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3.2 Storia del Terzo Settore in Italia

3.3.1 Forme giuridiche

Come si è appena detto, la regolamentazione del Terzo Settore è affidata ad un corpus legislativo frammentario, incoerente ed incapace pertanto di regolare in mo- do univoco ed ordinato i caratteri, i diritti e i doveri caratterizzanti il settore. La legislazione italiana sul settore è infatti il risultato dell’avvicendamento disordinato e discontinuo di testi normativi con il risultato che ancora oggi manca una rego- lamentazione sistematica10. Il codice civile del 1942 costituisce la principale fonte normativa per la regolamentazione del settore, cui poi si aggiungono leggi speciali per regolare alcune categorie particolari di enti (e.g. Lg. 266/1991 per le organiz- zazioni di volontariato; Lg. 381/1991 per la cooperazione sociale; Lg. 383/200 sulle associazioni di promozione sociale), o per regolare gli aspetti fiscali di particolari categorie di organizzazioni (e.g. D.Lgs. 460/1997 sulle ONLUS), o infine leggi di riforma del sistema di welfare che incidono indirettamente sul Terzo Settore (è il caso della Lg. 328/2000). Il risultato è un groviglio di leggi che si sovrappongono l’un l’altre.

Il codice civile è la fonte primaria di regolamentazione del Settore. Nel libro I il codice distingue le principali forme giuridiche del Terzo Settore: associazioni (rico- nosciute e non), comitati e fondazioni. Queste costituiscono le forme organizzative senza scopo di lucro. Un discorso a parte, vedremo, costituisce la forma della società cooperativa disciplinata invece nel libro V del codice destinato a regolare le forme organizzative a scopo di lucro. Quello che incuriosisce immediatamente guardando quei pochi articoli del codice per noi di interesse —i.e. dal 12 al 42—, è che in realtà il codice non si preoccupa di definire esattamente cosa sia una associazione, una fondazione o un comitato, dando quindi per scontata la loro definizione. È opinione diffusa intendere con il termine associazione una organizzazione costituita da un gruppo di persone al fine di perseguire una finalità comune, definizione che consente una distinzione dalle imprese a fini di lucro per il semplice fatto che il fine associativo non ha natura economica o commerciale ma piuttosto ideale.

Capitolo3. Storia e normativa del Terzo Settore

L’associazione può avere o non avere personalità giuridica. Nel primo caso l’as- sociazione si dice riconosciuta e, pertanto, l’associazione stessa diventa responsabile attraverso il proprio patrimonio (fondo comune) degli obblighi sociali assunti. In caso contrario spetta ai rappresentanti dell’associazione rispondere personalmente e solidarmente dei vari obblighi assunti dalla associazione sia attraverso il fondo comune che loro proprio. Il riconoscimento, acquisito per atto del Presidente della Repubblica, o in caso di sfera d’azione più limitata, dal presidente della regione o dal prefetto si caratterizza per essere un atto “concessorio” ovvero discrezionale da parte dell’autorità la quale ha potestà, secondo valutazioni d’opportunità, di rifiu- tare il riconoscimento. Le associazioni riconosciute, al pari di qualsiasi altro ente con personalità giuridica privata, sono tenute a registrarsi presso un apposito regi- stro tenuto presso le prefetture, pena il mantenimento da parte degli amministratori della responsabilità personale e solidale degli obblighi assunti dall’associazione. La procedura per l’acquisizione del riconoscimento, benché semplificata (effetto delle riforme avviate dalla legge Bassanini sulla semplificazione amministrativa), rima- nendo concessoria mantiene quella diffidenza di fondo attribuita da alcuni critici all’ordinamento civilistico italiano nei confronti delle organizzazioni della società civile (Barbetta e Maggio, 2002).

Per quanto concerne il comitato, questo è definibile come una forma associativa temporanea in cui le finalità sono raggiungibili in un tempo limitato. Gli organizza- tori del comitato e coloro che gestiscono i fondi sono responsabili personalmente e solidalmente della conservazione dei fondi e della loro destinazione allo scopo prefisso (art. 40 Cod. Civ.).

