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La ricostruzione di una categoria giuridica discussa

4. Le critiche mosse alla nozione di indirizzo politico

4.1. Cosa resta dell’indirizzo politico?

Ripercorrendo brevemente le obiezioni mosse all’indirizzo politico e la conseguente mancata accoglibilità delle stesse, può quindi ritenersi di fondare tutto il resto della trattazione, interpretando alcuni fenomeni che hanno investito il nostro ordinamento, soprattutto da un punto di vista di “politiche economiche” alla luce di tale istituto. A ben vedere, infatti, quest’ultimo può essere utilizzato tanto per incentrare un’indagine sulla statica dell’ordinamento costituzionale, quanto sulla sua dinamica.

143 Si rinvia a M. Dogliani, voce Indirizzo politico, op. cit., p. 256 e si riporta la sua pregevole analisi:

«Ma si può dire che questa sia l’unica dimensione della politica capace di spiegare in modo soddisfacente il comportamento degli stati contemporanei e dei loro cittadini? O non si deve continuare a ritenere che prima della serie infinita di capillari negoziazioni che oggi caratterizzano il modo di operare delle democrazie esista un nucleo di decisioni che effettivamente continuano a stabilire i fini dello stato, e cioè i confini di ciò che è politicamente praticabile? Se della politica si danno concezioni diverse da quelle collegate all’idea di mercato, e si utilizzano, invece delle categorie legate al principio di identità, sembra essere rintracciabile accanto a molteplici indirizzi, un ben definito ed unitario indirizzo».

144 Secondo il Dogliani come nei periodi “post-costituenti” o in quelli caratterizzati da grandi

coalizioni; momenti di rottura con il passato come nel caso del “New Deal”, del “Keynesismo” o del “Tatcherismo”.

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Qualora, infatti si assumesse l’indirizzo come quell’insieme di fini che si presentano all’osservazione del giurista come dati accertati il concetto di indirizzo sarà rilevante poiché metterà in luce l’esistenza di principi regolativi delle attività pubbliche e attribuire un senso ai fini politici logicamente distinto dalle regole di diritto; per meglio chiarire, eviterebbe che tali attività vengano prese in considerazione solo come «una sequenza di applicazioni di norme o di esecuzione di comandi espressi nelle forme che li dotano dei requisiti giuridici di validità».

Fondato su una distinzione che metta in luce la differenza strutturale tra fini politici e

norme giuridiche, tale istituto consente di indagare i rapporti e le interferenze tra i

vari organi costituzionali.

Entra così “in gioco” anche la rilevanza dell’istituto come prospettiva d’indagine ordinamentale da un punto di vista dinamico, ovvero «i processi di “incorporazione” dei fini politici negli atti e nelle attività pubbliche per cui tutti gli atti giuridici attraverso cui si estrinseca l’esercizio delle funzioni pubbliche appaiono come sintomi di un fine politico precedente»146.

In una prospettiva che pone l’accento nel rapporto norme-fini (e le attività che ne sono espressione) l’indirizzo politico verrà in considerazione come oggetto di limiti posti dal diritto.

Posto che anche tale categoria non si pone come attività (in assoluto) completamente libera nei fini.

In regime di costituzione rigida, infatti, troverà, in primo luogo, limite nel dettato normativo costituzionale stesso; d’altra parte, «così come alla flessibilità della costituzione non è collegata un’autocreatività dell’indirizzo politico assoluta ed incontrollata, dalla rigidità non deriva un depotenziamento dell’indirizzo politico che equivarrebbe alla sua negazione in radice, qualora si ritenesse che esso si riduca alla previsione di una serie di comportamenti meramente attuativi della costituzione»147 .

146 Ivi, p. 258.

147 Come sottolineato da T. Martines, voce Indirizzo politico, op. cit., p. 138; e, in prospettiva analoga,

da M. Galizia, Lineamenti generali del rapporto di fiducia tra Parlamento e Governo, Milano, Giuffré, 1964; e, sotto ulteriore punto di vista, da V. Crisafulli, La Costituzione e le sue disposizioni di

principio, Milano, Giuffré 1952, p. 68 secondo cui «le norme programmatiche costituiscono dei limiti

generali, negativi e positivi per l’indirizzo politico, poiché rappresentano la fissazione di precise direttive politiche in Costituzione».

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Spetterà, dunque, comunque agli organi costituzionali (rectius: alcuni organi costituzionali) determinare le modalità di conseguimento di tali fini.

