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4. IL COMUNE SIGNORILE DI PIETRO GAMBACORTA E LA

4.2 Il rapporto con la civitas

4.2.1 Le riforme finanziarie

Come già accennato, le condizioni economiche in cui versava Pisa nel periodo direttamente antecedente al governo gambacortiano, non erano certamente delle più floride. Quando, nel 1369, l’imperatore Carlo IV liberò Lucca dal dominio di Pisa, sottrasse a quest’ultima un buon quarto delle

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Le informazioni relative a questo paragrafo sono state trovate principalmente in P. SILVA, Il governo di

entrate complessive dello stato. Contemporaneamente le spese comunali erano notevolmente aumentate giacché si doveva far fronte ai costi delle guerre, pagare i soldati stipendiarii che venivano assoldati a spese del Comune, effettuare pagamenti all’imperatore e, allo stesso tempo, far fronte alle spese impreviste derivanti dalle devastazioni ricevute nel contado ad opera delle varie compagnie di ventura. Quella del contado era una situazione particolare giacché gli abitanti di queste zone, dovevano al governo centrale pisano dei tributi, dai quali le casse comunali traevano una sostanziosa rendita. Ogni qual volta quindi, che le compagnie di ventura portavano distruzione devastando questi territori, gli abitanti abbandonavano i loro affari e si rifugiavano in luoghi fortificati, lasciando inoperose tutte le loro giornaliere attività: in questo modo la vita quotidiana del contado si fermava e, di conseguenza, anche il gettito delle imposte veniva a cessare, causando così notevoli perdite alle casse comunali. Il governo centrale pisano assoggettava il contado a due tipi di imposte: quelle dirette, ovvero i tributi, che venivano riscosse direttamente dal governo centrale per mezzo di alcuni ufficiali appositi, e le gabelle, che venivano riscosse da privati cittadini che le avevano prese in appalto dal governo centrale. Negli anni direttamente antecedenti alla venuta del governo gambacortiano, la situazione si aggravò tanto che le richieste di esenzione e riduzione per entrambi i tipi di imposta divennero numerosissime. Il governo fu costretto ad esaudirle, causando ancora ulteriori perdite sul flusso delle proprie entrate. In un periodo economicamente così difficile, l’unica via che rimaneva aperta all’amministrazione pisana per garantirsi entrate di denaro regolare, era quindi quella dei prestiti. Questi potevano essere di due tipi: volontari o forzati. Nel primo caso essi venivano stipulati in maniera libera e regolare con cittadini benestanti, disposti a impiegare in tal modo il loro denaro: lo investivano cioè nelle casse statali, ricevendo poi degli interessi. Nel secondo caso invece, la prestanza diveniva una vera e propria imposta, giacché era praticamente obbligatoria: il governo centrale stabiliva la

somma di cui aveva bisogno e il limite di tempo entro cui riceverla; successivamente si rivolgeva alla totalità della cittadinanza, oppure solo ad una parte di essa, la quale avrebbe dovuto pagare la quota a lei assegnata, entro i limiti di tempo stabiliti. I nomi di coloro che venivano designati come destinatari di questo prestito – imposta, venivano registrati nei Libri delle Prestanze, di modo ché il governo potesse rimanere costantemente aggiornato sulla situazione dei versamenti. Costoro ricevevano annualmente un interesse che poteva variare da prestanza a prestanza. Questo sistema presentava però degli intoppi e inconvenienti: la gestione delle prestanze non era unica e caratterizzata da tassi di interesse fissi e regolari, ma al contrario, ogni volta era necessario stabilire un nuovo interesse da attribuire alle somme prestate. Vista questa irregolarità nel funzionamento, i cittadini benestanti finirono per dimostrarsi sempre più restii a investire il proprio denaro nelle casse pubbliche. In conseguenza di ciò, dato che il governo voleva comunque garantirsi un’entrata fissa da questo sistema dei prestiti, quelle che erano già prestanze obbligate, divennero dei veri e propri tributi periodici. Naturalmente ciò andava a gravare sulla cittadinanza tutta e sui ceti meno abbienti in particolare, i quali dimostrarono presto un forte scontento per questa nuova tassa che sovraccaricava ulteriormente la loro già difficoltosa situazione.

