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Università di Pisa
Dipartimento di Scienze Politiche
Corso di Laurea Magistrale in Studi Internazionali LM 52
Tesi di Laurea
Dottrina Obama?
Approccio storico e critico alla politica estera e di sicurezza
del 44° Presidente degli Stati Uniti d’America
Candidato
Relatrice
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A Sergio, per tutto quello che hai fatto, per tutto ciò che sei stato.
3 ABSTRACT
La presente analisi affronta, attraverso un approccio storico e critico, le principali direttrici di politica estera del Presidente Barack Obama, che hanno guidato l’azione internazionale degli Stati Uniti dal 2009 al 2017. Con la consapevolezza che il periodo analizzato risente pienamente di vicende, che si stanno sviluppando mentre si scrive, e che gran parte della documentazione ufficiale dei fatti analizzati è ancora secretata o non disponibile, l’obiettivo del presente elaborato è quello di tracciare un percorso storico delle principali azioni internazionali dell’Amministrazione Obama e ricercarne una Grand Strategy di fondo, ovvero una linea guida delle condotte adottate dal Presidente degli Stati Uniti. Si è voluto andare inoltre a verificare la tensione costante tra la retorica utilizzata dal Presidente Obama e dal suo staff nelle dichiarazioni pubbliche e nei documenti ufficiali, rispetto alle reali azioni intraprese. Il capitolo uno è dedicato alla definizione teorica di Dottrina in politica estera e di Sicurezza o Grand Strategy, elencando le principali dottrine seguite dalle Amministrazioni statunitensi del XX e del XXI secolo, al fine di confrontarle con l’azione internazionale di Obama. Successivamente, si prende in esame uno dei teatri storicamente più complessi dell’azione statunitense nel mondo: il Medio Oriente. L’analisi si sofferma sulle differenti strategie tra la guerra in Afghanistan e quella in Iraq, sottolineando le conseguenze nella stabilità regionale mediorientale, anche dal punto di vista della guerra al terrorismo di Obama, dei difficili rapporti con i paesi del Golfo e della dual track strategy rivolta al programma nucleare iraniano. Il capitolo tre indaga altre due principali linee di politica estera statunitense a livello globale: il pivot to Asia o rebalancing e le politiche intraprese contro il climate change, verificando le preoccupazioni europee riguardo allo shifting asiatico e l’importante risultato ottenuto con il Paris Agreement. Il focus dell’ultima parte verte sulle relazioni transatlantiche durante la Presidenza Obama e sulle modifiche apportate tra i due mandati, in seguito alle Rivoluzioni arabe scoppiate tra il 2010 e il 2011 e l’evoluzione dei rapporti con la Federazione Russa e l’Unione Europea, dalla politica di reset fino allo scoppio della crisi ucraina.
Ne consegue la verifica di un costante iato tra la retorica e i programmi elettorali del Presidente Obama, rispetto alla realtà effettiva delle azioni internazionali intraprese. Tale tensione è stata generata spesso da crisi esterne, che hanno mutato l’impostazione presidenziale basata, tuttavia, su alcuni cardini fondamentali: il bilanciamento, la sostenibilità, il restraint, la pazienza e il pragmatismo, e l’eccezionalismo americano. Tutte caratteristiche che individuano una Grand Strategy di fondo anche se spesso controversa nei suoi risultati.
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INDICE
Introduzione
Capitolo uno. Approccio teorico alla dottrina Obama pp 20
1.1 Dottrina in politica estera o “Grand Strategy” pp 20 1.2 Il background politico di Obama e la campagna elettorale 2007-2008 pp 24
1.3 I caratteri della Dottrina Obama pp 28
1.4 The Obama Doctrine – Jeffrey Goldberg e la Guerra Siriana pp 32 1.5 Le minacce all’America e ai suoi alleati pp 36
Capitolo due. Il Medioriente tra disengagement e instabilità pp 39
2.1 AF - PAK strategy, surge and the war of necessity pp 39 2.2 La “dumb war”, il Retrenchment dall’Iraq e le sue conseguenze pp 50 2.3 La guerra al Terrorismo di Obama tra continuità e discontinuità pp 55 2.4 Le cd. petromonarchie del Golfo: i difficili rapporti con i Sauditi pp 61 2.5 L’Iran: non proliferazione e dual track strategy. pp 64
Capitolo tre. L’altro Obama tra il pivot to Asia e il climate change pp 76 3.1 Il pivot to Asia o rebalancing: tra continuità e novità pp 77 3.1.1 L’American Pacific Century: gli obiettivi del pivot pp 79 3.1.2 Il pivot: aspetti strategici e militari pp 80 3.1.3 Il pivot: aspetti economici e commerciali pp 84 3.1.4 Il pivot: aspetti politico – diplomatici pp 87 3.2 Il climate change: Obama e l’impegno per la salvaguardia ambientale pp 90
3.2.1 Le politiche contro il climate change nel secondo mandato
Obama. pp 95
Capitolo quattro. L’Arco di Crisi: le relazioni transatlantiche pp 100
4. 1 Le Rivoluzioni arabe: la variabile “impazzita” del Medio Oriente pp 100
4.1.1 La Rivoluzione egiziana pp 104
5 4.1.2 Il Caso Libico e il leading from behind pp 111
4.1.3 Le conseguenze delle rivoluzioni arabe sulla politica di Obama e
sui rapporti transatlantici pp 122
4.2 Le relazioni internazionali con la Russia: dal reset all’Ucraina pp 126
4.2.1 Dal reset al ritorno di Putin pp 127
4.2.2 La fine del reset e l’Ucraina pp 134
Conclusioni pp 145
Bibliografia e Sitografia pp 154
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INTRODUZIONE
Il 4 Novembre 2008, al termine dello spoglio delle consultazioni generali negli Stati Uniti d’America, il candidato democratico Barack Hussein Obama ottiene la vittoria con 365 grandi elettori contro lo sfidante, il repubblicano John McCain. Il 20 Gennaio 2009, come da prassi costituzionale statunitense, Barack Hussein Obama giura come quarantaquattresimo Presidente degli Stati Uniti d’America e diventa il primo Presidente di origine afroamericana della storia degli Stati Uniti.
Ogni elezione presidenziale è sempre avvenuta sotto la spinta di particolari impulsi di cambiamento richiesti dal corpo elettorale; allo stesso tempo ogni quattro anni, l’unico ufficio elettivo nazionale degli Stati Uniti viene caricato di notevoli aspettative sull’onda di un’aspirazione ricorrente al “sogno americano”.
La catarsi del momento elettorale è avvenuta in maniera ancor più marcata con l’ascesa di Obama, interpretato come una figura quasi taumaturgica dai suoi sostenitori e da molta parte della stampa nazionale ed internazionale. In particolare i temi di politica estera e di sicurezza hanno costituito un importante pilastro nella narrativa elettorale del primo presidente afroamericano degli Stati Uniti1. Obama infatti ha saputo coniugare le ambizioni di sicurezza dei cittadini americani con la sfiducia verso la “palude” strategica afghana e irachena che stava costando migliaia di vite americane senza chiari risultati. Obama ha impostato e sviluppato un’oratoria elettorale di radicale svolta nella politica estera e di sicurezza, intrecciando abilmente minimi comuni denominatori strategici con un discorso elastico ed oscillante tra stringente pragmatismo ed alto idealismo.
Durante gli otto anni alla Presidenza degli Stati Uniti, Obama ha impresso una significativa ristrutturazione alla politica estera e di sicurezza del proprio Paese e, allo stesso tempo, il contesto delle relazioni internazionali a cui si è trovato di fronte negli anni, è progressivamente mutato in maniera profonda e duratura.
