4. IL COMUNE SIGNORILE DI PIETRO GAMBACORTA E LA
4.2 Il rapporto con la civitas
4.2.3 La ricerca del consenso Due esempi: Il ciclo pittorico di San Ranieri e la promozione della cultura
È interessante adesso osservare altri metodi di propaganda seguiti da Pietro Gambacorta, oltre all’intervento diretto sull’edilizia cittadina. Essendo questo un tema piuttosto ampio (giusto per citare alcuni avvenimenti particolari, ricordiamo l’organizzazione di alcune feste cittadine in occasione di specifiche occorrenze, come per esempio le nomine ad arcivescovi di Bernabò Malaspina nel 1380 e di Lotto Gambacorta nel 1381), ho preferito qui portare all’attenzione due casi particolari: l’utilizzo dell’arte, nella circostanza specifica del ciclo pittorico dedicato a San Ranieri nel Camposanto pisano, e l’utilizzo dell’attività culturale.
Tra la metà degli anni Settanta del Trecento e il 1386 fu dedicato a San Ranieri un ciclo pittorico composto da sei grandi riquadri, in origine situati su due registri paralleli, raffiguranti nel complesso ventitre scene, e posto nella parete meridionale del Camposanto. In ogni riquadro vi era un’iscrizione in volgare, situata nella cornice superiore o in quella inferiore, che spiegava la scene dipinte. Inoltre, in alcune scene, vi erano anche scritte, uscenti dalle bocche degli stessi personaggi all’interno dell’affresco. Tali iscrizioni e tali scritte sono andate purtroppo perdute quasi totalmente o risultano illeggibili, e ad oggi possiamo conoscerle grazie alle riproduzioni degli affreschi, compiute nei secoli successivi e grazie ad alcune trascrizioni. Purtroppo lo stato generale degli affreschi non è ottimo, anche se quattro di loro sono stati oggetti di un’opera di restauro che li ha poi ricollocati nel luogo originario,
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Le informazioni riguardanti questo paragrafo sono state rilevate: per quanto riguarda l’utilizzo dell’arte come ricerca del consenso, specificatamente per il caso del ciclo pittorico di San Ranieri in camposanto, in C. IANNELLA “Il ciclo pittorico di San Ranieri in camposanto nel contesto storico pisano”, pp. 167-177, in
“Intercessor Ranerius ad patrem: il santo di una città marinara del XII secolo”, a cura di P. CASTELLI e
M.L. CECCARELLI LEMUT, Pisa (2011). Per quanto riguarda la promozione della cultura legata all’università, in C. IANNELLA, “Alcune riflessioni su Pisa nel Trecento. Intrecci tra politica, società e
cultura.”, pp. 41-59, in “Pisa crocevia di uomini, lingue e culture. L’età medievale.”, Atti del Convegno Pisa,
ovvero nella zona intermedia della parete meridionale del Camposanto. Questo ciclo di affreschi è particolarmente interessante perché dimostra l’utilizzo che veniva fatto da Pietro Gambacorta, di quelle che erano opere d’arte riconosciute a livello cittadino: sono essi la dimostrazione che le opere d’arte potevano essere usate come propaganda di potere. Quello che infatti qui preme sottolineare non è tanto l’aspetto esteriore dell’opera pittorica e le tecniche ivi usate, quanto piuttosto è interessante capire quali sono stati i motivi che in quel determinato periodo hanno spinto il committente, in questo caso il governo gambacortiano, a scegliere di rappresentare alcuni episodi della vita di San Ranieri piuttosto che altri, collocando tale ciclo di affreschi in uno dei luoghi più importanti della Pisa contemporanea. Innanzitutto va ricordato quanto fosse rilevante in quel periodo il potere delle immagini: non dobbiamo infatti pensare che un ciclo di affreschi come questo, servisse solo ed esclusivamente come opera di abbellimento e ornamentazione, bensì il messaggio affidato alle raffigurazioni era molto importante dato che era leggibile dalla popolazione tutta, che poteva comprenderlo ed interpretarlo molto più facilmente che un’opera scritta, dato che non tutti erano atti alla lettura. In secondo luogo, è attraverso l’osservazione delle immagini stesse che