Vista la grave condizione in cui si trovavano le casse comunali, una riforma finanziaria era assolutamente necessaria per ripristinare una situazione almeno sopportabile: ciò avvenne precisamente nel febbraio 1370. Come abbiamo già avuto modo di notare in precedenza, in quel momento Pietro Gambacorta non era ancora stato nominato Difensore del Popolo, e quindi non aveva ancora assunto esplicitamente quella carica di “presidenza” del Comune, che ricevette formalmente il 23 settembre 1370. Sappiamo però che in quella data ottenne un riconoscimento formale di quella che era una situazione effettivamente già in atto: dopo i tumulti del 3- 4 aprile 1369, grazie anche al sostegno di uomini fedeli che ricoprivano la carica di Anziani e all’appoggio

della Compagnia di San Michele, la famiglia Gambacorta era rientrata a Pisa e il partito Bergolino era ormai divenuto la pars dominante. Pietro era stato accolto come il legittimo signore che tornava in patria per occupare un posto di governo che gli spettava di diritto, ed era quindi possibile che già nel febbraio 1370, pur non essendo ancora a tutti gli effetti formalmente riconosciuta la sua carica, egli indirizzasse il Comune verso il suo volere. Molto astutamente cercò di ingraziarsi il favore della civitas tutta, cercando per prima cosa di risollevarla da questa congiuntura economica in cui era caduta.

La riforma del febbraio 1370, si presentava a primo impatto come un’unificazione del debito pubblico: il suo primario intento era quello di eliminare tutti quegli inconvenienti che si presentavano nella gestione delle prestanze, dovuti come abbiamo visto, in primo luogo al variare dei tassi di interesse e, soprattutto, avrebbe dovuto portare all’eliminazione degli ormai periodici prestiti forzati, che tanto gravavano sui ceti meno abbienti. Così con la riforma, tutte le vecchie prestanze bandite negli anni precedenti, venivano riunite in un nuova “Massa prestantiarium”, dove sarebbero state scritte le somme prestate dai cittadini e gli interessi che lo stato doveva ancora pagare. Tale riforma semplificava notevolmente l’amministrazione del debito pubblico, rimetteva a disposizione del governo cospicue entrate comunali che fino ad allora erano state impegnate per i pagamenti degli interessi delle varie prestanze e, soprattutto, alleggeriva il gravio fiscale subito dalle classi minori. In un certo senso si può affermare che questa riforma aveva un carattere di tipo democratico: cercava infatti di rendere più agevole l’emissione di prestanze da parte di coloro che erano benestanti e spontaneamente offrivano il proprio intervento, per evitare di aggravare la situazione delle classi meno abbienti con prestanze forzate.

Questa tendenza democratica appare poi in maniera decisamente più palese in un altro intervento fiscale: l’estimo effettuato nell’aprile 1371, allo

scopo di stabilire ulteriori imposte sulla base della ricchezza personale di ciascun cittadino, e non più secondo il numero dei cittadini. Così riporta la Cronica di Pisa: “A dì XX d’aprile si fecie in della cità di Pisa lo stimo acciò che, ponendo gravesse in della cità, che ciaschuno paghi quello ch’è per sua posibile. E fési in questo modo: che lli Ansiani di Pisa col suo Consiglo gennerale del Populo, elesseno quaranta citadini della cità e di questi se ne fé cinque parte, otto per parte […]. E tutti costoro mandavano per li citadini di Pisa e per quelle donne, le quale teneano fuoco per sé, a casa a casa, e faciendoli giurare sopra l’anima loro quello che valea lo suo. E tutto si faciea dare per iscritto e sìe di denari e ssì di posissione, e ppoi si stimava le persone s’elli facieano nulla di mistieri. E poi fatto questo sìe mandavano per li vicini e dizaminàvali per loro saramento ch’elli diciesse quello che valea del tale, e s’elli credea o sapea che valesse lo suo quello ch’elli avea ditto e dato lo stimo. Poi fatto questo, tra lloro a vocie anco li ditti otto citadini si disaminavano a uno a uno. E così fatto si piglavano le maggior somme e lle minore ch’erano stimate le persone e levavale via ll’autre partivano, cioè l’autre somme partivano in quarto, cioè le quatro vocie, e quello che montavano si era stimato la persona. ”81

Con questo dettagliato e meticoloso sistema, il governo centrale poteva così entrare a conoscenza di quelli che erano gli averi delle singole persone e, in questo modo, gravare con tasse proporzionali alla loro capacità di apporto fiscale: era effettivamente un intervento democratico e il sistema tributario andava così a caricare in maniera idonea e coerente con lo status sociale di ogni persona e famiglia. Non tardò però ad arrivare un forte reazione da parte di quel partito di mercanti ed armatori, molto potente a Pisa, che si rifiutava di pagare perché le quote delle prestanze sarebbero da allora state assegnate in proporzione agli accertati averi di ognuno, così che chi più possedeva, più avrebbe dovuto pagare. Pietro Gambacorta non poteva ignorare la volontà di

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queste gruppo di persone, dato che erano state proprio questa a sostenere la sua candidatura e, pur essendo egli il capo del governo, molte delle principali cariche comunali, erano ancora in mano a questo partito. Perciò, non volendo il Gambacorta mettersi contro ai suoi sostenitori, coi quali condivideva la gestione del Comune, preferì dare ascolto alle loro lamentele e, nel dicembre del 1371, fu effettuata una riforma dell’estimo. Possiamo in questo fatto notare la doppia tendenza che dimostrò di avere il governo di Pietro Gambacorta: se da una parte, come tutti i poteri di tipo signorile, ricercava l’appoggio dell’artigianato e delle classi meno abbienti, favorendoli con interventi di tipo democratico, dall’altra Pietro era impossibilitato a ignorare la posizione dei mercanti ed armatori, dei quali aveva effettivamente bisogno e che doveva ripagare per il sostegno ricevuto al momento della sua nomina a signore.