Altri vincoli, inoltre, possono essere individuati nella demarcazione tra «efficacia delle norme costituzionali di principio nei confronti delle attività non legislative, e dunque non sottoposte al sindacato di costituzionalità», ovvero il confine tra controllo costituzionale degli atti normativi e il controllo sugli atti frutto di “discrezionalità politica” degli organi legittimati a porli in essere148; nonché, più in

generale, i principi generali dell’ordinamento, come riconosciuti dalla Corte Costituzionale149.

Si mette, così, in luce l’esistenza di un’attività, determinatrice di fini che persegue sia fini ultimi e fondamentali, sia contingenti e parziali, attraverso atti normativi e non normativi. Come sottolineato, ancora dal Dogliani, «questa attività può essere considerata sotto profili diversi: si potrebbe dire come attività di indirizzo politico in entrata o in uscita rispetto agli atti giuridici prescrittivi di fini: rispetto cioè alla loro formazione o alla loro attuazione». Sotto il primo profilo, ne discende la non esaustività dell’indagine giuridica, poiché il formarsi della “decisione sull’an” sarebbe riconducibile a quella fase anche “pre-giuridica” sfuggente alle categorie classiche del diritto. Così come sfuggente potrebbe essere anche l’individuazione in fase di attuazione essendo «il contenuto della prescrizione giuridicamente adottata per perseguirlo», frutto di un processo decisionale «non del tutto coincidente con

148 M. Dogliani, op. cit., p. 258.

149 Sent. Corte Cost. n. 1146 del 15 dicembre 1988, par. 2.1. considerato in diritto: «La Costituzione

italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali. Tali sono tanto i principi che la stessa Costituzione esplicitamente prevede come limiti assoluti al potere di revisione costituzionale, quale la forma repubblicana (art. 139 Cost.), quanto i principi che, pur non essendo espressamente menzionati fra quelli non assoggettabili al procedimento di revisione costituzionale, appartengono all'essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana. Questa Corte, del resto, ha già riconosciuto in numerose decisioni come i principi supremi dell'ordinamento costituzionale abbiano una valenza superiore rispetto alle altre norme o leggi di rango costituzionale, sia quando ha ritenuto che anche le disposizioni del Concordato, le quali godono della particolare “copertura costituzionale” fornita dall'art. 7, comma secondo, Cost., non si sottraggono all'accertamento della loro conformità ai “principi supremi dell'ordinamento costituzionale” (v. sentt. nn. 30 del 1971, 12 del 1972, 175 del 1973, 1 del 1977, 18 del 1982), sia quando ha affermato che la legge di esecuzione del Trattato della CEE può essere assoggettata al sindacato di questa Corte “in riferimento ai principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale e ai diritti inalienabili della persona umana” (v. sentt. nn. 183 del 1973, 170 del 1984)».

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quello formalmente predisposto per la loro formazione (per quel che riguarda i soggetti coinvolti e i luoghi della decisione)»150. In questo senso si sottolinea la solo

parziale derivazione dei fini pubblici dalle regole del diritto;

Sotto il profilo, invece, dell’indirizzo politico “in uscita”, quest’ultimo può mettere in luce «l’ineliminabile esistenza di spazi di decisione in ogni attività di applicazione di atti precedenti: ogni atto che richieda una attività per la sua applicazione, comporta per ciò stesso l’effettuazione di una serie di scelte di indirizzo, di decisioni, non riconducibili all’atto stesso, indipendentemente dal fatto che il suo contenuto sia normativo o meno, ma solo perché è una “statuizione” da attuare»151.

È così che viene in rilievo (tanto nell’approccio statico che dinamico) dell’ordinamento costituzionale, lo stretto legame che intercorre tra disciplina giuridica e politologica, tra lo Stato (inteso come istituzione fondata e soggetta al diritto) e il sistema politico: esso rappresenta il punto nel quale, come ricorda Bobbio, «lex et potestas convertuntur»152.

Ne consegue, alla luce di tutto quanto premesso, l’impossibilità di prescindere nel seguire dell’analisi dalla categoria giuridica di “indirizzo politico”, in particolare concentrando l’attenzione sull’influenza che questa attività può avere, ed ha, sugli assetti economici statuali, quale “prospettiva privilegiata” per comprendere diverse dinamiche proprie dei rapporti tra “organi di governo”. L’indirizzo politico è l’espressione di un’esigenza di razionalità attiva, tecnica, progettuale, senza la quale risulta difficile anche solo pensare alla costruzione ed alla perpetuazione di uno Stato sociale.

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