Dal termine della Seconda Guerra Mondiale, la storia della politica estera e di sicurezza americana, con i suoi effetti diretti ed indiretti sulla scena mondiale, è stata interpretata dagli studiosi come un avvicendarsi di dottrine di politica estera determinate dalle azioni, dalla retorica e, non ultimo, dall’establishment del Commander in Chief pro tempore. La dottrina del containment del Presidente
1 M. Del Pero, Era Obama, dalla speranza del cambiamento all’elezione di Trump, Feltrinelli, Milano,
7 Truman2, adottata dal 1947 nei confronti dell’Unione Sovietica o la diplomazia triangolare di Nixon e del Segretario di Stato Kissinger3 servano solo come esempio per indicare gli elementi costitutivi principali di dottrine di politica estera articolate su: quali obiettivi da perseguire, quali minacce affrontare e che tipo di strumenti schierare4. Il professor Peter Feaver della Duke University, in un articolo su Foreign Policy, definì la Grand Strategy: is a term of art from academia, and refers to the collection of plans and policies that comprise the state’s deliberate effort to harness political, military, diplomatic, and economic tools together to advance that state’s national interest. Grand Strategy is the art of reconciling ends and means5.
Le grandi dottrine di politica estera sono nate quasi sempre in modo casuale, tramite la sistematizzazione di discorsi o documenti presidenziali. Ad ogni modo la classificazione di una dottrina di politica estera consente di compendiare retrospettivamente il pensiero e le azioni di un leader e consentono agli studiosi di affrontare tramite macro aree di studio il mare magnum delle relazioni internazionali. Al momento della redazione del presente testo, Barack Obama ha terminato da un anno il suo mandato e molte fonti diplomatiche dirette dovranno ancora nei prossimi anni essere portate alla luce ed analizzate; fonti che potranno maggiormente porre un focus su quali siano state le motivazioni profonde e quale strategia abbia impresso Obama nei suoi due mandati presidenziali.
Oggi è tuttavia possibile operare uno studio sui tratti caratterizzanti la politica estera di Obama, sottolineando le somiglianze e le differenze strategiche con i suoi predecessori, evidenziando la perenne tensione tra retorica e pragmatismo, tra idealismo e realismo ed infine analizzando quale sistema internazionale abbia contribuito a sviluppare il 44° Presidente degli Stati Uniti.
L’analisi storica delle relazioni internazionali degli Stati Uniti attraverso la lente della Grand Strategy, permette un’analisi critica delle impostazioni statunitensi,
2 Il Containment, dottrina del Presidente Truman venne annunciato il 12 Marzo 1947 in un discorso a
camere riunite in risposta alla guerra civile in Grecia e alle pressioni subite dalla Turchia dall’Urss riguardanti soprattutto il regime degli Stretti regolato dalla convenzione di Montreux del ’36. Il
containment può essere indicata come la prima dottrina di politica estera formulata da un
Presidente USA dalla fine della Seconda Guerra Mondiale (fonte: E. Di Nolfo, Storia delle Relazioni
Internazionali II: gli anni della guerra fredda 1946-1990, Roma Bari, Manuali Laterza, 2015, pp 70-71) 3 M. Del Pero, Libertà e Impero- gli Stati Uniti e il mondo 1776-2016, Roma-Bari, Ed. Laterza, 2017, pp
359-363
4 P. Wulzer, La politica estera di Obama, il dibattito e le scelte fondamentali(a cura di ) P. Wulzer,
Textus Ed.,2017, pp 16-17
5 P. Feaver, What is grand strategy and why de we need it?, Foreign Policy, Aprile 2009,
8 combinando elementi di analisi storica, politologica, raffrontandole con l’esperienza reale6.
Quello che importa inizialmente definire è l’assunto di partenza per un’analisi di politica estera e di sicurezza che non può prescindere da alcuni fondamentali fattori domestici dello Stato Nazione in esame: la presente analisi si basa sulla tesi che la politica estera di uno Stato-Nazione sia frutto dell’interrelazione tra obiettivi, strategie, azioni e aspetti di domestic policy7.
Questa sostanziale nozione risulta suffragata anche dalla posizione dello stesso Senatore dell’Illinois durante la campagna presidenziale del 2007-2008 e nella campagna per la rielezione del 2012. Obama, infatti, era fortemente convinto che, per essere decisivi all’estero, fosse necessario primariamente avere certezze all’interno dei propri confini nazionali ed il contesto statunitense necessitava di certezze, che i Repubblicani del Presidente George W. Bush non avevano più la capacità politica di fornire. Il nation building at home, come lo ribattezzò durante la campagna elettorale, era necessario per poter proiettare un’immagine nuova degli Stati Uniti all’estero, ruolo offuscato e messo in dubbio anche dagli alleati storici europei.8
E’ utile in questo caso accostare l’impostazione di Obama con quella del suo predecessore democratico Bill Clinton: nelle elezioni del ’92, il campaign strategist democratico James Carville coniò il motto vincente della campagna elettorale “It’s the economy, stupid!”, dando priorità e risalto alle questioni domestiche degli Stati Uniti rispetto alla politica estera e al ruolo degli USA nel mondo incarnato nel new world order di Bush padre. Anche George W. Bush fu eletto nel 2000 con una piattaforma programmatica fortemente concentrata sul piano interno con importanti venature neo isolazioniste, ma l’11/9 cambiò radicalmente l’impostazione del Presidente e dell’establishment repubblicano9.
George W. Bush lasciò gli Stati Uniti in preda ad una crisi economica e sociale strutturale, che portò l’opinione pubblica a concentrarsi maggiormente sulle questioni
6 Ibidem
7 Per approfondire la teoria dell’interrelazione tra fattori domestici e politica estera si veda: T. Risse
Kappen, Public Opinion, Domestic Structure, and foreign policy in liberal democracies, in “World Politics” XLIII, n°4, 1991, pp 479-512
8 L’intervento militare in Iraq senza un mandato internazionale e la dottrina Bush della coalition of willing contribuirono a spezzare il fronte europeo.
9 Il cambio di impostazione è immediatamente riscontrabile nella National Security Strategy
pubblicata nel Settembre 2002. “Today the distinction between domestic and foreign affairs is
9 economiche interne, analogamente a quanto già sperimentato nei primi anni ‘90 – fenomeno che è proseguito e si è rafforzato durante tutto il primo mandato di Obama10. Perciò risulta utile elencare alcune tra le principali variabili intervenienti di domestic policy che principalmente hanno definito o mutato il corso degli eventi e dell’impostazione politica del Presidente Obama sin dalla sua ascesa elettorale. Tale breve quadro domestico è adatto per centrare successivamente l’analisi sugli aspetti di politica estera.
La crisi finanziaria ed economica, la crescente polarizzazione politica tra democratici e repubblicani - che ha portato sempre più spesso a contrapposizioni aspre ed irriducibili soprattutto sui temi economici e di politica estera - ed infine, la sempre latente questione razziale - tornata preponderante nei centri urbani e nelle periferie - sono le tre principali variabili in gioco per contestualizzare un’analisi di politica estera non sconnessa dal contesto politico - economico e sociale statunitense.
L’elezione di Barack Obama è giunta in un periodo storico nel quale gli USA si trovavano di fronte a molte sfide globali alle quali sembrava non riuscissero a far fronte in maniera compiuta; una delle minacce principali alla stabilità mondiale era rappresentata dalla crisi finanziaria globale generata dalla cd. Crisi dei mutui subprime, una crisi tutta statunitense che dalla metà del 2006 era dilagata ben presto in tutta l’eurozona e in tutti i paesi finanziariamente avanzati. Lo spillover economico generato dalla bolla dei mutui subprime venne veicolato globalmente dagli strumenti finanziari legati alla cartolarizzazione e la gestione del rischio: con questo strumento finanziario, diffusosi dagli anni 2000, i mutui a tasso variabile di cittadini statunitensi ad alto rischio insolvenza, venivano cartolarizzati (trasformati in titoli) e venduti nel mercato finanziario globalizzato dopo essere stati suddivisi sulla base del rating. L’innesco della crisi economico-finanziaria mondiale tuttavia è, come detto, principalmente statunitense: il settore immobiliare dal quale originò la crisi, venne favorito da alcune politiche attuate nel corso di tutti gli anni 2000. Il presidente George W. Bush, in carica dal gennaio 2001, sin dai primi mesi della sua presidenza esordì con il motto “we want everybody in America to own their own home”. Con tale dichiarazione si possono schematizzare molte delle principali politiche economiche domestiche dell’Amministrazione repubblicana di quegli anni, volte a spingere i
10 C. Dueck , The Obama Doctrine, American Grand Strategy Today, New York, Oxford University
10 consumi interni tramite la progressiva erosione del risparmio privato; dai primi anni 2000 inoltre, il presidente della FED, Alan Greenspan11, mantenne i tassi di interesse molto bassi nonostante la fase espansiva dell’economia, favorendo ulteriormente i consumi tramite il debito privato facilmente accessibile; infine l’abrogazione del Glass – Steagall Act, compiuta dall’amministrazione Clinton nel 1999, ha permesso la fusione e la creazione di enormi gruppi bancari eliminando la distinzione tra banche tradizionali e banche d’investimento12.
