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2. La globalizzazione culturale e il rapporto tra globale e

2.3 Il mondo dei consumi.

2.3.3 Consumo attivo, consumo passivo.

Si pone un’altra questione per quanto riguarda i consumi rispetto alla quale possiamo individuare due tendenze prevalenti: il consumatore è soggetto attivo oppure passivo rispetto al consumo? È veramente libero di scegliere o la sua scelta è in realtà solo apparente?

Per quanto attiene alle teorie dell’omogeneizzazione queste, appartenenti generalmente all’approccio neomarxista, hanno una visione del consumatore come soggetto passivo che subisce le decisioni e il potere del sistema produttivo.

Se pensiamo alla teoria della mcdonaldizzazione di Ritzer e alle tesi di Barber, in precedenza citate, vediamo che la globalizzazione è interpretata come un movimento che si impone agli individui proponendo il modello di mercato dominante occidentale.

Sostiene Paltrinieri trattando di questo approccio “In quanto alibi democratico della società capitalistica il consumo, per definizione, riproduce il sistema incrementando forme di differenziazione che sono insite nel sistema. […] [Il consumo è] non solo lo strumento delle classi sociali, ma soprattutto del sistema produttivo per la costante riproduzione dello stesso e, al contempo, riproduzione del potere politicamente inteso che opera nel più ampio sistema capitalistico” [2004: 56]. Dunque, in base al principio della diversità omogenea [Paltrinieri 2004], il consumo, universalizzando le pratiche dei consumatori, rafforza le diversità esistenti, siano esse culturali, di classe, ideologiche o religiose. La cultura del consumo inoltre tende a colonizzare ambiti che in passato non avevano a che fare con il mercato, come l’educazione, l’arte, lo sport, la salute. La spinta ad omogeneizzare tutto porta a una progressiva perdita del locale e a una predisposizione all’assoggettamento delle culture “colonizzate” a quella principale dominante.

Secondo questa visione, insomma, il consumo è strumento nelle mani della globalizzazione economica per la promozione dell’omogeneizzazione.

Le teorie della eterogeneizzazione tendono invece a focalizzarsi sulla capacità del consumatore di prendere distanza da ciò che il mercato offre o vuole imporre e sulla possibilità degli individui di interpretare i consumi in base alla propria personalità e alla cultura di appartenenza. Si passa in questo caso “da un’interpretazione materialistica del consumo, ancorata a una funzione di riproduzione delle logiche della produzione, a una dimensione culturale, cogliendo nelle pratiche di consumo un ambito nel quale gli esseri umani costruiscono significati mediante prassi di rappresentazione simbolica” [Paltrinieri 2004: 85].

Qui per cultura si intendono, come sostiene Tomlinson: “i modi in cui le persone, individualmente e collettivamente, attribuiscono senso alla loro vita comunicando tra loro [2001: 31].

Teorie dei consumi come quella di Egeria Di Nallo vedono il consumatore come individuo attivo che “partecipa in qualità di fruitore del prodotto, assieme agli altri consumatori e agli attori coinvolti, al dispiegarsi della cultura possibile del meeting point” [Paltrinieri 2004: 89].

Il concetto di meeting point è stato individuato da Di Nallo per dare conto della complessità della società attuale, complessità che si riflette anche sui consumi. “La nostra realtà dei consumi si connota […] per il passaggio dallo studio degli stili di vita, categoria ormai incapace di dare conto della complessità del fenomeno indagato, all’analisi dei meeting point, i quali sono stili di consumo, aree culturali di consumo nel quale si incontrano comunicazioni, servizi, prodotti e nei quali i consumatori entrano ed escono. […] Gli stili di consumo coesistono pluralisticamente l’uno accanto all’altro senza alcun tipo di normazione che includa o escluda eventuali contraddizioni” [Di Nallo 2004: 76]. Secondo l’autrice: “se assumiamo che esistono tre livelli in cui si articola

la realtà degli uomini, quello dei sistemi sociali, quello delle relazioni, quello delle percezioni, interagenti l’un l’altro secondo una dinamica di mutua selezione, è in questo spazio interattivo che si costituiscono i meeting point. Ed è in questo spazio che si devono cercare le nuove differenze secondo cui si caratterizzano i consumi oggi, differenze che non si basano su un unico criterio, ma sono mobili e mutevoli, continuamente in movimento e disponibili ad un grande ventaglio di possibilità” [Di Nallo 1998: 183].

In quest’ottica il consumo è liberato dai rapporti relativi alla produzione e si caratterizza per essere un linguaggio “con funzione di mediazione simbolica, in grado di oggettivare categorie, significati e valori necessari per i processi di comunicazione” [Paltrinieri 2004: 91].

“Il consumo, che agli inizi della società di massa era diffuso come un linguaggio di rapporti facenti capo alla realtà produttiva, (in società in cui viene meno la centralità produttiva) ripropone come dominante la propria logica interna. Si tratta di una logica che non è individualista, rapace ed esclusiva, ma, essendo propria di un linguaggio, è necessariamente interattiva” [Di Nallo 1997: 46].

