_misrata

125 libica fu la prima grande crisi dalle gravi implicazioni sulla sicurezza europea dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona. Come dimostrato da N. Koenig in un working paper pubblicato dall’Istituto Affari Internazionali410, riguardavano principalmente quattro tipologie di atteggiamenti incoerenti: il primo riguardava la tensione tra le politiche di promozione e tutela dei Diritti Umani sostenute dall’Unione Europea rispetto alle policies riguardo al migration management, basato su Frontex plus. Infatti, più volte la missione fu biasimata per la mancanza di mezzi, il fallimento nel recupero dei migranti nel Mediterraneo e il rispetto dei più basilari standard umanitari. Il secondo riguardava le diverse “voci” provenienti dalle istituzioni europee: il Presidente del Consiglio dell’Unione Europea Van Rompuy e l’Alto Rappresentante per gli Affari esteri e la politica di Sicurezza Catherine Ashton, nei primi giorni dall’intervento, si smentirono vicendevolmente rispetto agli obiettivi dell’intervento in Libia, in particolare sul regime change. La terza criticità riguardò il doppio livello tra istituzioni europee e stati membri, con il Presidente del Consiglio italiano Berlusconi che mantenne un atteggiamento cauto e preconizzò la creazione di uno stato islamico sulla sponda sud del Mediterraneo; tali affermazioni contraddicevano palesemente l’indirizzo europeo sull’intervento in Libia. Infine l’impasse riguardo alla cooperazione UE-NATO. Tale cooperazione risentì – e risente ancora oggi – della disputa tra la Turchia (membro NATO e non UE) e Cipro (membro UE, ma non della NATO)411. Questa controversia non permise, neppure a livello informale, di sviluppare una strategia di cooperazione efficace per la fase post war in Libia.

A conclusione dell’analisi, risulta utile indicare un ultimo elemento di cambiamento di paradigma che ha dovuto subire Obama rispetto alla sua retorica: dal discorso del Cairo del giugno 2009, dove l’apertura verso il mondo arabo e islamico era stata massima e la proposta di un nuovo inizio nei rapporti con gli Stati Uniti chiara, gli inverni arabi e la dicotomia dittatura/dissoluzione statuale che aveva investito l’area MENA, avevano costretto Obama a far prevalere la propria realpolitik rispetto alle

410 N. Koenig, The EU and the Libyan Crisis: in quest of coherence?, IAI working papers 11/19, luglio

2011, http://www.iai.it/sites/default/files/iaiwp1119.pdf

411 Sulla questione turco-cipriota si veda: E. Di Nolfo, Storia delle Relazioni Internazionali II: gli anni della guerra fredda 1946-1990, Roma Bari, Manuali Laterza, 2015, pp 646

126 speranze e alla volontà di cambiamento della quale si era fatto portatore durante l’ascesa alla Presidenza412.