Il crollo del PIL, l’aumento della disoccupazione interna di oltre 2 punti e mezzo nel solo 200813, ed in definitiva, la gestione di una crisi che coinvolgeva tanto la cd. Main Street, l’economia reale ed il tessuto sociale, quanto Wall Street ovvero gran parte del sistema finanziario e bancario, assorbirono molto dell’iniziativa politica di un Presidente eletto all’unica carica statunitense che ha per collegio l’intero Paese, con il suo messaggio di cambiamento radicale rispetto alle politiche del decennio precedente, “Yes, we can”. La crisi ereditata da Obama, per l’opinione pubblica è divenuta ben presto la Crisi di Obama, il quale dedicò i suoi principali sforzi all’approvazione dell’ARRA (American Recovery and Reinvestment Act) già in vigore dal febbraio 2009 che allocò oltre 780 miliardi di dollari come stimolo economico complessivo per fronteggiare la crisi. E’ dibattuto dagli analisti se il rapporto tra l’enorme esborso di dollari da parte del governo centrale e l’inversione di tendenza sul PIL, l’effetto sull’occupazione nazionale e sull’aumento della domanda, sia stato favorevole o per gran parte sia andato a rifinanziare il capitale a rischio insolvenza degli istituti di credito e delle holding finanziarie.
Il secondo fattore domestico riguarda la questione razziale, che uscì dalla propria latenza storico- politica proprio nel momento in cui il primo afroamericano della storia statunitense varcava la soglia dello Studio Ovale. Il pregiudizio razziale nei confronti del Presidente Obama non accennò a diminuire nel corso degli otto anni di presidenza. Il tema dell’immigrazione legato alle tensioni razziali ha rappresentato una questione con la quale Obama ha dovuto a più riprese fare i conti. Alla sua elezione, in molti si erano affrettati a dichiarare l’inizio di un’era post- razziale14 e ad asserire che le ombre
11 Alan Greenspan, economista statunitense, presidente della FED dal 1987 al 2006
12 Per una trattazione ampia e critica di tutte le cause e concause che hanno portato alla più
imponente crisi economica e finanziaria dal 1929 si veda Joseph E. Stiglitz, Bancarotta, l’economia
globale in caduta libera, Torino, Einaudi, 2010 13 Serie storica disoccupazione USA consultabile su:
http://www.indexmundi.com/g/g.aspx?v=74&c=us&l=it
11 razziste degli Stati Uniti erano state superate il 4 Novembre 2008. La realtà dei dati però fa scorgere una situazione assai più articolata: gli effetti della recessione hanno colpito maggiormente la popolazione nera rispetto alla media nazionale, i dati sui programmi educativi non forniscono dati difformi e ugualmente il tasso di disoccupazione risulta maggiore nella popolazione di origine afroamericana e ispanica15. Paradossalmente, a livello politico si è assistito ad un nuovo processo di “razzializzazione”, ne sia un lampante esempio la convinzione radicata nell’elettorato e in alcuni esponenti repubblicani che Obama fosse segretamente musulmano o che non avesse neppure la cittadinanza statunitense16. Questo complesso tema interno ha spesso portato Obama a posizioni estremamente articolate e reattive rispetto agli eventi di cronaca, agli scontri razziali, ai soprusi della polizia sulla componente afroamericana, ai disordini urbani e conseguenti violenze, assottigliando progressivamente il tasso di approvazione del Presidente da parte della componente afroamericana e ispanica che era stata determinante per la sua prima elezione.
Il terzo fattore domestico, connesso in parte anche alla pregiudiziale razziale, riguarda gli effetti della polarizzazione politica sviluppatasi in maniera sempre crescente dal crollo del muro di Berlino e dalla disintegrazione del Patto di Varsavia. Dal momento in cui gli Stati Uniti hanno perduto il proprio nemico storico - l’Unione sovietica e il Blocco Comunista - le posizioni di Democratici e Repubblicani si sono maggiormente polarizzate sui temi di agenda internazionale, ad esclusione di casi per i quali il nemico era ben chiaro, come ad esempio la guerra al terrorismo e alle armi di distruzione di massa che hanno portato agli interventi in Afghanistan e Iraq. Tale fenomeno tra democratici e repubblicani ha raggiunto numerosi punti critici durante la presidenza Obama come lo shutdown17 innescato dai Repubblicani per contrapporsi al Patient Protection and Affordable Care Act18. A primo impatto, tale aspra contrapposizione potrebbe sembrare un paradosso in quanto, proprio Obama aveva basato la propria piattaforma retorica su un approccio bipartisan; in realtà le dinamiche politiche e lo
15 Op. Cit. M. Del Pero, Era Obama, pp 132
16 Addirittura il candidato repubblicano Donald Trump nel 2016 fece sue queste obiezioni e
rivendicazioni sulla figura di Obama.
17 Il “ government shutdown” prevede sostanzialmente il congelamento della capacità di spesa del
Governo, che in pratica non avrebbe più autorità per spendere il denaro per servizi non essenziali. La sospensione delle spese non essenziali è stabilita dall’Antideficiency Act del 1884 che ha lo scopo di impedire che la PA possa spendere senza le coperture garantite dalla legge di rifinanziamento ( da : www.soldionline.it/guide/mercati-finanziari/shutdown-amministrativo-usa )
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shifting del Partito Repubblicano verso l’Alt-Right e il Tea Party hanno reso questa situazione quasi strutturale19. Inoltre gli appuntamenti elettorali e l’evoluzione del sistema politico, sempre più farraginoso e sempre più caratterizzato dalla pratica del filibustering, l’ostruzionismo sistematico della maggioranza avversa al Presidente in una delle due Camere20, hanno contribuito ad acutizzare lo scontro e la lentezza del processo politico.
Questi tre macro aspetti di politica interna, meriterebbero da soli un’approfondita analisi per esaminare l’evoluzione politica e sociale degli Stati Uniti nell’ultimo decennio. Nella struttura del presente elaborato queste variabili permettono di contestualizzare l’azione di foreign policy di un Presidente che, al netto di giudizi politici eterogenei, ha mutato il ruolo e la visione degli USA nel mondo e le relazioni transatlantiche ed internazionali.
Al fine di precisare l’analisi sugli elementi caratterizzanti la politica estera e di sicurezza del 44° Presidente degli USA, è necessario inoltre porre l’attenzione sul contesto nazionale ed internazionale plasmato dai due mandati del Presidente George W. Bush.
La lettura dei principali documenti ufficiali dell’Amministrazione Bush e di alcuni discorsi ufficiali tenuti dal Presidente, fornisce un chiaro quadro della visione di sicurezza nazionale e di diplomazia che gli Stati Uniti hanno assunto post 11 Settembre.
