• Non ci sono risultati.

Quale cultura del rifugio?

Nel documento Abitanti di uno spazio (pagine 182-197)

176 Così Schiavone racconta il rapporto operatore-ospite:

3. Quale cultura del rifugio?

A fronte di quanto sino ad ora osservato, si può sostenere che i principali modelli di accoglienza italiani affondano le proprie radici in quello che Puggioni individua nella definizione stessa del rifugiato in Italia: “A close reading of Italian policies suggests that asylum seekers were not seen as a category of people for whom specific rights had to be recognized and guaranteed, but rather as a category of people who needed assistance”294

(Puggioni 2005, 325).

Nel corso degli anni, il sistema asilo ha vissuto una lenta ma costante ascesa nel discorso pubblico, a partire dall'Emergenza Nord Africa che storicamente ha segnato un ritorno del tema asilo e accoglienza al centro degli interessi e dei dibattiti socio-politici.

Il panorama incontrato peraltro in questa indagine, ribadisce costantemente la difficoltà a poter beneficiare delle risorse del territorio prescindendo dall'intermediazione di realtà che a vario titolo si occupino nello specifico del tema rifugio. Il sistema asilo italiano poggia su

293 Prosegue Daniela Di Capua, parlando proprio dell'ampliamento dello Sprar e della presa in carico di persone con disagi mentali: “abbiamo cercato di tutelare queste difficoltà (…) in primo luogo chiedendo che i progetti non abbiano più di otto posti, mentre tutti gli altri progetti possono averne dai 15 in su. Poi prediligiamo i Comuni che gestiscono sia il progetto per disagio mentale che quello per ordinari, in modo che sia già chiaro che l'idea progettuale contenga in sé l'ipotesi che la persona che sta nel progetto per disagio mentale, possa poi trascorrere un successivo periodo nel percorso ordinario” (Intervista 32).

294

"Una attenta lettura delle politiche italiane suggerisce che i richiedenti asilo non erano visti come una categoria di persone per la quale dovevano essere riconosciuti e garantiti diritti specifici, quanto piuttosto una categoria di persone che necessitavano assistenza" (Traduzione mia).

183

basi solidamente ancorate al privato sociale, il quale sin dalle prime esperienze porta avanti un dialogo con il sistema pubblico.

Attraverso l'analisi e la lettura di pratiche e dispositivi applicati nel quotidiano del contesto italiano, è possibile tentare di comprendere quale sia il posizionamento politico a livello macro, cui tali pratiche sottendono.

Il volto di Giano, di cui Habermas e Morris parlano, torna anche nell'analisi del diritto di asilo in Italia, e lo ritroviamo in modo esemplare a partire dal legame tra le istituzioni e gli strumenti dell'asilo, in questo esempio il sistema Sprar, storicamente il più radicato e diffuso a livello nazionale: si pensi alle modalità di recepimento della Convenzione di Ginevra, che demandano ai singoli governi la decisione di sottoscriverla oppure no; la medesima dimensione volontaria si può ritrovare nelle procedure attraverso cui i comuni italiani possono decidere se aderire o no allo Sprar. In entrambi i casi siamo di fronte ad una tensione tra potere ideale e potere reale, tra l'universalità dei diritti umani e il loro effettivo compimento a livello locale; i governi così come i comuni, a rappresentanza della dimensione istituzionale e politica, mantengono il potere di decidere se promuovere il diritto di asilo oppure no. Si vuole precisare che in questa sede, parlando di diritto di asilo, non si intende semplicemente il garantire l'accesso alla procedura e al riconoscimento di una forma di protezione295. Il diritto di asilo viene qui inteso nella sua interezza, quindi oltre a riconoscere una protezione, essa deve poi trovare un riscontro nella vita quotidiana delle persone.

Se la strada verso l'istituzionalizzazione del diritto di asilo in Italia passa da sempre attraverso i canali del privato sociale, è necessario chiedersi, per comprendere il panorama attuale emerso almeno da questo frammento di campo osservato, quanto effettivamente le pratiche portate avanti dai progetti esistenti sul territorio abbiano contribuito allo sviluppo di una coscienza politica del rifugio nelle istituzioni e nei contesti del sistema pubblico. Alla domanda sull'esistenza o meno di una cultura dell'asilo nei contesti istituzionali italiani, la prima risposta che richiede un approfondimento è certamente quella fornita da Daniela Di Capua dello Sprar. Secondo lei la presenza dello Sprar è stata in grado di apportare delle consapevolezze nei territori di intervento, ma riconosce il fatto che ciò è avvenuto sostanzialmente solo in quei medesimi territori, dunque alla luce della presenza di un progetto, almeno sino agli ultimi anni:

"Secondo me per molti anni questa diffusione è avvenuta prevalentemente laddove c'erano dei progetti Sprar, anche perché uno dei compiti previsti dai progetti è proprio quello di fare dei progetti di sensibilizzazione, di informazione. Ha cominciato a rafforzarsi questa conoscenza dopo il 2008, nel 2008 c'è stato il grande afflusso con 32 mila richieste di asilo, sono stati attivati tanti Cara straordinari e quindi li si è cominciato a parlare in maniera più diffusa del sistema di asilo. Per cui, ricevendo anche noi come Servizio Centrale richieste di aggiornamento, di dati, anche da parte di giornalisti, oppure avendo alcune regioni

