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Il rientro di Pietro Gambacorta a Pisa nel 1369 e la situazione generale in cui versava il Comune pisano

3. PIETRO GAMBACORTA: DALL’ESILIO ALLA SIGNORIA

3.3 Il rientro di Pietro Gambacorta a Pisa nel 1369 e la situazione generale in cui versava il Comune pisano

Tra tutti i Gambacorta, colui che era destinato a prendere le redini del potere familiare era Pietro, figlio di Andrea.

Scarse sono le notizie per quanto riguarda la sua formazione e i suoi anni giovanili: probabilmente, come tradizione della sua famiglia, dovette impegnarsi in attività imprenditoriali soprattutto legate ai traffici mercantili, ma non tralasciò nemmeno l’avviamento alla vita pubblica. Sappiamo che nel 1349 fece parte di una commissione di Savi e fu Anziano per il bimestre novembre - dicembre di questo stesso anno, successivamente lo fu di nuovo per il bimestre settembre - ottobre del 1351 e per una terza volta nel bimestre maggio - giugno del 1353. Nel 1354 partecipò all’ambasceria inviata all’imperatore Carlo IV di Lussemburgo, recentemente eletto tale, e quando questi scese in Italia per cingervi la corona, Pietro lo ospitò nella sua residenza a Pisa. La presenza dell’imperatore in città, aggravò, come abbiamo visto, il periodo di lotte che vedeva lo scontro tra Raspanti e Bergolini, e in cui Pietro ebbe, insieme ai suoi familiari, una parte di rilievo, fino a condividere con loro la tragica via dell’esilio. Il luogo del confino, in un primo tempo assegnato a Famagosta, gli fu poi mutato in un qualsiasi centro purché fosse al di fuori dei territori del dominio pisano. Pietro trovò rifugio prima a Venezia e poi a Firenze e da qui cominciò a ordire una serie di colpi di mano per rientrare in Pisa, ma ogni tentativo risultò fallimentare. Non sappiamo quale atteggiamento abbia avuto Pietro Gambacorta durante il Dogato di Giovanni Dell’Agnello, e poco sappiamo anche delle vicende della sua vita durante questo periodo. Come abbiamo osservato nel paragrafo precedente, siamo a conoscenza che durante il Dogato, egli si trovasse nell’esercito fiorentino:

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Per il seguente capitolo sono stati utilizzati i lavori: P. SILVA, Il governo di Pietro Gambacorta in Pisa, (1911); N. CATUREGLI, La signoria di Giovanni Dell’Agnello in Pisa e in Lucca, (1921).

come dimostra una provvisione del 24 ottobre 136238, Pietro Gambacorta era stato preso allo stipendio dal Comune fiorentino al tempo della guerra tra Firenze e Pisa. Non sappiamo se tale provvisione fosse stata poi rinnovata anche per gli anni 1363 e 1364, ma non abbiamo difficoltà a pensarlo, dato che, proprio allora che le sue speranze sembravano prossime a realizzarsi, risulterebbe strano vederlo allontanarsi proprio in questo momento. Come visto in precedenza, dopo il moto popolare che portò alla caduta del Doge Dell’Agnello e alla restaurazione delle tradizionali forme di governo in Pisa, si ebbe un provvedimento di clemenza nel 1369, in seguito al quale i fuoriusciti e gli esiliati per ragioni politiche furono riammessi in città “E tornonno tutti li usciti salvvo che messer Piero Ganbacorta lo quale, non potendo entrare in Pisa, sìe entròe in Calccinaia presso a Pisa a diecie migla.”39. Il problema del ritorno a Pisa tuttavia, come esaminato in precedenza, fu risolto grazie all’intercessione della Compagnia di San Michele, che emanò un provvedimento per riammetterlo in città, probabilmente sotto influenza anche di una alleato del Gambacorta, Jacopo Appiani, il quale godeva di una certa autorevolezza negli uffici dell’amministrazione cittadina e di un certo seguito tra i ceti medi. Inoltre i Gambacorta godevano in città di un notevole gradimento sociale da parte della cittadinanza, grazie al ricordo che avevano lasciato del periodo 1347- 1355 quando la città era politicamente sotto il controllo della loro famiglia. Queste sono infatti le parole del cronista Anonimo quando descrive il rientro dei Gambacorta a Pisa: “Li Ganbacorti

tornonno in pisa a vintiq<u>atro, 24, di ferraio anno

milletrecentosessantanove, lo dì della festa di santo Matteo apostolo. Ma la parte delli Raspanti più volte funno a lo ‘nperadore che li ditti Ganbacorta non tornassero in Pisa. Questo faceano per tementia de loro, però ch’ellino aveano molto gravato lo populo di pagare denari, e perché li Ganbacorta che

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ASF Consigli Maggiori, 50, c. 37 rt, in N. CATUREGLI, La signoria di Giovanni Dell’Agnello in Pisa e in Lucca (1921), p.53, nota 2.

