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4.3 Il Terzo Settore in Italia

4.3.2 Cooperazione sociale e organizzazioni di volontariato in Italia

4.3.2.1 Cooperazione sociale

La cooperazione sociale è in tutta l’Italia un fenomeno di recente sviluppo la cui diffusione può intravedersi solo a partire dagli anni ’80. In accordo con i dati ISTAT (2001; 2006), infatti, oltre il 90% della cooperazione sociale italiana è nato dopo il 1981. Il meridione come già osservato per il più vasto universo del nonprofit è caratterizzato da una inferiore anzianità rispetto alla media nazionale (tabella 4.13) bilanciata, tuttavia, da trend più intensi di espansione del fenomeno, in modo particolare per la Calabria (CGM, 2002).

Tabella 4.13: Cooperative sociali per periodo di costituzione e area geografica. (Fonte: ISTAT, 2006)

Sebbene la distribuzione sul territorio della cooperazione sociale veda una pre- valenza del Mezzogiorno con il 31,55% delle cooperative sociali residenti nel suo ter- ritorio, la densità del fenomeno, che pondera la numerosità del fenomeno con la po- polazione relativa al territorio, evidenzia una minore consistenza della cooperazione con valori ancora più bassi per la regione Calabria.

Il rapporto tra le diverse tipologie di cooperazione vede per il meridione, rispetto i valori caratterizzanti le altre aree geografiche, una maggiore presenza di cooperative di tipo “A” e un numero inferiore di cooperative per l’integrazione al lavoro (tipo “B”). Sotto questo profilo, invece, la Calabria mostra valori più omogenei a quelli mediamente individuati nel resto del paese (tabella 4.14).

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Tabella 4.14: Cooperative sociali per tipologia e area geografica. Dati al 2001. (Fonte: ISTAT, 2006)

Da un recente studio sul fenomeno dell’imprenditoria sociale nel Mezzogiorno (Battistella, 2001) emerge come la distinzione tra tipologia A e tipologia B nel contesto meridionale delinei due profili esperienziali fortemente differenti. Secondo questo studio, infatti, è possibile rinvenire due poli distinti del movimento coope- rativistico. Nel primo, attinente all’esperienza cooperativa di tipo A, è facilmente individuabile l’infiltrazione di uno spirito mutualistico dalla forma più tradizionale di cooperazione. Attraverso la combinazione di più indicatori e dati tra cui quelli riguardanti i processi di formazione e le caratteristiche della base sociale, l’ipote- si di una cooperazione sviluppatasi sull’intenzione del self-employment sfruttando alcuni vantaggi connessi alla specifica forma giuridica della cooperazione sociale tro- va le basi per una sua concretezza. Nel secondo, riguardante invece l’esperienza della cooperazione sociale di integrazione al lavoro, i dati delineano pur nella pre- senza di diversi aspetti problematici una maggiore spinta verso istanze solidaristiche (Barbetta, 2001).

I dati sull’adesione ad organizzazioni di secondo livello (fondamentalmente con- sorzi e centrali cooperative) (tabella 4.15) ci palesano la minore predisposizione della cooperazione sociale meridionale a relazionarsi con realtà rappresentative. Quasi una cooperativa su due non aderisce a nessuna centrale cooperativa e ben 7 su 10 non aderiscono a nessun consorzio; minore è anche la presenza relativa di consorzi sociali locali (tabella 4.14) a testimoniare ulteriormente un più debole interesse a questo tipo di relazioni.

La difficoltà del Terzo Settore italiano nel creare reti sinergiche di relazioni tra- sversali con altre realtà del Settore costituisce un aspetto caratteristico del contesto italiano, un aspetto legato alla mancanza di una identità che consente alle diverse organizzazioni solidaristiche di riconoscersi come portatrici di finalità convergenti ed interessi comuni (Ambrosini, 1994). La cooperazione non sfugge a questa pro- blematica, e come denunciato da Borzaga (1990), vi è tra le cooperative uno scarso

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Tabella 4.15: Cooperative sociali per adesione ad organizzazioni di secondo livello. Dati al 2001. (Fonte: ISTAT, 2006)

interesse, se non contrarietà, ad ogni forma di collegamento e collaborazione: ca- ratteristica che è comune anche tra le cooperative sociali del Mezzogiorno (Fareri, 2001).

La dimensione delle cooperative calabresi, per quanto comprensibile dai dati nella tabella sottostante e in particolare dal numero dei soci, è di molto inferiore alla media nazionale. In media sono 14, infatti, i soci presenti in ogni cooperativa calabrese contro i 28 presenti nelle cooperative italiane —media compresa tra i valori estremi del Nord e del Sud rispettivamente con 41(,7) e 16(,5) soci per cooperativa (tabella 4.16). Si tratta quindi cooperative molto più piccole, dove minore non è solo la base sociale ma anche l’intero comparto del personale (ISTAT, 2006). Dalla dimensione contenuta delle organizzazioni ne deriva una incapacità a servire ampi bacini di utenza. È infatti soprattutto l’area comunale, o al più provinciale, ad essere il campo d’azione delle cooperative meridionali (Barbetta, 2001).