Il consumo in questa prospettiva si caratterizza come centrale nei processi di creazione del senso [Paltrinieri 2004].

Abbiamo poi altre direzioni interpretative.

Appadurai, per esempio, pur essendo convinto che i processi di globalizzazione vadano nella direzione della differenziazione culturale, vede nel rapporto tra produzione e consumo l’emergere di due tipi di feticismo che avrebbero sostituito il feticismo di cui parlava Marx. “Si può cominciare con la famosa (e spesso insidiata) visione di Marx del feticismo della merce, e suggerire che questo feticismo sia stato sostituito nel mondo in genere (vedendo ora il mondo come un unico grande sistema interattivo composto di molti sottosistemi complessi) da due «discendenti» che si sostengono reciprocamente, il primo dei

quali chiamerei feticismo di produzione e il secondo feticismo del consumatore” [Appadurai 1996:37].

Per feticismo di produzione l’autore intende l’illusione creata dalla produzione transnazionale che maschera il capitale traslocale, i flussi di guadagno traslocali e, spesso, i lavoratori lontani, nello spettacolo della produttività nazionale. La produzione maschera le relazioni di produzione che sono divenute transnazionali e il luogo è divenuto un feticcio volto a dissimulare le forze globalmente disperse che guidano i processi di produzione.

Per quanto riguarda il feticismo del consumatore, quest’ultimo: “è stato trasformato attraverso i flussi della merce […] in un segno: sia nel senso di Baudrillard di un simulacro che solo in modo asintomatico si avvicina alla forma di un agente sociale reale; sia nel senso di una maschera del reale punto di partenza dell’organizzazione, che non è il consumatore, ma il produttore e le tante forze che costituiscono la produzione.[…] Il consumatore è conformemente aiutato a credere che sia un attore, laddove nel migliore dei casi è solo colui che sceglie” [Appadurai 1996: 37].

Dunque si nega la possibilità per il consumatore di essere un vero attore e l’opportunità di scelta è dunque in realtà limitata perché comunque situata nei limiti che ha posto la forza produttiva.

Tuttavia, se il consumatore per Appadurai non è libero, non è neppure completamente agito ed è anche capace di azione: “non è che i consumatori siano attori liberi, che vivono felicemente in un mondo fatto di centri commerciali sicuri, pasti gratuiti e riparazioni veloci. [...] Il consumo nel mondo contemporaneo è spesso una forma di asservimento, parte del processo capitalista di civilizzazione. Però dove c’è consumo c’è piacere, e dove c’è piacere c’è azione. La libertà d’altra parte, è un bene assai più sfuggente” [ 2001: 21, 22].

Nella teoria di Bauman il consumatore è visto come soggetto passivo, costruito dalla società stessa perché consumi: “la società attuale forma i propri membri al fine primario che essi svolgano il ruolo di consumatori. Ai propri membri la nostra società impone una norma: saper e voler consumare” [1999: 90].

Lo shopping è visto dall’autore come rito di esorcismo per cercare di superare il senso di perenne instabilità e incertezza che caratterizza l’individuo contemporaneo. “Le comuni interpretazioni dello shopping compulsivo come manifestazione della rivoluzione postmoderna dei valori, la tendenza a rappresentare la dipendenza da shopping come una palese manifestazione di assopiti istinti materialistici ed edonistici, o come un prodotto della «cospirazione commerciale», vale a dire un incitamento artificiale (e alimentato ad arte) a perseguire il piacere quale scopo di vita prioritario, catturano al massimo solo una parte della verità. Un’altra parte, nonché il necessario completamento a tutte queste spiegazioni, è che l’obbligo- trasformato-in-inclinazione per lo shopping è un’ardua lotta contro un’acuta, snervante incertezza e contro lo sgradevole paralizzante sentimento di insicurezza” [Bauman 2002: 86]. Nei consumi, secondo Bauman, l’individuo va alla ricerca di un’identità che è effimera e dura fino a quando egli non decide di “indossarne” una nuova, così può scegliere tra le diverse identità che gli offre il mercato. L’articolo prodotto in massa diviene lo strumento attraverso cui l’individuo si può differenziare. Paradossalmente l’identità «unica» e «individuale» può essere acquisita solo tramite il prodotto che tutti comprano e può essere mantenuta solo per mezzo dello shopping [Bauman 2002].

Il consumatore è così libero di scegliere tra le varie offerte, ma l’autore esprime qualche dubbio sul fatto che tale libertà sia davvero degna di questo nome: “in che misura la libertà radicata nella scelta dei consumatori -e in particolare la loro libertà di autoidentificazione tramite l’uso di articoli pubblicizzati e prodotti

di massa- sia reale o presunta è una questione notoriamente controversa. Tale libertà non può fare a meno di gadget e prodotti forniti dal mercato. Dato ciò, tuttavia, quanto ampio è l’orizzonte di fantasia e sperimentazione dei felici consumatori?” [Bauman 2002: 90].