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‘nprima reggeano ellino governonno bene Pisa senssa gravare lo populo, anssi Pisa avea mobile e tutti li citadini stavano grassi e richi e ognuno, e ora àe Pisa debito. E per questa cagione lo populo di Pisa amavano la tornata delli Ganbacorta, credendo ch’ellino facesseno come li loro antecessori. E la Conpagnia di Santo Mighele si ffu molto in aiuto a li Ganbacorti della loro tornata, che sse lla Conpagnia di Santo Mighele lavessen contraditto mai in Pisa non tornavano.”40 Di fatto però, il rientro dei Gambacorta a Pisa avvenne tramite un accordo: sono testimoniati infatti contatti tra Pietro e l’imperatore Carlo IV e siamo a conoscenza del fatto che Pietro si impegnò a versare a quest’ultimo la cospicua somma di 12.000 fiorini d’oro41, per la cancellazione del bando di esilio del 1355. A causa di questo pagamento, è probabile che i Gambacorta all’epoca del loro rientro in città fossero notevolmente impoveriti.

Finalmente, il 24 febbraio 1369, Pietro Gambacorta rientrava a Pisa ed apparve subito alla cittadinanza come il capo riconosciuto della propria casata e il massimo esponente del partito Bergolino: la famiglia Gambacorta tutta venne accolta con grande festa dal popolo di Pisa come testimonia la Cronica:“E tornando li ditti Ganbacorta in Pisa, cioè messer Piero e Gherardo suo fratello e colli loro figluoli, lo ditto dì in della cità di Pisa si fecie grandissima festa per lo populo di Pisa, che lle canpane della cità tutte sononno ‘a Dio laudamo.’”42

A questo punto Pietro era un uomo più che maturo d’anni e le sue idee e convinzioni politiche erano ben radicate e rinsaldate, per questo fin da subito si preoccupò di ristabilire rapporti d’intesa con Firenze. Già dalla sua infanzia aveva osservato il padre curare le buone relazioni con questa città, in seguito proprio là, egli stesso aveva trovato rifugio ed aiuto nel difficile momento dell’esilio: era quindi inevitabile che egli nutrisse per Firenze sentimenti di

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Cronica di Pisa, a cura di C. IANNELLA, p. 221, c. 139 v.

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Mgl. XXV.31, c. 41r in Cronica di Pisa, a cura di C. IANNELLA, p. 221, nota (332).

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riconoscenza e gratitudine ed era proprio per questo che i pisani, desiderosi di riallacciare le interrotte relazioni con questa città, avevano tanto insistito per il suo rientro, cosicché potesse curare tali relazioni, considerato che gli stessi fiorentini si fidavano e avevano stima di lui.

Al momento del suo rientro a Pisa, la famiglia Gambacorta dovette trovarsi davanti a una situazione decisamente instabile e caratterizzata da una forte inquietudine.

A livello strettamente politico, da una parte era sempre viva, seppure con la recente vittoria del partito Bergolino, la tradizionale opposizione tra quest’ultimo e il partito Raspante, il quale, anche se sconfitto e indebolito, dimostrava ancora una forte determinazione nel tener alto il proprio onore opponendo una seppur debole resistenza all’assoluto predominio degli avversari. I due partiti irreducibilmente avversi continuavano a perturbare ogni parvenza di ordine pubblico con i loro conflitti e tumulti.

In mezzo a questi due partiti stava la già citata Compagnia di San Michele, dove erano raccolti per lo più cittadini appartenenti al ceto dei mercanti ed artigiani, desiderosi di ripristinare a Pisa una situazione di stabilità, in modo da poter portare avanti in maniera sicura i proprio affari cittadini e le proprie relazioni con le altre città. Inoltre va considerata la presenza, tra i cittadini, di una sostanziosa massa di persone priva di un determinato e deciso schieramento politico, che seguiva in linea generale le contingenze del momento e che va orientandosi adesso in direzione del partito Bergolino, affiancandosi alla posizione delle Arti cittadine, le quali avevano già dimostrato il proprio consenso alla politica di questa fazione.