In primo luogo, la National Security Strategy21 del 2002, delinea in un quadro sintetico la forte mutazione ideologica che si è sviluppata con lo shock degli attacchi di Al Qaeda su territorio statunitense. In essa si ritrovano i cardini essenziali della Freedom Agenda di Bush in gran parte rimasti immutati fino al termine del suo mandato: la guerra al terrorismo ricorre in molte delle pagine della NSS, “we will defend the peace by fighting terrorists and tyrants […]we will extend the peace by encouraging free and open societies on every continent […] we will champion the cause of human dignity and oppose those whose resist it. In esse si denota la consapevolezza di una posizione di forza militare e di influenza politica, economica e culturale senza precedenti per gli Stati Uniti nel mondo; in questo documento viene evidenziato quale sia il comune
19 Op. cit. M. Del Pero, Era Obama, pp 27
20 Dal 2007 le votazioni per interrompere il filibustering si sono raddoppiate rispetto alle legislature
precedenti
13 nemico degli USA e dei suoi alleati, ovvero il terrorismo internazionale e i Paesi che lo sostengono. L’identificazione dei nemici dell’interesse nazionale statunitense va integrata con il discorso sullo stato dell’Unione pronunciato dal Presidente nel Gennaio 2002; in esso il Presidente individua nei cd. Rogue states e nell’ evil axes formato da Corea del Nord, Iraq e Iran, l’unica credibile sfida contemporanea alla sicurezza statunitense. La priorità indicata è principalmente distruggere le organizzazioni terroristiche attaccando la loro leadership, i loro comandi, comunicazioni e le finanze. Obiettivo fondamentale delineato dall’Amministrazione Bush è quello della lotta alla proliferazione delle armi di distruzione di massa con una strenua difesa delle popolazioni e degli Stati alleati attaccati o minacciati da esse. Un passo importante che identifica l’impostazione internazionale del Presidente Bush è inoltre l’organizzazione di coalition of states able and willing to promote balance of power that favors freedom22; tale impostazione di coalizione è messa in pratica con l’intervento in Iraq del 2003, senza la preventiva approvazione dell’ONU, con la partecipazione di 49 Paesi come indicato dalla dichiarazione ufficiale della Casa Bianca23.
L’eredità internazionale di George W. Bush quindi appariva alla maggioranza degli Americani24 molto controversa, con due campagne militari, Kabul e Baghdad, dalle quali gli USA stentavano ad uscire senza dare un negativo segnale di ritirata senza vittoria. L’ultimo anno fiscale di presidenza Bush (2007) segnava una richiesta per il budget della Difesa di 439 miliardi di dollari con un aumento di circa il 27% rispetto al periodo precedente l’11/9; tale cifra non tiene conto né delle spese in bilancio del Dipartimento dell’Energia (per l’adeguamento dell’arsenale nucleare) né delle spese del Dipartimento della Homeland Security. In particolare, prendendo a riferimento solo le operazioni sul campo iracheno, nel 2007 si è stimato un costo di circa 6 miliardi di dollari al mese per le operazioni sul campo25. Un’iper - potenza statunitense che appariva perciò “appannata” dagli stalli strategici medio orientali e dalla forte crescita, economica e di influenza, di potenze regionali quali la Russia del ticket Putin – Medvedev o la Cina popolare di Hu Jintao.
22 Op. cit. The White House, National Security strategy 2002, pp 25.
23https://georgewbush-whitehouse.archives.gov/infocus/iraq/news/20030327-10.html
24 Il tasso di approvazione misurato da Gallup per il presidente Bush al termine della sua presidenza
era del 34% http://www.presidency.ucsb.edu/data/final_approval.php
25 D. Isenberg, Budgeting for Empire: the effect of Iraq and Afghanistan on Military forces, Budgets, and Plans, The Independent Institute, Washington, 2007, pp 2
14 E’ nel declino dell’idea di unipolarismo assoluto americano e nel dato strutturale di una potenza “prima fra pari”26 che si inseriscono le idee cardine che hanno contribuito all’elezione e alla riconferma di Barack Obama alla Presidenza.
Il percorso di analisi e di ricerca di una dottrina Obama verrà strutturato in quattro parti principali che cercheranno di fornire una visione completa e sfaccettata della politica estera e di sicurezza di Obama.
La prima parte si dedicherà all’analisi dei documenti principali che possono fornire un quadro completo del modello di Obama in politica estera e della sua capacità di oscillare tra un discorso retorico, a tratti marcatamente idealista, con azioni e direttive fortemente ispirate alla realpolitik e al pragmatismo di stampo “jeffersoniano”. Il dibattito sulla politica estera obamiana infatti è tutt’ora articolato ed ampio, con paragoni ricorrenti al Presidente Jefferson, per indicarne la riluttanza all’uso della forza e lo scetticismo verso l’esportazione della democrazia, privilegiando un atteggiamento pragmatico27.
Per una prima analisi che possa indicare i tratti salienti del modello obamiamo di politica estera verrà preso ad esame l’importante articolo pubblicato su The Atlantic “The Obama Doctrine”, una lunga intervista al Presidente effettuata nei suoi ultimi mesi di mandato, realizzata da Jeffrey Goldberg. Intervista che si concentra sui teatri più impegnativi per Obama e gli USA quali la Siria, l’Iraq, i rapporti con l’estremo Oriente, con l’Europa e con la Russia di Putin. In questo lungo articolo che riporta numerosi colloqui diretti tra Goldberg ed il Presidente, si tratteggiano i rapporti di forza tra la leadership di Obama e il proprio staff ed inoltre si possono notare importanti limiti tra le certezze ed i dubbi di un Presidente che, come già accennato, aveva suscitato enormi aspettative da parte dei cittadini statunitensi, dei mass media e dei principali alleati degli Stati Uniti d’America. Questa visione ex post della sua politica estera e di sicurezza sarà integrata dai documenti ufficiali della Casa Bianca e del Dipartimento di Stato come le National Security Strategy del 2010 e del 2015 che, analizzate in un continuum logico, forniranno un’evoluzione storica e politica dell’impostazione USA nel mondo. Infine occorre riprendere importanti discorsi pubblici come quello al Cairo nel 2009 dove Obama ha affrontato i rapporti con
26 M. De Leonardis , Prefazione, in Il mondo di Obama, (a cura di) P. Magri, ISPI, Milano,2016, pp
11-12
27 P. Wulzer,Introduzione, in La dottrina Obama, (a cura di) P. Wulzer, Textus ed., L’Aquila, 2017, pp
15 l’Islam, con i Paesi arabi e con l’Africa Sub Sahariana ed il suo speech di fronte alla Porta di Brandeburgo nel pieno della sua prima campagna elettorale nel luglio 2008, dove propose un nuovo modello di relazioni tra gli USA e i suoi alleati storici europei e la NATO.
La seconda sezione andrà quindi a calare i princìpi e le teorie espresse dal Presidente sul terreno delle azioni, andando ad analizzare i principali scenari di mutamento impressi dalla visione di Obama.
Al momento dell’elezione di Obama, l’Afghanistan e l’Iraq occupavano i primi posti dell’agenda statunitense sia in termini di impegno economico che in termini di stallo strategico militare. La nuova visione introdotta da Obama, anche in acceso contrasto con l’establishment democratico, ha impresso due destini separati all’Afghanistan e all’Iraq. La questione verrà approfondita sotto il profilo della guerra al terrorismo che ha assorbito molto del capitale politico di Obama, trovatosi di fronte ad un autoproclamato Stato Islamico (IS) che, per stessa ammissione dell’Amministrazione, era stato largamente sottovalutato dal punto di vista delle capacità belliche, di espansione e di auto sostentamento economico. Un ulteriore approfondimento merita l’evoluzione bellica e tecnologica che si è sviluppata dal 2008 con un uso sempre più massiccio di droni da bombardamento e le nuove tecniche di spionaggio usate indiscriminatamente su nemici ed alleati che hanno in parte minato la credibilità USA come alleato affidabile. Le ulteriori tematiche prese in esame riguardano l’obiettivo statunitense relativo alla sicurezza energetica e le sue importanti conseguenze nei rapporti con le cosiddette “Petromonarchie” del Golfo ed il consequenziale cambio di pianificazione estera per tutto il Medio Oriente. Un importante obiettivo del Presidente infatti era legato all’indipendenza energetica degli Stati Uniti, obiettivo raggiunto con le ricerche di shale gas e il deepwater drilling. La conclusione di questo primo scenario analisi vedrà un focus riguardo alla dual track strategy obamiana rispetto al programma nucleare iraniano. La Repubblica islamica dell’Iran è sin dalla sua nascita una delle questioni più articolate che le Amministrazioni statunitensi si sono trovate a gestire sin dalla crisi degli ostaggi del 4 Novembre 1979. Il ruolo strategico e geopolitico dell’Iran, assieme alla sua impostazione islamista con forti tratti antisemiti, fino al programma nucleare hanno rappresentato una delle maggiori preoccupazioni della comunità internazionale e degli Stati Uniti soprattutto dai primi anni 2000. In particolare, dal 2002 è tornato alla ribalta il tema nucleare, con la rivelazione di due importanti siti iraniani per l’arricchimento dell’uranio e quindi in prospettiva per la
16 creazione di un arsenale militare. Con un lungo processo negoziale, che ha visto protagonisti l’AIEA (Agenzia Internazionale Energia Atomica) e i cd. P 5+1 (i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e la Germania), Obama ha raggiunto uno dei più importanti obiettivi di politica estera che si era prefissato: il 2 Aprile 2015 è stato siglato l’accordo con l’Iran per l’alleggerimento delle sanzioni economiche imposte sia da istituzioni internazionali quali ONU (risoluzioni 1737, 1747, 1803, 1929) e UE che dai singoli stati. Tale accordo, esito di un’articolata applicazione di soft power e hard power e di un’abile azione diplomatica statunitense, è stato salutato come uno dei più importanti successi in politica estera del Presidente Obama dai suoi sostenitori. L’accordo però ha avuto pareri fortemente contrastanti, non ultima la posizione di un alleato storico nella regione mediorientale quale Israele. L’analisi si focalizzerà sulla valenza dell’accordo per il futuro delle relazioni internazionali e per gli equilibri dell’area mediorientale che Obama ha lasciato al suo successore.