possiamo comprendere perché furono raffigurate alcune vicende della vita di San Ranieri piuttosto che altre. Ranieri, originario di una famiglia mercantile pisana e vissuto nella seconda metà del XII secolo, dopo la conversione si dedicò ad opere di penitenza compiendo un lungo pellegrinaggio in Terrasanta. Una volta tornato in patria, si ritirò in monastero, senza tuttavia prendere gli ordini sacri: mantenendo lo stato laicale, Ranieri rappresentava così un tipo di santità e un modo di vivere la spiritualità in cui il laicato pisano poteva facilmente trovare un punto di riferimento a cui richiamarsi. Ranieri aveva tutte quelle caratteristiche necessarie per potersi imporre come punto di riferimento attorno al quale la cittadinanza tutta poteva stringersi trovando in esso un senso di appartenenza comune: furono proprio
questi elementi ad essere sapientemente notati dal Gambacorta, che usò appunto questo personaggio per accattivarsi il consenso cittadino. Prima di tutto, Ranieri era un santo locale e non condiviso con altre comunità, in secondo luogo era di origine mercantile e quindi era un meritevole rappresentante di quella gruppo di mercanti – armatori in ascesa in quel periodo e dal quale lo stesso Pietro proveniva; inoltre le sue spoglie erano da due secoli sepolte nel Duomo pisano e ivi venerate, in uno dei posti più rappresentativi della coscienza pubblica pisana. Di per sé quindi Ranieri possedeva i tratti rappresentativi di una personalità influente ed apprezzabile dall’opinione pubblica pisana. La scelta di rappresentare determinati episodi della vita del santo in questo ciclo di affreschi, è ancora una volta elemento significativo della capacità governativa di Pietro Gambacorta. In queste raffigurazioni è infatti possibile individuare quelli che sono elementi distintivi pisani: il Duomo e il battistero, elementi architettonici che contribuivano a creare un’identità pubblica tra i cives pisani, e il mare, cui Pisa rimase sempre legata. Non fu sicuramente un caso che il committente scegliesse di far rappresentare nel camposanto, ulteriore luogo di riferimento per i cittadini, proprio un santo vissuto nel XII secolo e strettamente connesso al mare, visti i suoi numerosi viaggi di pellegrinaggio. In quel secolo infatti, Pisa visse il momento culminante della sua potenza marina e commerciale, proiettata su tutto il mar Mediterraneo, dove viaggiava e commerciava fondando colonie in più zone. Rappresentare un santo vissuto in quel secolo significava quindi richiamare un passato florido dove Pisa primeggiava tra le maggiori potenze e verso il quale il Gambacorta aspirava a tornare, riportando il gruppo di mercanti – armatori ai fasti passati, allontanandoli così da quel contesto regionale e tirrenico in cui erano caduti nell’ultimo secolo. Rappresentare quel periodo significava richiamare un passato cittadino cui si intendeva tornare. La rappresentazione di San Ranieri in questi affreschi sembra essere stata voluta proprio dal Gambacorta, come confermerebbe un documento datato 13
ottobre 1377, in cui è registrato il pagamento che l’operaio del Duomo Ludovico Orselli corrispose al pittore Andrea di Bonaiuto da Firenze: ivi si legge che il contratto d’ingaggio al pittore era stato stipulato proprio da Pietro in persona.
Con la scelta di rappresentare San Ranieri, Pietro dimostrò ancora una volta la sua sapienza e saggezza poiché, consapevole dell’impatto che questo santo aveva sulla cittadinanza, scelse proprio costui come strumento identitario per contribuire a creare coesione cittadina. Le immagini possedevano un carattere persuasivo determinante e una forze evocativa dalla quale i cives non potevano che rimanere colpiti, perciò tale ciclo di affreschi contribuiva ad aumentare il gradimento di Pietro Gambacorta tra la popolazione tutta. Fu, quella di Pietro, una sapiente ricerca del consenso, che seppe sfruttare avvedutamente, creando un punto di unione tra il dominus e i cives.