295

Tanto più che la media italiana rispetto alle quote di riconoscimenti concessi ai richiedenti è di gran lunga maggiore rispetto al resto d'Europa. Eurostat ha pubblicato in data 20 dicembre 2013, l'ultimo report statistico relativo alle istanze di protezione internazionale presentate nei Paesi Membri europei. Secondo tali dati, l'Italia risulta essere uno tra i Paesi che maggiormente concedono una protezione: risultano difatti pari al 37% i dinieghi italiani, assai minori rispetto al 78% della Germania, l'83% della Francia, il 48% della Svezia, il 63% del Regno Unito e il 73% dell'Austria (Bitoulas 2013b, 19).

http://epp.eurostat.ec.europa.eu/cache/ITY_OFFPUB/KS-QA-13-016/EN/KS-QA-13-016-EN.PDF#page=9&zoom=110.00000000000001,0,44 (26 febbraio 2014).

184

cominciato a pubblicare dei propri rapporti regionali sulla questione accoglienza, le informazioni hanno cominciato a diffondersi. Il dossier Caritas Immigrazione ha cominciato a inserire un capitolo dedicato specificatamente allo Sprar. Man mano che i progetti sono aumentati, è aumentato anche l'impatto sui territori e infine la diffusione di notizie ovviamente è esplosa, in maniera esponenziale con l'Emergenza Nord Africa. E sebbene in questo caso il tema venisse presentato in termini negativi, si è iniziato a parlare in termini positivi dello Sprar e quindi si è incominciato veramente a parlare come dell'altra faccia dell'accoglienza, come della direzione in cui andare" (Intervista 32).

Gli anni 2008 e 2011, sono due anni in cui il numero dei migranti forzati che hanno chiesto protezione internazionale in Italia, ha segnato dei picchi storici nell'ultimo ventennio di storia dell'immigrazione nazionale. Questo è un dato da non sottovalutare in una lettura dello sviluppo di quella cultura del rifugio su cui ci si interroga, poiché a questi anni sono corrisposti momenti di un evidente ed elevato interessamento nei confronti di questo tema, a cui si sono affiancanti la nascita di soluzioni emergenziali per la gestione di un fenomeno che era tutt'altro che una emergenza, specialmente se si paragonano i numeri degli altri Paesi europei e se si tiene conto del fatto che l'Italia non può che considerarsi un Paese di approdo, non fosse che per la posizione geografica. In Italia si parla di asilo proprio quando questo assume le dimensioni di un fenomeno che non può restare nella penombra di altri temi, siano essi l'immigrazione, la criminalità, o Lampedusa per fare degli esempi. La sensazione è sempre quella di un improvviso risveglio notturno; il fatto che ciò avvenga ripetutamente e sempre alla medesima ora pare non destare dubbi sul fatto che non sia un evento occasionale, ma una costante.

La generalizzazione che accompagna la categoria dei rifugiati in Italia, in sostanza, è quella di affiancarla troppo spesso al concetto di emergenza. Ciò si ripercuote anche sulle scelte e le politiche di intervento in tema di accoglienza e accesso ai diritti sociali.

Uno dei rischi principali è quello di dare vita a pratiche basate su approcci assistenzialistici, che rappresentano la più immediata risposta ad una condizione di emergenza. In questi decenni, peraltro, e in consapevole contrasto con una visione last minute della migrazione forzata, si sono sviluppate numerose esperienze positive e professionalizzanti a livello nazionale. Il problema però torna ad essere sempre quello di una differenziazione capillare tra queste esperienze, e la sostanziale difficoltà a passare dalla dimensione del progetto a quella del servizio296. De Bonis dell'Unhcr sottolinea proprio questo aspetto:

“(…) il sistema dell'accoglienza nel suo complesso andrebbe rivisto; nella notizia dell'ampliamento secondo me sono due gli aspetti che noi vediamo positivamente: uno, l'ampliamento in sé è ovvio che è un dato positivo; e due l'investimento nell'ampliamento nel sistema Sprar piuttosto che nel sistema Cara, anche questo è un aspetto che noi vediamo molto positivo (…). Il punto qual è, che il dato dei 16 mila posti, che possono essere portati a 24 mila eccetera, ed è un po' l'aspetto di debolezza se vogliamo del sistema, non nasce da una pianificazione, è questo l'aspetto che noi pensiamo che manchi, che in qualche modo riteniamo opportuno che sia introdotto, cioè che il limite grosso del sistema di accoglienza nel suo complesso è stato in questi anni l'assenza di una pianificazione” (Intervista 34).

296 Questa riflessione scaturisce da colloqui informali avuti con Gianfranco Schiavone. E' importante sottolineare che le dimensioni dei progetti e dei servizi non sono due entità separate, quanto piuttosto due ambiti in costante dialogo, e uno dei principali rischi, come peraltro è stato possibile vedere in questa etnografia, è quando avviene una sostituzione del privato con il pubblico.