Spostando il focus dal Medio Oriente, sarà utile alla completezza dell’analisi, porre attenzione ad uno dei pilastri della politica estera obamiana e soprattutto del Segretario di Stato Clinton: il pivot to Asia o rebalancing, ovvero lo spostamento di attenzione strategica statunitense, con l’obiettivo di costruzione di un’ampia alleanza verso l’estremo oriente. In questo caso si è assistito ad un considerevole differenziale tra la progettualità intesa dall’Amministrazione Obama e i risultati attesi, con la realtà dei fatti che verranno espressi. Tale strategia multidimensionale dosava aspetti economici e politico diplomatici che solo in parte si sono realizzati. Probabilmente il grande risultato diplomatico in estremo oriente si è avuto con l’approvazione del TTP, Trans Pacific Partnership, trattato di liberalizzazione dei commerci con ben undici paesi del Pacifico, portato avanti con tenacia dall’Amministrazione e siglato nell’Ottobre del 2015. Il pivot to Asia tuttavia è stato percepito dalla Cina e dal suo leader Xi Jinping come un accerchiamento geopolitico voluto da Obama al fine di limitare l’ascesa cinese.
Sul fronte di politica economica internazionale, il trattato “gemello” del TTP con i paesi europei non ha mai visto la luce a causa di numerose ambiguità sia nel processo negoziale sia nei contenuti del progetto stesso. Con questi due storici trattati gli Stati Uniti si sarebbero posti al centro della più grande area commerciale liberalizzata del mondo.
17 Infine, sarà analizzato un altro cardine dell’impegno globale del Presidente Obama, che ha caratterizzato tutta l’impostazione diplomatica degli Stati Uniti dal 2009 al 2017: la lotta al climate change.
La terza parte sarà invece incentrata sui rapporti transatlantici della Presidenza Obama. Tale complesso argomento verrà analizzato sotto la lente geopolitica indicata dal noto politologo, nonché consigliere di Obama, Zbigniew Brzezinski. Per il professore, gli Stati Europei insistono sull’Arco di Crisi che corrisponde alla Regione MENA ( Middle – east and North Africa) fino agli Stati post- sovietici, dove la Federazione Russa sta tornando negli ultimi anni prepotentemente ad esercitare una propria influenza. Verranno perciò analizzate le cause e le conseguenze di due principali fenomeni internazionali che hanno profondamente messo alla prova la Grand Strategy obamiana fino, in alcuni casi, a modificarla letteralmente.
Il primo caso riguarda l’atteggiamento tenuto dall’Amministrazione USA rispetto alle cd. Primavere Arabe, fenomeno politico sociale esploso a cavallo del 2010 e del 2011, che ha riguardato quasi tutti i paesi arabi e nord africani, ma che ha coinvolto particolarmente Egitto, Libia, Siria, Tunisia, Algeria, Iraq, Bahrein e Yemen. Tale circostanza è stata caratterizzata da importanti proteste dei cittadini dei paesi summenzionati che hanno portato, in alcuni casi, alla caduta di regimi ultradecennali in nome di articolate richieste di modernizzazione dei Paesi e rivendicazioni di diritti civili e politici. In particolare l’attenzione si soffermerà su uno Stato chiave dell’azione estera statunitense: l’intervento militare in Libia che ha portato alla caduta del Colonnello Mu'ammar Gheddafi e al dissolvimento dello Stato Nazione libico. Il ruolo degli Stati Uniti nell’intervento militare e il successivo disimpegno da un contesto militarmente e politicamente complesso, hanno di fatto contribuito alla genesi di uno dei teatri più complessi e sanguinosi che la comunità internazionale stenta ancora oggi a risolvere. Tale history case è adatto a calare basilari indirizzi statunitensi sul terreno internazionale.
Il secondo caso preso in analisi riguarda l’Ucraina ed il suo valore simbolico, storico e geopolitico nelle relazioni internazionali e transatlantiche. Nella trattazione si farà riferimento al contesto storico ucraino tra il 2004 ed il 2010 e al ruolo dell’Ucraina nei rapporti tra Stati Uniti, Federazione Russa e Unione Europea fino alla Rivoluzione del 2014, in contrapposizione alla politica filorussa del governo in carica all’epoca. I successivi avvenimenti, tra cui l’annessione della regione della Crimea da parte della Russia, saranno utili per sottolineare l’evoluzione dei rapporti transatlantici e alla
18 mutazione di impostazione nei confronti della Russia – dal reset allo scontro diplomatico e politico.
Al termine, si procederà ad esporre le conclusioni del presente elaborato, cercando di rispondere alle principali questioni sollevate, quali: se sia possibile individuare una “dottrina Obama”, quale approccio teorico abbia condizionato maggiormente l’Amministrazione, quale pianificazione di politica estera e di sicurezza abbia implementato Obama durante i suoi otto anni di presidenza ed infine che bilancio sia possibile tracciarne. E’ sicuramente possibile preannunciare che la legacy politica della sua amministrazione abbia lasciato un quadro controverso rispetto alle promesse e alle aspettative – enormi – che la figura di Obama aveva trascinato alla Casa Bianca. Inoltre l’oscillazione e le contraddizioni della politica estera obamiana sono state influenzate dal piano politico interno, a partire dalla composizione della sua amministrazione.
Si cercherà di verificare infine se dall’analisi emerga una corrispondenza con quanto evidenziato con lucidità da Ennio Di Nolfo:
“dal 2008 gli USA hanno coscientemente abbandonato l’idea di guidare politicamente in modo esplicito tutto ciò che avviene sul piano internazionale, ma conservano, e sembrano intenzionati a conservare, una visione strategica globale, il primato finanziario e tecnologico come presupposti di un dominio destinato a durare ancora per diverso tempo […] seguono un’azione internazionale più riflessiva e più cauta che non è né distratta né disattenta.”28 oppure interpretare l’azione internazionale di Obama in maniera più critica come espone uno dei più importanti politici ed analisti americani, l’ex segretario di Stato Henry Kissinger che su The Atlantic, nel Dicembre 2016 affermava: “we must take care lest the Obama doctrine become an essentially reattive and passive foreign policy […] Obama seems to think of himself not as a part of a political process, but as sui generis […]he is more concerned with short-term consequences turning into permanent obstacles”.29
Il presente studio è stato concluso prima della pubblicazione del libro The World as it is di Ben Rhodes, membro dello Staff di Obama in qualità di National Security
28 E. Di Nolfo, Storia delle Relazioni Internazionali. Dalla fine della guerra fredda ad oggi. Laterza,
Roma, 2015, p.9
29 J. Goldberg, The Lesson of Henry Kissinger, The Atlantic,
19 Advisor. Tale raccolta di memorie potrà senz’altro fornire nuovi elementi utili all’approfondimento delle principali scelte dell’Amministrazione Obama in politica estera e di sicurezza.