È vero anche che si tratta di un’ipotesi, sicuramente molto sensata e legittima, ma possono essere fatte anche considerazioni di natura diversa. Se infatti è attestato che il committente di tale ciclo fosse Pietro Gambacorta, non è comprovabile che l’intento del suddetto fosse proprio la cattura del consenso cittadino. Dedicare un tale ciclo pittorico a un santo come Ranieri, poteva essere stato dettato anche dalla grave malattia che colpì Pietro nel febbraio del 1347, e non sarebbe da escludere, una particolare devozione a tale santo a cui veniva dedicata quest’opera come ringraziamento per l’avvenuta guarigione. Un'altra possibile ipotesi potrebbe essere legata all’esperienza spirituale di Chiara, figlia di Pietro, che poterà alla realizzazione del monastero femminile di San Domenico, e questo ciclo pittorico potrebbe rappresentare un’alta forma di rispetto e devozione per la spiritualità di Ranieri che, come Chiara, si era dedicato alla cura delle anime. Si tratta però di ipotesi, fondate, ma che non è possibile comprovare in nessun modo. Qualunque fosse l’intento, resta comunque il fatto che le immagini avevano al tempo una notevole forza persuasiva, riuscivano a comunicare al di là delle parole e delle scritture,
raggiungendo la coscienza delle persone: potevano quindi essere usate per manipolare queste coscienze verso fini predefiniti, come fece il Gambacorta appunto, dando loro la possibilità di identificarsi in questa personalità da lui prescelta perché rappresentativa del florido passato pisano.
Tra gli altri metodi di costruzione del consenso, passiamo adesso ad analizzare quello della promozione culturale. Come ha notato la studiosa Cecilia Iannella, “se volessimo ricostruire l’immagine di Pisa attraverso l’uso di testi letterari trecenteschi dovremmo ricorrere a fonti esterne alla città e fare una storia di Pisa “vista dagli altri”.”85 Per comprendere a pieno questa affermazione, è necessario fare un passo indietro. Innanzitutto è fondamentale ricordare che le testimonianze letterarie e narrative, costituiscono uno strumento decisivo dell’indagine storica al pari delle altre fonti (documentarie e archeologiche): sono reperti storici anch’essi, da cui lo studioso non può prescindere per l’individuazione dei caratteri costitutivi di un’epoca. In secondo luogo è importante specificare ancora una volta il particolare tipo di situazione istituzionale, politica e sociale che andò a costituirsi a Pisa tra le fine del Duecento, per poi trovare pieno sviluppo nel Trecento. Come è già stato osservato nel capitolo I di questo lavoro, nel XIII secolo Pisa vide ascendere un gruppo di uomini nuovi, di estrazione popolare. Essi, approfittando della situazione contingente dovuta da una parte dalla sconfitta della Meloria del 1284 che aveva causato gravi perdite demografiche, dall’altra dalla rivolta di Ruggero degli Ubaldini nel 1288 che aveva portato alla caduta del governo di Ugolino della Gherardesca, si inserirono all’interno dei rami sociali e politici colmando i vuoti provocati da questi avvenimenti. Ci fu quindi a fine Duecento un ricambio politico di notevole importanza che portò alla ribalta un nuovo gruppo sociale, costituito da famiglie di estrazione popolare, che si collocarono ai vertici del Comune di Popolo e che erano
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C. IANNELLA, “Alcune riflessioni su Pisa nel Trecento. Intrecci tra politica, società, cultura” , p. 47, in
legate soprattutto all’attività commerciale: furono proprio queste infatti a inserire Pisa nei circuiti commerciali internazionali. In quel periodo il Comune pisano si dimostrò dinamico anche a livello culturale: l’attività di produzione letteraria era in aumento tanto che un personaggio di rilievo come Guittone d’Arezzo, alloggiò a Pisa intorno agli anni Sessanta del Duecento, mostrando di apprezzare la città tirrenica per il suo fervore culturale e intellettuale, e creando intorno a sé un circolo di rimatori pisani. Tra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento però, il primato culturale toscano passò a Firenze: essa divenne la città intellettuale per eccellenza e Pisa perse l’ardore che fino a quel momento l’aveva caratterizzata. È lecito domandarsi per quale motivo ciò avvenne e, alla luce degli avvenimenti politici e sociali di quegli anni, è più che ipotizzabile che il contesto istituzionale e politico finì per influenzare il panorama culturale. Tra fine XIII e inizi XIV secolo, come è già stato sottolineato nel capitolo I e anche poco sopra, parlando del ciclo pittorico dedicato a San Ranieri, Pisa passava da un contesto mediterraneo a un contesto tirrenico e regionale, rimanendo isolata rispetto al contesto toscano e, soprattutto, soffrendo di una sorta di condizione di inferiorità rispetto alle rivali Genova e Firenze. La prima primeggiava sul mare Tirreno bloccando l’espansionismo commerciale e marittimo di Pisa; Firenze invece, guadagnava sempre più terreno espandendosi in Toscana e creando un’entità politica e territoriale così forte, da incidere non soltanto sulle questioni locali, ma anche su quelle internazionali. Difatti, l’opposizione tre guelfi e ghibellini ruotava sempre di più attorno alla rivalità tra Pisa e Firenze. Abbiamo già descritto in precedenza il significato politico ed ideologico che assunse il Ghibellinismo a Pisa: proprio questo elemento ideologico di salda fede ghibellina aveva contribuito allo stabilizzarsi del Popolo al potere a fine Duecento. Questo aveva impedito alle varie fazioni locali di inserirsi nel sovracittadino conflitto tra pars ecclesiae e pars imperii, così che Pisa non conobbe la fase in cui le fazioni si trasformarono, come in altre città, in Parti organizzate e
