1.3 Le teorie sulle origini del Terzo Settore
1.3.3 Teorie dell’offerta
Differentemente dalle precedenti teorie, quelle che si descriveranno in questo paragrafo affrontano la spiegazione dell’esistenza del Terzo Settore partendo dall’of- ferta piuttosto che dai meccanismi di fallimento innescati dai caratteri specifici della domanda. Questo non significa necessariamente che i fallimenti del contratto, del mercato e dello Stato non siano importanti, ma piuttosto che è importante anche l’esistenza di “imprenditori sociali” capaci di porre in essere una risposta strutturata alle domande che per diversi motivi non trovano soddisfazione tanto nel mercato
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che nel settore pubblico (James, 1987). Per questo motivo si parla, quindi, anche di “entrepreneurship theory”. Il concetto di partenza in questa teoria è quello di imprenditore, definito da Schumpeter come un individuo con una particolare atti- tudine al cambiamento la cui funzione è quella di creare “nuove combinazioni” nel processo di produzione (Schumpeter, 1934, pg. 66). L’imprenditore è visto quindi da Schumpeter come il motore delle economie capitaliste, il portatore di punti di vista e modi di fare innovativi. Differentemente dagli imprenditori delle imprese a fini di lucro, tuttavia, gli imprenditori sociali si caratterizzano per la riproduzione non di valori economici o monetari ma di valori sociali (Dees et al., 2001). Inoltre, la presenza di imprenditori sociali nel guidare le organizzazioni di Terzo Settore nelle loro missioni ed obiettivi consentirebbe alle stesse di produrre e fornire in maniera innovativa beni e servizi ma anche di creare nuovi sistemi competitivi tra le diverse alternative (Dees et al., 2001).
Secondo Estelle James (1987) gli imprenditori sociali tentano di massimizzare forme di ritorno non monetarie come la fede e il numero di credenti alla stessa. È per tal motivo che le organizzazioni di Terzo Settore si sviluppano in particolar modo in quelle aree aventi maggiore peso nel definire preferenze e attitudini degli individui e in cui le persone diventano più disponibili a domande esistenziali, ovvero nei luoghi della socializzazione primaria (per esempio centri diurni per bambini e scuole) e in quelli destinati a fronteggiare situazioni di vulnerabilità o di bisogno dell’individuo (e.g ospedali, ospizi, centri per disabili o per persone che vivono una situazione di crisi nei rapporti affettivi). La combinazione di una funzione di catechizzazione a certi credi religiosi o ideologici viene, così, affiancata alla più evidente fornitura di servizi.
Dietro questa affermazione risiede l’importanza data dalla James come da altri autori (Rose-Ackerman, 1996), alla dimensione degli ideali della fede religiosa nello sviluppo del Terzo Settore. Per quanto non sia possibile non riconoscere il par- ticolare ruolo detenuto dalla sfera religiosa nel favorire ancora oggi lo sviluppo di molte organizzazioni di Terzo Settore, così come nell’essere stata il fulcro su cui le antesignane delle moderne organizzazioni crebbero e operarono2, le riflessioni della James possono essere lette in modo più generico affermando che la presenza degli imprenditori sociali, e quindi delle loro organizzazioni, è spiegabile alla luce della loro volontà di massimizzare la produzione di forme di valore sociale a carattere normativo (Weisbrod, 1998). Emerge quindi un’altra caratteristica chiave delle or- ganizzazioni di Terzo Settore: non solo esse nascono come espressione “sociale” di
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risposta a bisogni non soddisfatti ma sono capaci di permeare la società entro cui operano di valori normativi. La peculiarità del “product bundling”, ovvero dell’unire la funzione di produzione di servizi quella di socializzazione a certe norme sociali, consente al Terzo Settore di agire come agente di cambiamento e di integrazione sociale.
Lungo il percorso tracciato da queste ultime annotazioni si colloca in una posizio- ne più estrema l’approccio di Smith e Lipsky (1993) il quale guarda alle organizza- zioni di Terzo Settore come “manifestazione della comunità”. Differentemente dalle altre teorie dell’offerta in cui il Terzo Settore è correlato alla emersione di bisogni cui né il mercato né lo Stato sono in grado di rispondere, nella teoria sviluppata da Smith e Lipsky le organizzazioni di Terzo Settore non traggono le loro finalità dal soddisfare i bisogni non soddisfatti dai normali meccanismi allocativi ma da una particolare relazione che li lega saldamente con specifiche comunità di interessi. Di queste ultime le organizzazioni di Terzo Settore sono espressione e da esse ricevono la necessaria legittimazione. I due autori rifiutano un qualsiasi legame con i mec- canismi apparentemente deterministici di mercato, per cui in assenza di una offerta di beni si pongono le condizioni perché questa possa svilupparsi. In tal senso si po- ne l’accento sulla natura volontaria, spontanea e community-oriented del fenomeno aggregativo: per questo motivo alla luce di tale approccio non sono considerabili di Terzo Settore quelle organizzazioni che pur nonprofit perseguono gli interessi dei propri membri secondo una logica mutualistica.
La teoria dell’offerta trova, infine, una sua ulteriore espansione nello sforzo teorico congiunto di Ben-Ner e Van Hoomissen (1991) i quali racchiudono in un unico corpus le osservazioni di Weisbrod, Hansmann e James. In quella che è stata battezzata come “stakeholder theory”, l’elemento di novità consiste per l’appunto nel ruolo attribuito agli stakeholders nello sviluppo del Terzo Settore. Partendo dalla teoria della fiducia di Hansmann, Ben-Ner e Van Hoomissen riconoscono l’importanza della presenza di imprenditori sociali non interessati principalmente ai profitti. Tuttavia, mentre nella teoria della offerta si parla di soggetti animati da interessi di promozione di credi religiosi o ideologici, secondo i due ricercatori altri soggetti potrebbero agire come imprenditori sociali e più esplicitamente tutti quanti nutrono un certo interesse nella produzione di certi servizi e nella loro qualità. La partecipazione di molteplici stakeholders permetterebbe, inoltre, una maggiore affidabilità che non il semplice vincolo di redistribuzione.
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