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Al termine del presente lavoro, appare subito chiaro come il tema della sicurezza e delle sue dimensioni costituzionali sia, senza dubbio, una delle questioni più rilevanti e problematiche che hanno accompagnato fin dall'inizio la storia delle relazioni sociali e, più recentemente, il costituzionalismo moderno.

La profonda incertezza che contraddistingue questo argomento dipende fondamentalmente dal fatto che, se da un lato la sicurezza personale rappresenta da sempre uno dei principali compiti richiesti al potere statale, dall'altro la forte spinta che questa può avere sulla comunità nella direzione di accettare forti limitazioni delle proprie libertà personali, può costituire una facile tentazione nell'esasperare la problematica nell'animo dell'opinione pubblica al fine di instaurare legislazioni maggiormente repressive.

Ovvio che il contesto storico, giuridico e sociale caratterizzato dalla sfida al terrorismo internazionale ha in qualche modo costretto le istituzioni a rafforzare le misure di prevenzione e ad organizzare le strutture di intelligence in maniera più organica possibile affinché si potesse contrastare in maniera efficiente la matrice islamica; come è altrettanto ovvio che la minaccia che pervade i nostri tempi stia causando un serio pericolo per la tutela dei diritti costituzionali. Tuttavia, né il terrorismo, né la sua dimensione "internazionale", né la politica di restrizione dei diritti di libertà in nome della difesa della sicurezza dello Stato sono fenomeni nuovi, tutt'altro.

La stessa storia costituzionale ci ha dimostrato con tutta evidenza che la rottura della tutela costituzionale dei diritti e delle libertà in nome della difesa della sicurezza sia una costante ovunque e in ogni tempo. Così, non soltanto in Italia, il concetto di crisi costituzionale è costantemente attuale, caratterizzato dalle continue minacce all'ordine

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costituito alle quali lo Stato reagisce sempre proteggendo la sicurezza collettiva anche a costo di interrompere le garanzie costituzionali. Tutto questo è avvenuto con maggior rigore dopo il famigerato 11 settembre 2001; a partire dagli Stati Uniti, al Canada, al Regno Unito, alla Francia, alla Germania, -come ho avuto modo di chiarire nel corso di questa trattazione- tutti si sono dotati di una legislazione repressiva con una forte restrizione/sospensione dei diritti degli stranieri, accompagnata da deroghe alle regole processuali che hanno ridotto la pubblicità dei processi e introdotto eccezioni alla giurisdizione ordinaria.

Allo stesso modo, l'intelligence ha operato con interventi illegali che di fatto lasciano la mano pressoché libera ad attività di polizia non rispettose né della sovranità degli stati né dei limiti imposti dagli ordinamenti. Così, di fatto o di diritto, il livello di tutela effettiva dei diritti e delle libertà costituzionali si è abbassato più o meno sensibilmente man mano che gli stati hanno avvertito l'urgenza di trovare strumenti sempre più adeguati al pericolo.

Di sicuro l'attività dei servizi di informazione ha ricoperto (e ricopre) forse lo strumento più importante di contrasto al suddetto pericolo terroristico, anche se non sarebbe corretto porre il fondamento dell'attività di intelligence al "principio di necessità", dato che ci troviamo di fronte a funzionari dello Stato che operano legalmente e/o illegalmente anche in condizioni di normalità, vale a dire in assenza dell'attualità del pericolo.

Ed in effetti tale attività è esercitata anche in assenza di una concreta ed attuale minaccia per la sicurezza, assumendo sempre di più il connotato di un’attività “di controllo”, anche alla luce del peso sempre maggiore che (come si è avuto modo di precisare all'interno del primo capitolo della presente trattazione) stanno assumendo le informazioni prese dalle c.d. “fonti aperte”. Gli sviluppi che ci sono stati intorno alla vicenda Snowden sono sintomatici dell’avvenuto mutamento della

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concezione dell’istituto, se si considera che una siffatta metamorfosi non può che coinvolgere tutti gli aspetti del sistema, da quelli leciti a quelli illeciti.