formalmente riconosciute, assumendo proprie istituzioni: a Pisa l’unica pars era il Popolo. Per questo, Guelfismo e Ghibellinismo finirono qui per essere categorie politiche declinate in contesto locale: a Pisa essere ghibellino finì per significare essere antifiorentino. Vista la potenza in ascesa e la volontà di affermazione di Firenze, Pisa rimaneva marginale, isolata e con scarsa capacità di intervento sia sulle questioni locali che su quelle internazionali. Mentre tra la fine dell’XII e l’inizio del XIII secolo, Pisa aveva potuto trovare supporto nella situazione favorevole in cui versava, dato che era ancora una potenza centrale nel Mediterraneo, perso questo primato, risultò ancora più isolata rispetto al contesto toscano. Vi è sicuramente un nesso di non poca importanza tra l’indebolimento politico ed economico di questo periodo e la regressione anche in tema di produzione letteraria e culturale. Così, mentre il passato pisano ricordava la produzione di tesi letterari di eccellenza, come il Carmen in victoriam Pisanorum o il Liber Maiorichinus o gli Annales di Bernardo Maragone, tra la fine del Duecento e gli inizi del Trecento, non si registrano produzioni letterarie di evidente eccezionalità ed originalità: gli autori di quel periodo non seguirono la scia dei loro predecessori, i rimatori pisani di metà Duecento e gli scrittori di lirica volgare, che avevano animato il passato pisano. Era dunque ormai chiaro che Pisa si trovava inserita in un contesto toscano dove Firenze primeggia sia in campo politico – economico che in campo culturale e letterario, come dimostrano le numerose testimonianze letterarie che ci sono giunte, nel Trecento, dalla sede fiorentina. Eppure durante il XIV secolo l’ambiente culturale pisano non venne completamente debilitato e annullato dalla supremazia fiorentina: esso rimase vivo, e anche in forme discretamente varie. Vi erano strutture educative diverse per tipologia e finalità, così come differenti tipologie di studiosi: erano presenti due studia mendicanti, un’Università, una scuola liturgica per giovani chierici annessa alla Cattedrale, numerose scuole di grammatica, retorica e d’abaco, pubbliche o private; inoltre, un’Arte dei notai, un insieme di esperti
di diritto e giuristi; un numeroso gruppo di commentatori di Dante. Piuttosto consistente era anche il patrimonio librario, come è possibile comprovare sfogliando gli inventari delle biblioteche pisane. Tutto questo fervore culturale garantiva alla città livelli diversificati di istruzione e un’ampia circolazione di cultura, permettendo di mantenere alto il livello di alfabetizzazione tra tutti i cittadini. Un notevole esempio del buon livello di cultura dei cives pisani, sono i numerosi libri di “conti e possessioni”, conservati nei fondi dell’Archivio di Stato di Pisa, che sono tra le maggiori testimonianze storiche del Trecento pisano. Non a caso la Toscana basso medievale è stata definita da Duccio Balestracci, “la regione con la penna in mano”86, dato che era un grande bacino produttore di testi. Era infatti abitudine sempre più frequente registrare eventi riguardanti la propria vita quotidiana, la propria famiglia e le proprie “possessioni” aprendo appunto la strada a nuove tipologie di libri: quelli contabili di “conti e possessioni”, le ricordanze e le cronache di famiglia. Pisa nel Trecento si presentava quindi come un bacino culturale decisamente attivo e molteplice, dove transitavano studiosi, testi e documenti, sia in volgare che in latino. Numeroso era il numero di opere prodotte da una folla anonima o semi-anonima di scrittori, copisti, commentatori e traduttori. È possibile citare, a titolo di esempio e per l’importanza fondamentale che ha per l’analisi storica di Pisa nel Trecento, il codice anonimo e non datato della Cronica di Pisa. Questo testo venne inizialmente pubblicato dal Muratori nei “Rerum Italicarum Scriptores”, XV (coll. 974-1088), e per questo motivo per
lungo tempo conosciuto come codice dell’Anonimo muratoriano;
successivamente è stato poi recentemente oggetto di una nuova edizione curata e commentata da Cecilia Iannella nell’anno 2005. La Cronica tratta della storia cittadina dalla fondazione mitica di Pisa, alla conquista fiorentina nel 1406; è scritta in volgare pisano, non è datata ma è databile ai primissimi
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D. BALESTRACCI, La zappa e la retorica. Memorie familiari di un contadino toscano del Quattrocento, Firenze (1984), p. 15.