Anche dal punto di vista economico la situazione non era certamente florida, già che le finanze cittadine risultavano esauste dopo gli oneri affrontati durante la guerra contro Firenze, e soprattutto provate dai sostanziosi sperperi del Doge Dell’Agnello, ai quali si aggiungevano gli stipendi da dover pagare alle milizie e il pagamento di 7000 fiorini d’oro mensili da fare a Carlo IV.

Quest’ultimo si era recentemente stabilito a Lucca, dove riceveva continue richieste dai cittadini affinché li liberasse dal dominio pisano, aggravando così la preoccupazione della città di Pisa che, nel timore che queste pretese potessero essere realizzate, si mobilitava per rinforzare il presidio e le difese della città soggetta. Ulteriori turbamenti giungevano dal fatto che Giovanni Dell’Agnello permaneva alle porte di Pisa e manteneva vivo l’interesse dei suoi sostenitori in città: onde evitare possibili cospirazioni, il governo pisano con un pubblico bando arrivò a proibire a tutti i sudditi e cittadini di avere rapporti occulti o palesi con l’ex Doge.

Vediamo quindi come la situazione a Pisa non fosse certo florida e stabile, ma riflettesse invece un continuo senso di inquietudine e agitazione, quello che sembra caratterizzare solitamente uno stato di passaggio da un governo ad un altro e che doveva portare, in questo caso, alla formazione di un nuovo tipo di signoria. Ormai il ceto mercantile era troppo profondamente scisso e indebolito per poter mantenere saldo nelle proprie mani il governo cittadino sulla base delle antiche istituzioni repubblicane e comunali: così le lotte tra le varie classi e i vari partiti finirono per portare alla testa del governo un solo uomo, ovvero il capo del partito vittorioso, in questo caso Pietro Gambacorta, massimo esponente del partito Bergolino. D’altra parte però, il ceto mercantile pisano non era in una situazione di totale disfacimento e disintegrazione e non poteva ammettere una signoria il cui capo si presentasse come un usurpatore e che governasse in maniera assoluta e autoritaria, abolendo del tutto le tradizionali istituzioni comunali: era sì chiaramente forte, la necessità di avere un leader, ma questo doveva essere scelto ed eletto dalla volontà, almeno apparentemente libera, della maggioranza cittadina. In tal modo, il nuovo signore si sarebbe presentato come il rappresentante riconosciuto dalla cittadinanza e, senza distruggere gli ordinamenti comunali, avrebbe governato accanto e insieme con essi. Tali forme effettivamente prese la nuova signoria di Pietro Gambacorta.

Essendo a conoscenza del documento43 che attesta l’elezione di Pietro a signore di Pisa, datato 23 settembre 1370, sembrerebbe corretto cominciare l’analisi di tale signoria dal momento esatto della sua costituzione, riconosciuta ufficialmente dagli organi comunali in questa data appunto. Non bisogna però confidare nell’ipotesi che il governo del nuovo signore fosse effettivamente cominciato a partire da quella data esatta: è giusto supporre infatti che il riconoscimento ufficiale della carica fosse avvenuto precedentemente a questa data, nel momento in cui il governo di Pietro fosse già maturo e consolidato in una situazione stabile, e che quindi la sua gestione del potere fosse già stata riconosciuta seppur in maniere informale. È corretto presumere che l’influenza di Pietro sul governo cittadino abbia cominciato a farsi sentire, prima in maniera più occulta, poi lentamente sempre più palese, già dal momento del suo rientro in città. Abbiamo in precedenza notato come egli effettivamente fosse acclamato e festeggiato dai cittadini in maniera solenne e non è da dubitare che già da quel giorno egli venisse riconosciuto come il nuovo signore, tornato per riprendere il proprio posto alla testa della pubblica amministrazione.

Dopo il rientro dei Gambacorta a Pisa la situazione precipitò e i dissensi e conflitti ormai insanabili, portarono Bergolini e Raspanti allo scontro definitivo. Inoltre la Compagnia di San Michele, che si era precedentemente contraddistinta per la sua concordia interna, perse questo carattere ed andò ad aggravare, con la sua disgregazione, la già difficile situazione del Comune pisano. Il conflitto scoppiò definitivamente nella notte tra il 3 e il 4 aprile 1369 44

quando una trentina di uomini del partito Bergolino, cominciarono a percorrere le strade al grido di “viva il popolo e l’Imperatore”. Subito dopo molti altri seguaci del Gambacorta sbucarono da ogni lato e seguirono gli insorti che stavano recandosi alla sede della Compagnia di San Michele: qui

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ASP, Comune A, Reg. 148, f.148.