20
CAPITOLO UNO
APPROCCIO TEORICO ALLA DOTTRINA OBAMA
1.1 Dottrina in politica estera o “Grand Strategy”
Le grandi dottrine di politica estera dei Presidenti statunitensi moderni sono quasi sempre nate in modo fortuito, spesso inoltre sono state frutto di complesse rielaborazioni, sistematizzazioni effettuate dagli studiosi o dai commentatori ex post. A conferire lo status dottrinale ad un discorso presidenziale o ad un documento governativo non è stata tanto la coerenza concettuale o profondità strategica, bensì la capacità del Presidente di turno di intercettare l’umore dell’opinione pubblica30 e di trasformare il sentiment generale in azioni o indirizzi di politica internazionale. Ad ogni modo le dottrine presidenziali di politica estera spesso hanno teso a concentrare e, allo stesso tempo, disperdere la complessità delle visioni di politica internazionale dei singoli presidenti. Da non sottovalutate inoltre il problema di sistematizzazione ex post, dovuto invece all’individuazione delle cd. Knee jerk reactions, una serie di politiche di reazione alle vicende internazionali alla quale base non sottostà alcun indirizzo teorico di politica estera; l’accusa infatti che spesso viene rivolta ai presidenti in carica è proprio quella di non seguire linee guida di lungo periodo, ma di agire essenzialmente sull’onda dell’opinione pubblica e sui vantaggi di breve o brevissimo periodo.
La definizione di dottrina di politica estera e di sicurezza o Grand Strategy impone una rigorosa coerenza tra i fini ed i mezzi per raggiungerli. Una dottrina deve innanzitutto specificare i principali obiettivi nazionali, definire il concetto di interesse nazionale e identificare quali siano le principali sfide e minacce a questi interessi. Infine una strategia deve elencare quali strumenti di policy siano raccomandati per raggiungere i principali fini. Una grand strategy implica un certo grado di flessibilità nell’impostazione teorica e pratica delle policy da sviluppare e allo stesso tempo richiede la capacità di capire come utilizzare il potere che si possiede31
Come indica il Professor D. Drezner “a grand strategy consist of a clear articulation of national interest married to a set of operational plans for advancing them […] a
30 Op. Cit. Del Pero, 2017, Era Obama, Feltrinelli, Milano
21
well – articulated grand strategy can offer an interpretive framework that tells everybody […] how to understand the administration’s behavior”32
La grand strategy quindi, può essere descritta come una road map che indica in quale modo identificare le risorse nazionali per perseguire obiettivi internazionali e difendersi da potenziali minacce endogene o esogene.
Preso atto del processo di sistematizzazione ex post che hanno subito le dottrine presidenziali, è quindi possibile interpretare ed analizzare la storia delle relazioni internazionali americane come un susseguirsi e alternarsi di diverse grand strategies. Al fine di effettuare un’analisi multidimensionale della politica estera di Obama, risulta utile categorizzare le principali linee strategiche base che si sono sviluppate nella storia degli Stati Uniti. Questa categorizzazione, che fornirà gli strumenti teorici necessari per orientarsi nelle specifiche azioni politiche del Presidente Obama, è sintetizzata abilmente da Colin Dueck in The Obama Doctrine –American Grand Strategy Today.
La strategia di retrenchment è definita come una strategia di riduzione degli impegni internazionali economici e soprattutto militari. Essa può essere attuata attraverso tagli alle spese della difesa, attraverso il ritiro da alcune alleanze o da specifici impegni multilaterali precedentemente assunti o il ridimensionamento di dispiegamenti strategici all’estero. Tale strategia, non è necessariamente opposta all’enlargement ma si configura come un metodo primario di riduzione delle uscite dai bilanci statali, specialmente in periodi di recessione e crisi economica. Un caso storico esemplificativo di retrenchment è sicuramente il ritiro dal Vietnam dei primi anni ’70 da parte degli Stati Uniti di Nixon33. La scuola realista di relazioni internazionali indica il retrenchment come un indice di relativa debolezza e di potenza declinante; inoltre spesso, il retrenchment ha effetti negativi nelle relazioni con gli alleati e nel posizionamento strategico dei nemici: i primi vedono indebolita la propria posizione strategica, con il rischio di sentirsi abbandonati dall’alleato, mentre i secondi sono incentivati ad inasprire il conflitto al fine di rafforzare le proprie posizioni o guadagnare terreno.
32 R. Kaufman, Dangerous Doctrine: How Obama’s Grand Strategy Weakened America, The University
Press of Kentucky, 2016
33 M. Del Pero, Libertà e Impero: Gli Stati Uniti e il Mondo 1776-2016, Roma-Bari, Laterza Ed, 2016,
22 La seconda tipologia di grand strategy è il containment. Tale strategia implica la creazione di perimetri e contrappesi geopolitici attorno alla potenza rivale, sia attraverso asset militari che attraverso azioni diplomatiche. Il più celebre caso storico di containment è formulato nel Long Telegram di George Kennan34, diplomatico statunitense che teorizzò la strategia di contenimento verso l’Unione Sovietica staliniana35. Questa strategia fu uno dei pilastri che dovette impostare la presidenza Truman nell’immediato dopoguerra; la Guerra Civile greca con i comunisti sostenuti direttamente ed indirettamente dall’Unione Sovietica e le pressioni subite dalla Turchia per la revisione dei trattati che regolavano gli Stretti36. Un caso storicamente più recente, ma altrettanto significativo di containment è quello impostato dal Segretario di Stato Condoleeza Rice nei confronti della Cina durante il suo mandato sotto la Presidenza Bush jr37.
Il regime change o rollback è principalmente una strategia che ha come obiettivo il rovesciamento di un governo ostile e, tra le citate, è la strategia maggiormente assertiva messa in campo storicamente dagli Stati Uniti. Numerosi sono gli esempi storici tra i quali l’Amministrazione George W. H. Bush verso Panama38, l’Amministrazione Eisenhower nei confronti dei governi guatemalteco e persiano39. I più recenti, che verranno approfonditi in seguito, sono i casi di Afghanistan ed Iraq da parte del Presidente George W. Bush. Rollback e regime change sono essenzialmente strategie dell’annichilazione o strategie dell’esaurimento del nemico, entrambe hanno immediati e decisivi risultati, ma accanto ad essi anche enormi costi potenziali e rischi di fallimento (es. il fallimento della missione della Baia dei Porci sotto la presidenza di J.F. Kennedy).
34 Op. Cit. E. Di Nolfo, Storia delle Relazioni Internazionali II, pp 71
35 H. Kissinger, Ordine Mondiale, Milano, 2014, Mondadori Libri pp 281-282
36 L’Unione Sovietica puntava alla revisione della Convenzione di Montreaux del 1936
37 Nel Marzo 2005, Rice in un discorso tenuto all’Università di Tokyo affermò :” So, as we look to China's life, I really do believe that the Japan relationship, the South Korean relationship, the U.S.-Indian relationship, all are important in creating an environment in which China is more likely to play a positive role than a negative role. These alliances are not against China; they are alliances that are devoted to a stable security and political and economic and, indeed, values-based relationships that put China in the context of those relationships, and a different path to development than if China were simply untethered, simply operating without that strategic context.”
In questo breve passaggio Rice sembrò utilizzare il termine untethered in maniera pienamente consapevole, indicando la volontà degli USA di non lasciare senza “guinzaglio” la Cina.
38 E. Di Nolfo, Storia delle Relazioni Internazionali II, Bari, Ed. Laterza, 2015, pp 602 39 Ibidem, pp 339
23 L’engagement può essere duplice: sia come impegno all’integrazione, ossia una strategia messa in atto per creare interdipendenza economica, liberalizzazione politica e integrazione nelle istituzioni internazionali, sia come negoziazione e raggiungimento di compromessi politici internazionali0. Tali strategie spesso vengono attuate in maniera complementare al fine di spingere un governo avversario ad integrarsi ed eventualmente abbandonare comportamenti assertivi e minacciosi.
Una strategia di accomodation o appeasement implica concessioni unilaterali per saziare o alterare le intenzioni ostili di un potenziale rivale internazionale. Il caso di studio classico è l’appeasement britannico del Primo Ministro Chamberlain nei confronti della Germania nazista che culmina con l’Accordo di Monaco del Settembre 1938.