La riforma delle prestanze e quella dell’estimo non furono gli unici interventi finanziari del governo: infatti, dato che, nonostante questi provvedimenti, la situazione economica a Pisa non era in ripresa, si decise di agire anche riducendo notevolmente le spese pubbliche e instaurando un regime di rigidità fiscale. Il 23 ottobre 1370, lo stesso giorno in cui, come abbiamo visto, vennero effettuate le grandi riforme a livello amministrativo, si cominciò anche a fare una revisione di tutte le cariche pubbliche retribuite. Mentre alcune cariche vennero rese gratuite, altre ricevettero una sostanziosa diminuzione della retribuzione ed altre ancora vennero del tutto soppresse; inoltre venne ridotto il numero dei difensori ordinati in molti presidi del contado e, nel settembre del 1371, vennero licenziati molti soldati stipendiarii che erano al soldo del Comune. Ulteriori provvisioni, emanate nell’agosto del 1373, riguardavano nuovamente la massa delle prestanze, mirando a incrementare il valore e l’efficacia degli ordinamenti del 1370: stabilivano che fossero eletti quattro cittadini con l’incarico di controllare che fossero regolarmente versati gli introiti delle gabelle assegnate per pagare gli interessi e i rimborsi, che i registri fossero sempre in ordine, che nessun impiegato

dell’amministrazione si tenesse per sé denaro appartenente alla massa della prestanza e che le riscossioni e i pagamenti avvenissero in maniera regolare e senza eccezioni. Questi ordinamenti, cui tutti i magistrati cittadini dovevano prestare giuramento, compreso lo stesso Pietro Gambacorta, dimostrano che lo stato di calamità economica in Pisa stava tutt’altro che scemando, dato che Pisa ricorreva ancora al credito pubblico.

Un ulteriore tentativo fatto dal governo gambacortiano per recuperare la difficile situazione finanziaria, fu cercare di aumentare le entrate nelle casse comunali, soprattutto spingendo verso un maggiore sfruttamento di Porto Pisano e di Livorno. Come abbiamo visto infatti, dopo un periodo di negatività per questo porto, la circolazione delle merci era qui ripresa a vantaggio proprio di quella classe di mercanti e armatori di cui Pietro Gambacorta era degno rappresentante. Si pensò quindi di sfruttare questo fatto per accrescere le entrate di denaro: così, prima di tutto, vennero aumentate le tasse di ancoraggio, le quali poi, nel novembre 1372 arrivarono a triplicare rispetto alla cifra precedente, a causa delle spese necessarie per la riparazione del fondaco di Porto Pisano. È però importante notare che, aumentando tasse di questo tipo, in un periodo finanziariamente così difficile, il governo centrale andava a gravare sul traffico delle mercanzie e colpiva quindi direttamente proprio quel gruppo di mercanti e armatori che avevano ripreso vita con la venuta del governo gambacortiano. Tanto grave era la situazione economica e forte il bisogno di denaro che, pur di raccoglierne, non si esitò a colpire la maggiore fonte di reddito dei pisani: il traffico mercantile. Così, oltre a triplicare la tassa di ancoraggio, si raddoppiò la tassa di deposito merci in Porto Pisano e si aumentò la gabella su quei veicoli che andavano da Pisa a Porto Pisano e viceversa. Da notare però il fatto che venivano esplicitamente dichiarati esenti da questi aumenti i mercanti fiorentini, a riprova che al governo pisano premeva molto mantenere buoni rapporti con il comune fiorentino, evitando qualsiasi, seppur minimo, motivo di dissapore.

Ancora un ulteriore notevole intervento in campo finanziario fu la riforma proposta nell’agosto 1378. Questa disimpegnava gli introiti delle miniere di ferro dell’isola d’Elba, dall’essere ingaggiate nel pagamento degli interessi e nel rimborso dei capitali impiegati nella massa delle prestanze, e per compenso, vi impegnava non più un terzo ma la metà dei proventi ricavati dalla gabella sul vino. In conseguenza di ciò, doveva scemare la fiducia nei titoli del credito pubblico e nascere nei creditori il desiderio di liberarsene: era questa una conseguenza volutamente calcolata, cosicché il governo pisano avrebbe potuto estinguere il debito ricomprandone i titoli a un terzo del loro valore di emissione. Inoltre, l’amministrazione pisana sarebbe potuta tornare a godere liberamente degli introiti delle miniere dell’Elba. Tale riforma rende però bene l’idea di quanto fosse effettivamente grave la situazione economica: quando lo stato arriva a mancare gli obblighi contratti coi creditori e ad abrogare due terzi di questi debiti, significa che il peso di tali debiti è ormai così forte da estenuare tutte le riserve finanziarie dello stato e che il bilancio pubblico è in netto fallimento.