La fondazione, a differenza della associazione, è tenuta ad acquisire la personali- tà giuridica. Altra differenza importante è il grado di democraticità implicitamente limitato nel caso di quest’ultima, sia per il semplice fatto che la fondazione esiste per la volontà ristretta dei fondatori, sia perché mentre nel caso delle associazioni l’at- tività di controllo è affidata agli amministratori e all’assemblea degli associati, nel caso delle fondazioni, mancando l’assemblea, il controllo spetta ai soli amministra- tori. Ultima differenza importante, deducibile da quanto appena affermato, è che mentre nel caso delle associazioni l’elemento rilevante è costituito dalla presenza di persone (i soci) che si organizzano al fine di raggiungere gli scopi comuni prefissati, nel caso delle fondazioni è la presenza di un patrimonio la condizione esistenzia- le necessaria, tanto da essere oggetto di valutazione attenta da parte dell’autorità pubblica nella concessione del riconoscimento giuridico alla fondazione. Ad ulteriore

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conferma il fatto che talvolta è la conservazione del patrimonio la finalità stessa della fondazione nel caso quello sia un immobile di particolare valore artistico o storico. In altri casi il patrimonio è lo strumento diretto dell’azione della fondazione. Nel caso delle cosiddette fondazioni grant-making, invero una realtà poco diffusa in Italia se si escludono le fondazioni bancarie, la fondazione utilizza il proprio patrimonio per ricavarne dei redditi da ridistribuire poi a soggetti secondo i criteri e per rag- giungere i fini stabiliti dallo statuto. Diverse da queste fondazioni, sono invece le fondazioni operative la cui attività non si declina nella redistribuzione di redditi ma nell’esercizio di un qualche servizio, come la conduzione di musei, case di riposo ed ospedali.

Un discorso a parte merita la società cooperativa, o più semplicemente coope- razione, disciplinata dal Codice Civile nel libro V. Queste ultime non vengono in genere considerate come appartenenti al Terzo Settore, almeno prendendo in con- siderazione la definizione propria della cultura anglosassone (tanto britannica che statunitense) e questo per il fatto che il Codice Civile non vieta la redistribuzione dei profitti. Questo aiuta a comprendere il perché dell’unicità della cooperazione sociale, ossia del suo essere organizzazioni di Terzo Settore tipica dell’Italia. In real- tà la cooperazione ha delle finalità geneticamente diverse da quelle tipiche di una impresa pura e semplice. Infatti la cooperazione è intesa, tanto dal testo Costitu- zionale11 che dal Codice Civile, in termini mutualistici riconoscendone al contempo la funzionalità nella realizzazione del principio di uguaglianza (Calamandrei e Levi, 1950), e il suo essere fattore di sviluppo del senso di solidarietà tra gli individui (Ferrera, 1975).

Il fenomeno cooperativo tradizionale “mira, in definitiva, a sostituire alla gestio- ne capitalistica dell’impresa, preordinata (sotto il profilo sia funzionale che struttu- rale) al conseguimento del profitto, una condotta aziendale basata sul solidarismo [interno] e volta al raggiungimento della finalità mutualistica” (Mari, 1994). In ter- mini più pratici la cooperazione nasce quale strumento attraverso cui alcuni soggetti, non in grado di competere individualmente sul mercato, uniscono le proprie finanzia- rie e personali al fine di soddisfare i bisogni di cui sono portatori. Questa definizione di principio non esclude una vera e propria contraddizione tra la finalità mutualistica e quella di profitto in quanto rende necessaria l’individuazione del punto d’incon- tro fra l’esigenza di economicità, necessaria per la sopravvivenza e per un corretto sviluppo della cooperativa, e gli aspetti di socialità.

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Al di là dei tentativi di individuare questo punto di equilibrio, la cooperazione mutualistica non sempre sembra rispettare le sue finalità originarie: ne sono esempio le numerose cooperative costituite da gruppi di imprenditori, persone ben dotate di risorse economiche per soddisfare i propri bisogni. Allo stesso tempo il potenziale benefico della società cooperativa non si estende al sistema sociale se non in ter- mini di esternalità positive: l’eliminazione dei costi d’intermediazione nei processi di scambio economico nei mercati in cui sono operano le cooperative favorisce un generale raffreddamento dei prezzi generali del mercato. Manca quindi nella società cooperativa tradizionale la volontà di influenzare positivamente il sistema sociale attraverso ad esempio lo sviluppo di reti di solidarietà più ampie, della fiducia e dell’etica di cittadinanza. Lo stesso effetto di calmiere sui prezzi è una esternalità e pertanto effetto non voluto. Il discorso dovrebbe essere differente invece per la forma specifica di cooperazione, quella sociale, disciplinata dalla legge nazionale 381/1991.