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riuscirono a farsi consegnare, dietro minacce, il gonfalone cittadino, simbolo della loro presa del potere. Durante il tumulto inoltre, alcuni seguaci Bergolini assalirono le carceri cittadine, riuscendo a liberare numerosi prigionieri che andarono così ad aumentare il numero degli insorti. I Raspanti a quel punto, colti alla sprovvista, poterono opporre solo una debole resistenza, e molte case delle principali famiglie di questo partito, come quella dei Della Rocca e dei Benetti, finirono per essere saccheggiate, distrutte e arse mentre molti uomini fuggivano in campagna e nelle città vicine, come a Lucca. Già alle prime ore del 4 aprile i Bergolini elessero nuovi dodici Anziani che furono posti alla direzione del governo insieme ai dodici già in carica che appartenevano alla Compagnia di San Michele. Questi ultimi, consapevoli forse che il compito della Compagnia era giunto al termine, volevano dimettersi lasciando il governo ai soli Bergolini, ma Pietro Gambacorta, dimostrando già una notevole competenza nella conduzione del potere, pensò fosse più prudente evitare che il trapasso dall’antico al nuovo governo fosse troppo brusco e violento, e rifiutò quindi le loro dimissioni stabilendo che rimanessero in carica fino al termine del loro ufficio, ovvero fino a maggio. Così riporta il cronista: “Poi se ne andonno colo ditto go<n>falone in su la piassa de li Ansiani, e fecieno autre dodici Ansiani insieme con quelli de la Conpagna di Santo Mighele, ed erano delli Berghulini, e quelli di prima, cioè di Santo Mighele, ellino se ne voleano andare a casa loro, e messer Piero Ganbacorta non volse, disse: “State con questi in conpagnia sine a calende maggio, ch’è così l’oficio vostro.” Ellino, per non dispiacere a lui, rimasseno malcontenti, e stetteno insieme colli Berghulini sine al calende maggio, e ppoi rimaseno li dodici della parte delli Berghulini mesi due.”45

Il nuovo governo fu così ordinato in data 4 aprile 1369, la quiete ritornò nella città e Pietro Gambacorta si trovò ad essere virtualmente il nuovo capo del governo di Pisa.

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Se la situazione interna alla città dimostrò di ritrovare in breve tempo una certa stabilità, lo stesso non si può dire per quanto riguarda i rapporti con l’esterno. Innanzitutto Carlo IV che si era, come detto in precedenza, stabilito a Lucca, non mostrò di gradire il fatto che i Pisani si fossero dotati di un nuovo signore: nonostante i seguaci del partito Bergolino fossero insorti al grido di “viva l’Imperatore” e nonostante dopo la vittoria, i nuovi Anziani avessero continuato a dichiararsi “vicarii imperiales”, inviando lo stesso 4 aprile un’ambasceria a Lucca per assicurare a Carlo IV che la devozione nei suoi confronti non era mutata, quest’ultimo non dimostrò comprensione. Probabilmente anche fomentato dai Raspanti rifugiatosi a Lucca, fece rinchiudere in carcere gli ambasciatori pisani e ordinò una spedizione armata contro la città. Insorsero contro Pisa le milizie imperiali, i Raspanti, i cittadini lucchesi, desiderosi di rendersi completamente indipendenti da Pisa, e i nipoti di Giovanni Dell’Agnello, che volevano approfittare della situazione per cercare di riportare l’ex Doge alla testa del governo. La situazione a Pisa era resa ancor più pericolosa dal fatto che i seguaci di quest’ultimo erano ancora in possesso di una rocca situata presso la Porta del Leone e, proprio qui infatti, si diresse il grosso dell’esercito imperiale. I pisani però riuscirono a resistere alla furia dell’attacco e pare che, quando i capi dell’esercito imperiale entrarono in città per parlare con Pietro Gambacorta, si lasciassero corrompere già che, usciti, radunarono le loro milizie e tornarono a Lucca a cercare di persuadere Carlo IV che i pisani provavano ancora sentimenti di deferenza e ossequio nei suoi confronti. Ancora una volta leggiamo la descrizione dei fatti riportata dal cronista Anonimo: “E quelli chaporali de la porta, cioè lo Luffo mastro e messer Giannotto e Ansi Tedescho, sìe parlame<n>ttonno con messer Piero Ganbacorta […]. E venneno insieme con messer Piero Ganbacorta e con alcuni Ansiano che v’era quine armato col popolo, e andonno al Palagio a li Ansiani e parlamentonno mouto insieme; cóntasi che vi si aoperasse e dessesi a questi caporali dimouti fiorini segretamente.