Una strategia di offshore balancing riguarda la volontà che nessun altro Paese possa dominare teatri geopolitici regionali, ma tale supremazia implica l’equilibrio di potere tra i vari attori regionali e la cessione degli oneri da parte degli Stati Uniti ai propri alleati40. L’offshore balancing è una grand strategy tipicamente realista con obiettivi selettivamente limitati41. Con una strategia di questo tipo, gli Stati Uniti possono calibrare la propria postura strategica in tre principali regioni geopolitiche chiave: Europa, Asia nordorientale e il Golfo. I vantaggi dell’offshore balancing sono impliciti nella riduzione delle aree di intervento militare statunitense ovvero lo spingere o l’imporre ad altri Stati alleati di sopportare tale impegno. Per i sostenitori dell’offshore balancing come i grandi teorici realisti Mearsheimer e S. Walt42, tale dottrina potrebbe addirittura ridurre il rischio di terrorismo poiché tale fenomeno viene ricondotto al risentimento nazionalista dei Paesi occupati dagli Stati Uniti. Un caso storico di offshore balancing riguarda proprio il Golfo Persico dove, dopo il ritiro britannico nel ’68, gli USA scelsero lo Shah dell’Iran e la monarchia Saudita per il mantenimento dell’equilibrio geo strategico dell’area.
Ed infine, una classica strategia geopolitica statunitense che nella storia a più riprese si è fatta strada, è il principio di non intervento. Esso va ben oltre il retrenchment, andando a smantellare l’impegno militare, economico e diplomatico e rifiutando
40 Il concetto di burden sharing verrà approfondito in seguito in quanto uno degli obiettivi primari di
Barack Obama nel quadro delle relazioni transatlantiche
41 S.M. Walt, Offshore balancing: an idea whose time has come, Foreign Policy, novembre 2011,
https://foreignpolicy.com/2011/11/02/offshore-balancing-an-idea-whose-time-has-come/
42 J.J. Mearsheimer, S.M. Walt, The case of offshore balancing, Foreign Affairs, luglio/Agosto 2016,
24 categoricamente l’intervento all’estero sotto qualsiasi forma. Il principio del non intervento è una strategia politica che appartiene ed è appartenuta storicamente alle potenze marittime, Gran Bretagna e Stati Uniti43 in primis.
Quando si considerano le summenzionate coordinate strategiche, è necessario sottolineare che gli Stati Uniti ed i suoi Commander in Chief, non hanno mai adottato una sola di esse, bensì hanno delineato di volta in volta strategie ibride che combinano elementi cardine di molte delle strategie summenzionate. Inoltre come già affermato, è necessario sottolineare l’importanza dei fattori domestici che direttamente o indirettamente influenzano l’azione esterna di un Paese; non ultima la variabile delle scadenze elettorali interne che hanno comportato, anche nella politica estera del Presidente Obama, alcuni cambi di direzione da non sottovalutare44.
1.2 Il background politico di Obama e la campagna elettorale 2007-2008
Alla fine del 2002, negli Stati Uniti il dibattito sull’intervento in Iraq - quella che sarebbe stata denominata la Seconda Guerra del Golfo - si fece sempre più acceso, con una maggioranza dell’opinione pubblica che sosteneva il Presidente Bush nell’obiettivo di regime change iracheno: abbattere il dittatore Saddam Hussein avrebbe impedito all’Iraq di dotarsi di armi non convenzionali, di proseguire nella sistematica violazione dei diritti umani e avrebbe permesso di annientare una potenziale minaccia regionale e globale. Molti esponenti democratici tra cui i futuri Segretari di Stato, Kerry e Clinton, si schierarono a favore dell’intervento45. Nello stesso periodo, a Chicago, un semi sconosciuto senatore dell’Illinois venne invitato ad una manifestazione contro la guerra; nel suo intervento Barack Obama si schierò contro quella che successivamente avrebbe definito una dumb war46, guerra stupida, coniugando abilmente pragmatismo realista con un’ampia retorica dalle sfumature idealiste. Obama in quell’occasione, non si scagliò contro lo strumento bellico di per sé, bensì contro “un’azione sconsiderata” ispirata “non dalla ragione, ma dalla
43 M. Del Pero, Libertà e Impero,2017, Bari, Laterza ed. , pp 250
44 Tali cambi di paradigma vengono sottolineati chiaramente in M. Del Pero “Era Obama”, Feltrinelli,
Milano. Si indicano tre principali fasi della politica estera di Obama: il primo biennio, con una spinta energica nel radicale mutamento dell’assetto internazionale degli Stati Uniti nel mondo, i successivi quattro anni di difficoltà, dovute anche all’assenza del controllo di entrambi i rami del Congresso ed infine l’ultimo biennio, con un rinnovato slancio che portò importanti risultati.
45 La risoluzione che consentì a Bush l’utilizzo dello strumento militare in Iraq passò alla Camera con
296 voti favorevoli tra cui 81 voti dei democratici:
http://www.corriere.it/Primo_Piano/Esteri/2002/10_Ottobre/10/camerausa.shtml
46 J. Fallows, What I am opposed to Is a Dumb War, The Atlantic, Agosto 2013,
https://www.theatlantic.com/international/archive/2013/08/what-i-am-opposed-to-is-a-dumb-war/279228/
25 passione, non dai principi, ma dalla politica”47. Obama nell’occasione, previde che un’invasione senza una chiara razionalità e senza un ampio supporto internazionale avrebbe portato solamente ad infiammare le tensioni mediorientali e ad incoraggiare i peggiori impulsi del mondo arabo.48 Questo intervento, al quale seguì un lungo periodo di silenzio, venne utilizzato ampiamente da Obama durante tutta la campagna per le primarie democratiche contro la sua principale avversaria Hillary Clinton, ed in seguito, contro il candidato repubblicano John McCain.
Obama nel periodo elettorale costruì abilmente una dottrina flessibile – fin troppo per i suoi critici49 - che riusciva a sintetizzare la forte richiesta di discontinuità di politica estera proveniente dall’elettorato con la necessità di proseguire la campagna globale contro Al Qaeda intrapresa dal Presidente Bush. Durante tutta la campagna presidenziale, Obama sottolineò la sua visione scettica riguardo all’establishment di foreign policy degli USA, non solo in contrapposizione alla sua avversaria Clinton, ma in contrapposizione a quello che successivamente chiamerà The Washington playbook50, ovvero l’apparato burocratico e militare di Washington.
Il cuore del suo messaggio politico nell’arco del 2008 fu the change, in particolare proprio sulla politica estera51: la visione di Obama sulla guerra in Iraq era profondamente negativa, l’Iraq rappresentava un fallimento sistemico dell’establishment statunitense, il più grande dalla guerra in Vietnam, il più grave che avesse coinvolto entrambi gli schieramenti politici. Inoltre una caratteristica ben visibile sin dalla campagna elettorale era lo scetticismo verso lo strumento militare. Lo scetticismo nei confronti della reale efficacia dello strumento militare nelle guerre contemporanee, ha per Obama diverse matrici oltre all’Afghanistan e all’Iraq: dalla fine della Guerra Fredda, la guerra è stata rivalutata come mezzo necessario e “normalizzata” nelle relazioni internazionali. Alla guerra “giusta” si è affiancato sovente il concetto di “guerra umanitaria”52, concetto che, secondo l’opinione di Obama, ha acuito l’ostilità verso gli Stati Uniti all’estero. Infine il relativo scetticismo nei confronti del potere militare è frutto di una pragmatica presa di coscienza: i conflitti
47 Op. Cit. M. Del Pero, Era Obama, pp 57
48 Cfr. R. Kaufman, Dangerous Doctrine: How Obama’s Grand Strategy Weakened America, The
University Press of Kentucky, 2016
49L. Gelb. The elusive Obama Doctrine, in The national interest, Sep-Oct 2012, pp 18-28 50https://www.theatlantic.com/magazine/archive/2016/04/the-obama-doctrine/471525/ 51 Dueck C., The Obama Doctrine, New York, Oxford University Press, 2015
52 Le prime guerre definite umanitarie sono stati gli interventi in Bosnia nel 1995 e in Kosovo nel
26 contemporanei sono primariamente asimmetrici, le minacce che dovranno affrontare gli Stati Uniti nell’era post Bush saranno principalmente asimmetriche come il terrorismo internazionale, il cyberterrorismo e la diffusione di armi di distruzione di massa. Tali sfide hanno un’importante implicazione, ovvero che l’investimento in capacità bellica non è direttamente proporzionale ai risultati attesi.