Tutto ciò nell’ottica di una concezione dell’istituto che va assumendo sempre più i connotati di una sorta di “controllo sociale” volto alla prevenzione della minaccia prima che diventi concreta ed attuale, una forma quindi di “prevenzione della prevenzione”.

Di conseguenza, la domanda da porsi è sempre la stessa: quanto si è pronti a rinunciare in termini di libertà per acquisirne in termini di sicurezza?

Il bisogno di sicurezza certamente si impone nella società odierna, ma si può discutere se tale accento sulla sicurezza possa giustificare controlli sulle comunicazioni, indagini sull’origine e la destinazione di ricchezze sospette, restrizioni dei movimenti delle persone, perquisizioni di abitazioni, impiego della forza pubblica, “fermo” delle persone sospette, isolamento carcerario per certi periodi di tempo, e altre pur pesanti misure di questo genere.

Allo stesso tempo è stato però osservato che non si può pretendere di introdurre la trasparenza nella vita dei Servizi di informazione, che operano in questo senso, o circoscriverne i metodi d'azione degli stessi entro limiti legali, perché vorrebbe dire farne sostanzialmente un doppione un po’ più specifico della polizia.

Tuttavia è opera propria del giurista far rientrare l'attività dei Servizi all'interno di una classificazione giuridica dell'istituto che, seppur segreto e a volte illegale, non è accettabile che possa godere di un raggio d'azione sconfinante nell’arbitrio.

Così, la legge n. 801 del 1977 e, successivamente, la legge n.124 del 2007 (con successive modifiche) hanno cercato di trovare quel giusto compromesso tra gli interessi in gioco, pur con qualche difficoltà interpretativa. Il fatto, del resto, che una legge in tema di sicurezza

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nazionale sia effettivamente in grado di tutelare la salus rei publicae non è scontato.

In particolare, la legge (esaminata in maniera quanto più esaustiva possibile nel corso del secondo capitolo del presente lavoro) ha trovato dei riscontri positivi da un punto di vista organizzativo e nella fase di attuazione, ma allo stesso modo la stessa è ricca di profili problematici di natura costituzionale e politico-istituzionale.

Il riferimento, del tutto ovvio, va fatto anzitutto al ruolo di dominus del sistema rivestito dal Presidente del Consiglio; competenza forse un po’ forzatamente ricondotta alla nozione costituzionalmente garantita dall'art. 95 Cost. di "indirizzo politico".

Così bisognerebbe fare un appunto anche alla funzione ex post degli organismi di controllo diretti a contenere e bilanciare il potere presidenziale da parte del COPASIR così come della Corte Costituzionale. Quest'ultimi, seppur assistiti da spazi d'azione molto più ampi rispetto al passato -frutto delle modifiche apportate alla legge nel 2012 e nel 2015-, si rivelano strutturalmente incapaci di operare con efficacia in questo campo. E questa, probabilmente, è la più grande lacuna che il legislatore sarà costretto a colmare: i due organi intervengono a danno già avvenuto, con conseguente, irreparabile, lesione degli interessi di rilevanza costituzionale chiamati in causa nel corso della procedura.

Tuttavia, le risposte di rango giuridico date dalla legge all'attività dei Servizi di intelligence sono da considerarsi nel complesso soddisfacenti se si considera che, per la materia in esame, la completa effettività sarebbe un'utopia.

Un punto però appare chiaro: l'esistenza dello Stato quale entità politica non richiede solamente azioni degli apparati di intelligence a tutela del territorio o della sovranità, ma pretende soprattutto misure volte alla salvaguardia dei suoi valori costituzionali.

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Detto questo, è necessario non soltanto garantire la difesa dei confini o impedire attacchi al potere costituito, ma scongiurare il pericolo che la salus rei pubblicae diventi territorio di abusi tali da poter inficiare il benessere dello "Stato-comunità" nel pieno godimento dei propri diritti costituzionalmente garantiti.

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