Tabella 4.16: Soci e volontari nella cooperazione sociale. (Fonte: CGM, 2002)

Il numero di volontari impiegati nelle cooperative si attesta per tutta la nazione su valori estremamente bassi. Quest’ultimo dato non è particolarmente sorpren- dente vista l’attribuzione alla cooperazione del titolo di principale esponente del cosiddetto Terzo Settore “forte”. Le motivazioni per cui la cooperazione sociale dif- ficilmente presenta volontari al suo interno potrebbero essere riconducibili a diverse questioni, prima tra tutte probabilmente la rappresentazione del volontariato come personale privo delle competenze necessarie, fautore di frammentazioni interne alle organizzazioni e pertanto poco desiderabile all’interno delle stesse. All’interno della

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cooperazione di integrazione al lavoro, inoltre, la presenza di volontari a “sostituzio- ne” di quanto potrebbe essere svolto da dipendenti rischierebbe di andare contro la logica promotrice della stessa organizzazione. Fatte queste premesse, la eterogenea presenza del volontariato nella cooperazione sociale sul territorio nazionale pone dei dubbi sulle motivazioni appena adottate. Abbiamo da una parte, infatti, coopera- tive sociali nel Nord capaci di attrarre e promuovere il volontariato al loro interno arrivando a contenere 4 volontari per ente, dall’altra le cooperative del Sud mostrano una scarsa valorizzazione di questa componente tanto da superare a fatica il singolo volontario per organizzazione. Cosa rende le cooperative meridionali “diverse” ri- spetto a quelle del resto d’Italia? La debolezza dell’impegno volontario costituisce una costante del Sud trasversale a tutte le realtà di nonprofit. Questa debolezza è stata imputata principalmente agli elevati tassi di disoccupazione che affliggono questa area geografica. Si può aggiungere, inoltre, l’osservazione precedentemente formulata riguardante nello specifico la cooperazione sociale: il suo essere rivolta al self-employment.

Figura 4.13: Cooperative sociali per classe di valori della produzione (migliaia di euro) e regione. Dati al 2001. (Fonte: ISTAT, 2006)

La eterogenea dimensione organizzativa si riflette nell’entità del valore di produ- zione delle cooperative (figura 4.13)14. Dal grafico si evince chiaramente, infatti, la prevalenza nel meridione di cooperative sociali il cui valore di produzione è minore di 100 mila euro annui mentre notevolmente minore è la presenza di grandi coo- perative. Sempre rimanendo in tema di risorse finanziarie, è interessante guardare al peso delle entrate proveniente da fonte pubblica (tabella 4.17). La cooperazione si sviluppa e sopravvive in gran parte grazie alla vendita delle proprie prestazioni all’attore pubblico. Poco meno del 70% dei ricavi per le vendite è costituito da de-

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naro pubblico. Parimenti sono circa 63 cooperative su 100 a presentare nel proprio bilancio entrate prevalentemente di natura pubblica. Il meridione si contraddistin- gue per l’accentuarsi di queste caratteristiche, con quasi l’80% di entrate provenienti dal pubblico e quasi 70 cooperative su 100 ad avere nel proprio bilancio entrate da fonte pubblica prevalenti. Nonostante la vendita dei servizi a privati venga ad essere praticata, molto spesso si tratta di quote integrative in cui si verifica la partecipa- zione di un terzo pagante: l’attore pubblico. Questo è particolarmente vero per le cooperative di servizi sociali la cui utenza non sempre è nelle condizioni di pagare interamente i costi di produzione e per le quali il rapporto di convenzione con l’at- tore pubblico costituisce una condizione vitale per la sopravvivenza. Diversamente, invece, le cooperative di integrazione al lavoro tendono per natura a vendere i propri servizi direttamente sul mercato (Barbetta, 2001; Rei, 1989).

Tabella 4.17: Distribuzione ricavi per fonte di entrata e cooperative sociali per fonte prevalente di finanziamento. Dati al 2001. (Fonte: ISTAT, 2006)

Infine, un ultimo sguardo ai settori di attività prevalente delle cooperative di servizio (tabella 4.18). Le cooperative sociali di tipo A forniscono servizi prevalente- mente nel campo dell’istruzione e dell’assistenza sociale, in minore misura nel campo della sanità. Si presenta un quadro omogeneo in relazione ai campi prevalenti visti globalmente per il settore nonprofit, un quadro che rimane nella sostanza immutato anche per il Mezzogiorno e per la Calabria. Cambiano ad ogni modo le proporzioni nella distribuzione delle cooperative nei settori individuati. L’assistenza sociale è particolarmente diffusa tra le cooperative del Sud Italia per quanto, nella regione calabrese, il settore che presenta una diffusione singolare è la sanità.

Scendendo nel dettaglio delle tipologie di utenti serviti (tabella 4.19) il quadro è quello di una cooperazione estremamente specializzata su un ristretto ventaglio di utenza, ed in particolar modo con quella tipologia di persone e soggetti svantag- giati a cui, tradizionalmente, il Terzo Settore ha rivolto i propri interventi: minori, anziani, persone con handicap fisici o mentali. Le nuove emergenze sociali riman-

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Tabella 4.18: Cooperative sociale A per settore di attività prevalente e area geografica. Dati in percentuale al 2001. (Fonte: ISTAT, 2006)

gono fondamentalmente escluse così come i servizi forniti nello specifico tendono a privilegiare quelle forme di intervento a bassa specializzazione (ISTAT, 2006). La cooperazione sociale risulta in qualche modo incapace di percepire o di dare risposta alle nuove emergenze e di intervenire secondo percorsi innovativi sui vecchi disagi sociali.

Tabella 4.19: Utenti delle cooperative di tipo A per tipologia. Dati al 2001. (Fonte: ISTAT, 2006)

Il perché di questo “assenteismo” potrebbe essere imputabile alla forte dipenden- za dai finanziamenti provenienti dagli enti pubblici i quali potrebbero non essere disponibili ad intervenire su troppe fasce di disagio sociale laddove le risorse in loro possesso tendono sempre di più ad assottigliarsi. Lo slancio innovativo delle coo- perative sarebbe secondo questa linea interpretativa, quindi, limitato dai vincoli di bilancio organizzativi e del principale finanziatore.

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