Questo non dico per veduta ma per udita dire, e così si credette per la più gente di Pisa. E avendo parlamentato, lo Luffo mastro co gli suoi conpagni si partitteno e tornonno a la porta dello Leone, e comandò a la gente che ssi partissero” 46 Questi fatti però non fecero che aumentare la collera dell’Imperatore che, il sabato 7 aprile, inviò una nuova spedizione a devastare i possedimenti pisani in Valdiserchio ed emanò un decreto col quale privava i pisani di ogni privilegio imperiale e di ogni diritto sulla città di Lucca. Quest’ultima, con un nuovo diploma emanato il giorno seguente, veniva dichiarata definitivamente libera dal dominio pisano e solo ed esclusivamente soggetta all’Impero47.

È interessante notare quale ruolo svolse Firenze all’interno di questa situazione di conflitto tra Pisa e l’imperatore con i suoi alleati. Le consulte fiorentine di quei giorni, conservano l’eco di diversi sentimenti: da una parte alcuni esprimevano gioia per il cambiamento di governo a Pisa ed incitavano a sostenere Pietro Gambacorta; altri insistevano sull’utilità di favorire i lucchesi a rinsaldare la riacquistata indipendenza; altri ancora suggerivano di consigliare al Gambacorta di accordarsi con l’imperatore; altri infine sottolineavano l’importanza di mantenere buoni rapporti tra Firenze e Carlo IV, già in passato dimostratisi difficoltosi. L’opinione generale, risultante dalla somma di questi pareri, diversi ma tutto sommato non duramente contrastanti tra loro, era che tra Pisa e Carlo IV si dovesse concludere una pace rivolta a riconoscere lo status quo di quel momento: approvando cioè, sia il mutamento di governo avvenuto in Pisa, sia l’indipendenza della città di Lucca. Per realizzare tale scopo i fiorentini si adoperarono durante questi mesi in un arduo lavoro di diplomazia, inviando ambasciatori tanto a Pisa quanto all’imperatore. Il 1° maggio 1369 il frenetico lavorio dei fiorentini raggiunse

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Cronica di Pisa, a cura di C. IANNELLA, pp. 227, c. 143v, c. 144 r.

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lo scopo prefissato: in questa data fu infatti stipulato un trattato di pace48 tra i due contendenti. I patti di tale accordo obbligavano Pisa a riconoscere di aver male agito e a chiedere ammenda all’imperatore, impegnandosi a pagare in tre rate, da maggio ad agosto, la cifra di 50000 fiorini, per i quali pagamenti i fiorentini si facevano garanti; i pisani inoltre, riconoscevano all’Imperatore il diritto di governare la loro città ogni qual volta vi fosse entrato, e in cambio Carlo IV riammetteva nella sua grazia Pisa e i suoi cittadini, condonando tutte le pene in cui erano incorsi. Tale accordo, in apparenza molto umiliante per Pisa, non fu mai pubblicamente annunciato in città. Riportiamo le parole del cronista Ranieri Sardo: “E lli pacti che feciono chollo inperadore non si dissono in pulbicho ma ll’efecto si fu: si gli domandò perdono dell’offesa facta et, per ristoro di quello,si gli die’ per uno mese fiorini 50mila li quali de’ avere in tre paghe: ora, per tucto maggio, lo terzo, e per di qui a tucto aghosto l’altre due paghe; et di presente, facto l’achordo, si llasciò et fe’ lasciare i nostri inbasc[i]adori ch’erano sostenuti chome decto di sopra.”49 Ma l’umiliazione di tale accordo era effettivamente illusoria, già che per esempio, non fu mai applicato l’articolo che riconosceva all’imperatore il diritto di governare in città ogni qualvolta vi si fosse recato: si può benissimo credere che tale articolo fosse stato inserito negli accordi di pace, solo ed esclusivamente in segno di ossequio nei confronti di Carlo IV. Anche la pena pecuniaria non era poi tanto grave poiché nei 50000 fiorini venivano contati anche i 20000 che per un precedente accordo i pisani dovevano pagare a Carlo IV in rate mensili da 4000 fiorini, sicché il pagamento si riduceva