L’ascesa di Obama nei sondaggi fu dovuta senz’altro anche all’implosione del progetto di politica estera repubblicano post 11/9; uno dei simboli del collasso di tale politica è rappresentato dall’endorsement di Colin Powell per Obama nel 200853. Colin Powell, 65° Segretario di Stato nel primo mandato di George W. Bush, è esponente di una corrente di pensiero in politica estera molto vicina alla scuola di Bush padre e di Brent Scowcroft, con l’importante convinzione che gli USA potessero esercitare la propria egemonia ed influenza attraverso la legittimazione delle istituzioni internazionali. Obama nel suo “The Audacity of Hope” pubblicato nel 2006, ammette la sua ammirazione verso l’impostazione internazionale di Bush- Scowcroft, criticando aspramente le politiche di coalition of willing introdotte da Bush figlio.
Obama è figlio dei think tank progressisti nati nei primi anni duemila, in contrasto con le politiche conservatrici e neo conservatrici. Molte delle policies teorizzate in quegli anni sono state fatte proprie dal candidato presidente democratico come un diverso approccio nelle guerre Afghanistan e Iraq, o la necessità di ristabilire un equilibrio tra difesa, strumento militare, diplomazia e sviluppo; la necessità di rivalutare e rivitalizzare le alleanze strategiche degli Stati Uniti; mettere al primo posto le politiche energetiche e le politiche contro il cambiamento climatico; dare una maggiore importanza ai Paesi e mercati asiatici54.
Sin dalla campagna presidenziale, Obama tornò ad utilizzare un discorso politico incentrato su un internazionalismo liberale che Bush aveva abbandonato per gran parte dei suoi due mandati. Obama tornava a riconoscere il fondamentale ruolo delle istituzioni internazionali e una gestione multilaterale delle relazioni internazionali e dei principali dossier di politica estera. La convinta adesione al multilateralismo, presente nei suoi principali discorsi di politica estera, è stata sovente giustificata da un forte eccezionalismo.
53http://edition.cnn.com/2008/POLITICS/10/19/colin.powell/ 54 Op. Cit. D. Chollet, The Long Game, pp 41
27 L’eccezionalismo americano è una componente importante nella storia del pensiero politico statunitense, che trova le sue origini nel pensiero di Alexis de Toqueville e che si è sviluppata durante tutto il XX e XXI secolo. Tale pensiero deriva dalla convinzione che gli Stati Uniti siano qualitativamente diversi da ogni altra Nazione sviluppata. Dall’11 Settembre 2001, l’eccezionalismo si è spesso confrontato con una certa dose di “declinismo”, un termine che indica la consapevolezza che gli USA non siano più in un mondo prettamente unipolare e che anzi, stiano perdendo posizioni rispetto alle potenze emergenti. Al di là della rigorosa definizione, entrambi gli orientamenti hanno sempre convissuto all’interno del pensiero politico statunitense in forma più o meno sfumata. Focalizzando brevemente l’analisi sull’impostazione ideale del Partito Democratico degli ultimi lustri, è Madeleine K. Albright, Segretario di Stato sotto la Presidenza Clinton dal 1997 al 2001, che ha coniato il termine di indispensable nation55. Questa asserzione, come verrà successivamente sottolineato, è stata fatta propria da gran parte dell’establishment del Partito Democratico e anche da parte di importanti esponenti del GOP come Jeb Bush o Marco Rubio56. I liberal vedono gli USA come nazione indispensabile, ovvero considerano la leadership USA come vitale per risolvere i problemi internazionali; allo stesso tempo è convinzione diffusa che il potere sia generato dalla legittimazione e dal mantenimento di trattati, alleanze e accordi che sono ingredienti sostanziali dell’influenza USA nel mondo.
Il candidato presidente Obama si presentò ai cittadini europei in un memorabile discorso di fronte alla Porta di Brandeburgo nel Luglio 2008; in quell’occasione prese ripetutamente le distanze da George W. Bush e dalle tensioni transatlantiche frutto della guerra in Iraq. In quel discorso, di fronte a oltre 200 mila tedeschi, i temi trattati furono quelli su cui Obama avrebbe basato la propria impostazione di politica estera appena eletto: la costruzione di nuovi ponti, il rafforzamento della partnership transatlantica, la necessità degli Stati Uniti di avere un’Europa forte e coesa. In quell’occasione, la retorica obamiana spinse molto sul concetto di multilateralismo, senza però scendere nel dettaglio delle sfide che avrebbero atteso gli USA e l’Europa, ad eccezione di un appello al surge in Afghanistan, con la richiesta di nuove truppe e un accenno alla minaccia nucleare iraniana. Quel discorso accese le speranze di molte
55 Durante un’intervista a „Today Show“ nel febbraio 1998, Albright ebbe ad affermare: If we have to use force, it is because we are America; we are the indispensable nation. We stand tall and we see further than other countries into the future, and we see the danger here to all of us
28 Cancellerie europee su un cambio di passo nella strategia statunitense; come molti commentatori affermarono a caldo, se fosse stato per gli Europei, già nel luglio 2008, Obama sarebbe stato il “loro” Presidente degli USA57.
1.3 I caratteri della Dottrina Obama
A questo punto è necessario soffermarsi su quali siano i caratteri principali della Grand Strategy portata alla Casa Bianca dal 44° Presidente degli Stati Uniti d’America eletto il 4 Novembre 2008. Tali caratteristiche verranno verificate ed eventualmente confutate dal secondo capitolo che calerà i principi sul terreno delle relazioni internazionali degli otto anni di presidenza Obama. Questi principali caratteri sono frutto di una rielaborazione e sistematizzazione dei “dogmi” selezionati e commentati da Robert G. Kaufman, professore di Public Policy, nella sua pubblicazione critica sulla politica estera obamiana “Dangerous Doctrine, how Obama’s Grand Strategy weakened USA”, per University Press of Kentucky.
1) Proteggere gli Stati Uniti ed il mondo dall’arroganza del potere USA.
Questo è un tema ricorrente nella retorica internazionale del Presidente Obama. Gli errori del passato ed un’errata interpretazione dell’eccezionalismo americano sono due tematiche che hanno contribuito alla conquista della Casa Bianca da parte dei Democratici nel 2008 e che hanno contraddistinto la narrazione di Obama, in particolare nei confronti del mondo musulmano e, più in generale, nei suoi rapporti con le religioni. Una delle componenti del nuovo approccio USA nel mondo riguarda infatti la ristrutturazione dei rapporti con il Mondo Musulmano. Di particolare enfasi è infatti il discorso pronunciato dal Presidente Obama nel Giugno 2009 al Cairo, “The New Beginning”; in esso il Presidente affermò la necessità di un nuovo inizio tra gli Stati Uniti e i Musulmani nel mondo, basato su interessi comuni e rispetto comune. Interessante è il termine utilizzato nell’occasione “Muslims around the world”; in esso molti osservatori hanno sottolineato un cambiamento importante: Obama e il suo team del Dipartimento di Stato rifiutarono l’idea di un Islam monolitico, in continuo confronto con un altrettanto monolitico “Occidente”. In sostanza Obama rifiutava l’idea dello scontro tra civiltà di “huntingtoniana” memoria.58
57https://www.theguardian.com/world/2008/jul/24/uselections2008.barackobama oppure
http://www.lefigaro.fr/elections-americaines-2008/2008/09/09/01017-20080909ARTFIG00603--les-francais-votent-barack-obama-.php
58 Erik Owens ,Searching for an Obama Doctrine: Christian Realism and the Idealist/Realist Tension in Obama's Foreign Policy ,Journal of the Society of Christian Ethics,Vol. 32, No. 2 (Fall / Winter 2012),