Dopo questa riforma del 1378, furono effettuati altri due tentativi di estimo. Il primo, nel gennaio 1379, seguiva in linea generale le modalità già stabilite nel 1371, anche se questa volta, le commissioni per gli accertamenti dei redditi furono composte dai Consoli del Mare e dai Consoli dei Mercanti e da tre privati cittadini assistiti da uno dei notai della cancelleria degli Anziani: è importante sottolineare questa modifica giacché i Consoli del Mare e quelli dei Mercanti erano i rappresentanti delle due classi che formavano la vera base del governo gambacortiano.

Il secondo estimo fu promulgato nel gennaio 1386, il quale cambiava nuovamente la commissione incaricata di stimare i beni della popolazione: era adesso composta da sessanta cittadini ripartiti per ogni quartiere e divisi in cinque squadre. Di fronte a queste continue nuove proposte di estimo, è lecito domandarsi come mai ci fosse una necessità di rinnovamento di questo tipo.

Questi successivi estimi sono la dimostrazione che a Pisa, i mercanti – armatori e il gruppo più benestante in generale, continuavano ad avere una influenza tale sul governo, da riuscire a far abolire ogni volta estimi che fossero risultati per loro dannosi e svantaggiosi, chiedendone di nuovi e più favorevoli. Come già sottolineato in precedenza, queste riforme di estimo, sottolineavano il carattere democratico dell’azione del governo gambacortiano, il quale voleva che il peso della crisi economica gravasse in maniera equa e proporzionata in base agli averi di ciascun cittadino: era però questo un concetto difficilmente accettabile da parte dei ceti più abbienti, coi quali, inevitabilmente, tali riforme erano destinate a scontrarsi.

In contrasto con questo spirito democratico del governo del Gambacorta, possiamo sottolineare però, anche l’esistenza di un provvedimento economico a carattere strettamente antipopolare. Nel 1388 infatti, per raccogliere i denari necessari per il raggiungimento di un accordo con la compagnia di ventura inglese capitanata da Beltoft, vennero raddoppiate le gabelle in Pisa. Ebbero conseguenza disastrosa soprattutto l’inasprimento della tassa sul sale e l’aumento dei dazi che si pagavano per introdurlo alle porte di Pisa: questi fatti portarono sicuramente forti ripercussioni sul prezzo dei beni di prima necessità, andando a gravare soprattutto sulle classi meno abbienti. Era quindi impossibile che non si creasse, in conseguenza di ciò, un deciso malcontento da parte delle classi popolari ed è importante sottolineare questo fatto dato che, appena quattro anni dopo, il governo gambacortiano crollerà: il mancato appoggio popolare sarà sicuramente una delle cause che contribuiranno alla rovinosa caduta di Pietro Gambacorta.

Dopo aver effettuato questo excursus dei provvedimenti finanziari presi durante il periodo gambacortiano, possiamo notare che, alla fine di questo, la situazione economica non era poi molto migliorata rispetto agli anni iniziali. Il bisogno di denaro era continuo e si cercò di farvi fronte, come abbiamo visto, in ogni modo: utilizzando le prestanze volontarie, quelle obbligatorie,

instaurando un regime di ristrettezza economica e aumentando le tasse soprattutto relative all’utilizzo di Porto Pisano. Nonostante questi interventi, più di una volta il governo sfiorò il fallimento economico, ma c’è da dire che contribuirono a ciò anche le turbinose vicende esterne che il Comune pisano doveva affrontare in quello stesso periodo: alle devastazioni da parte delle compagnie di ventura cui era soggetto il contado, si unì un forte periodo di carestia, e nel 1374-75, anche una pestilenza andò ad aggravare la situazione. Contemporaneamente, le guerre tra il Papa e Firenze e l’interdetto lanciato su Firenze e Pisa, fecero aumentare il bisogno di denaro, anche perché era necessario raccogliere i soldi necessari per pagare i soldati stipendiarii. È quindi da sottolineare che il governo gambacortiano si sforzò in ogni modo di far fronte a questa grave crisi economica effettuando riforme di diverso tipo per evitare la completa rovina finanziaria, ma le tristi vicende di quegli anni resero vani e senza effetto tutti gli interventi: continuava a sussistere a Pisa un intenso stato di calamità finanziaria.