anni del XV secolo. Essa è stata oggetto anche di un recente studio da parte della stessa Iannella87, che si è dedicata all’analisi del lessico politico utilizzato all’interno di essa, evidenziando il significato di specifiche espressioni lessicali e dei molteplici concetti a cui esse rimandano. L’analisi in questione aveva l’intento di ricostruire le modalità con cui il messaggio veniva prodotto dal cronista. Ciò che questo lavoro ha permesso di mettere in evidenza è la presenza, all’interno di tutto il testo, di una coscienza profondamente cittadina o, per meglio dire, pisana. Vi è infatti nell’autore un forte sentimento di appartenenza alla città ed identificazione con essa e con i cives tutti. Dal punto di vista narrativo, emerge ciò che precedentemente abbiamo notato: l’aspirazione di Pisa a rivestire ancora un ruolo centrale nella politica locale della Toscana, ma il dover accettare di trovarsi effettivamente in posizione isolata e marginale, a causa soprattutto della “spinta” fiorentina. L’anonimo autore di questo testo non si dichiara mai apertamente appartenente a uno dei due schieramenti che abbiamo visto contrapporsi, i Bergolini e i Raspanti: ciò che a lui interessa è la generale capacità di resistere agli attacchi e alla pressioni provenienti dall’esterno. Allo stesso modo il cronista non giudica i vari “esperimenti signorili”, ma mantiene la narrazione su un livello di automatica registrazione dei fatti, senza dare un’analisi critica degli eventi. Bisogna però aggiungere che, la selezione delle notizie degne di maggior nota e la non registrazione di altre, rivelano delle scelte piuttosto mirate nella cernita dei vari avvenimenti. Il vocabolario usato è invece consapevolmente connotativo. Ad esempio, in riferimento al Doge dell’Agnello, il cronista utilizza sempre termini come “regnare”, verbo usato solitamente in riferimento a grandi poteri, come quello imperiale e papale, per sottolineare la volontà del Doge di contrapporsi all’ostile Firenze. Al contrario, trattando del Gambacorta e della sua amicizia con i fiorentini, il cronista arriva
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C. IANNELLA, Note sul lessico politico di una cronaca pisana trecentesca, Bollettino Storico Pisano (2005), pp. 273 – 281.
a definire la subordinazione di Pisa alla città del giglio, come una “schiavitù” per i cives pisani che perdono così la loro libertas. Tutto sommato il cronista non è esente da giudizi sugli avvenimenti di quegli anni ma, la sua abilità sta appunto nel saperli rendere velati attraverso l’utilizzo di un lessico specifico e di espressioni che bisogna aver la capacità di saper intendere. L’impressione generale che si ha leggendo tale Cronica è che la civitas tutta parli attraverso il cronista: il sentimento di appartenenza alla comunitas pisana sembra qui prendere voce, testimoniando i punti di vista e le opinioni diffuse tra la cittadinanza. Sembra così che la voce dell’Anonimo, altro non sia che la voce dell’urbs tutta. Per questo motivo la Cronica di Pisa è una fonte assolutamente fondamentale per l’analisi della Pisa trecentesca e, mettere a confronto tale cronaca con i maggiori testi cronistici fiorentini a lei contemporanei – che erano diventati il modello dello scrivere cronache – invece di far sfigurare la cronaca pisana, mette in evidenza quelli che sono i suoi elementi peculiari: prima di tutto questo suo carattere pisano che sembra riflettere l’identità della civitas tutta.
Il comune pisano presentava quindi nel Trecento un ambiente culturale dinamico e florido, dove diverse e molteplici erano le occasioni per