185

Il rifugio in Italia pare doversi confrontare continuamente con la conferma di una assenza, ovvero quella del riconoscimento stesso della sua presenza.

Ritorna in questo discorso ciò che poi va a costituire la quotidianità dei progetti e i rapporti tra gli operatori e i rifugiati-ospiti, ed è una commistione tra pubblico e privato che non consente di far emergere e affermare la prospettiva politica del fare accoglienza; è come se mancasse una visione d'insieme, una mission:

“l'aspetto umano serve, aiuta perché l'aspetto umano cancella le barriere, cancella i limiti che possiamo avere per poter affrontare la realtà, (...) però l'aspetto umano non basta (…); io mi son sempre chiesto “Sono le persone che non sanno fare rispettare ciò che è previsto o non è previsto nulla?” (Louis, Intervista 39).

La domanda che Louis si pone suona quasi retorica, dal momento che vi è la consapevolezza che a determinati diritti non corrispondono certezze. Tra i fattori che hanno portato ad uno sviluppo tanto frammentato, Beneduce indica anche l'assenza di una supervisione sulle esperienze capillarizzatesi a livello nazionale:

“il privato sociale è una zona che è andata espandendosi in modo vertiginoso in questi anni. Non necessariamente perché nel sociale ci fossero lieviti e risposte nuove a queste domande di cura; spesso l'espansione del privato sociale ha corrisposto al ritrarsi delle istituzioni e più in generale dello Stato da ampi settori della vita sociale, con preoccupanti fenomeni di delega (penso al sistema carcerario negli Stati Uniti). Lo Stato ha così delegato interventi complessi ad altri soggetti, ma anche rinunciato a esercitare, come invece avrebbe dovuto, un controllo sulla qualità delle risposte date ai problemi del disagio, ai problemi dell'assistenza o ai problemi dell'educazione” (Intervista 35).

Schiavone, infine, fa emergere un elemento che si può considerare di focale importanza, e strettamente connesso con l'assenza di controllo di cui ha parlato Beneduce. A fronte del recente ampliamento dello Sprar, di fatto il governo non ha fornito alcuna motivazione politicamente situata che facesse trasparire una impostazione consapevole che l'Italia è un Paese di asilo:

“Il fatto che il sistema adesso sia già a pari numero di posti con il sistema Cara, e il fatto che si preveda un ampliamento che dovrebbe portarlo ad essere di gran lunga il sistema maggioritario, è un passo avanti rispetto alla situazione passata che fa capire che c'è una comprensione maggiore. Forse non c'è consapevolezza, perché in realtà non c'è nessuna dichiarazione politica in questo senso, e neanche una dichiarazione politica sbarra tecnica. Il silenzio totale sulle motivazioni di questo cambiamento; però di fatto si capisce che dietro c'è una maggiore comprensione rispetto al passato da parte del Ministero degli Interni sul fatto che l'accoglienza diffusa, in realtà, è di gran lunga preferibile” (Intervista 31).

Mancando ancora oggi una legittimazione politica del diritto di asilo, l'immagine che si va rispecchiando è costantemente afflitta dal paradossale varco che separa lo status di rifugiato da quello di cittadino.

Le categorie della cittadinanza e del rifugio, in questa indagine e come già indicato precedentemente, non sono state considerate come sole categorie giuridiche, ma come Ong (2005) ci ricorda, ovvero quali processi attraverso cui l'individuo si relaziona con il proprio sé a seconda dell'ambito di potere in cui si trova.

186

Le narrazioni degli operatori, dei coordinatori, dei rifugiati e del campo osservato hanno contribuito a delineare la forma di un terzo spazio immaginario – la già citata refugeezenship - al cui interno il paradossale viene ricollocato proprio per non soccombere alle sue dinamiche di potere. In questo spazio si sono trovate quelle componenti contraddittorie e talvolta violente di un quotidiano costituito da alternanti consapevolezze e ammutolimenti; per dirla con Kleinman e Kleinman, "the official silence is another form of appropriation. It prevents public witnessing. It forges a secret history, an act of political resistance through keeping alive the memory of things denied"297

(1996, 17).

Il sistema-rifugio impone ai rifugiati di rivestire il ruolo idealtipico di rifugiati-ospiti, mettendo costantemente in atto disvelamenti e atti di fiducia, chiedendo di adeguarsi ai contesti di accoglienza barattando spesso la propria dignità298 con pratiche di infantilizzazione o di etichettamento, a fronte delle asimmetrie all'interno delle relazioni tra operatori e utenti. Nel retroscena del ruolo di rifugiati-ospiti peraltro si celano ricorrenti dichiarazioni e dimostrazioni di sfiducia verso il sistema asilo, e la conseguente attivazione di vere e proprie strategie di self-help per far fronte alle molteplici aspettative, bisogni, scelte e necessità, che investono le vite personali e collettive dei rifugiati. La fragilità del sistema asilo provoca cortocircuiti che contribuiscono alla ripetizione di quella deumanizzazione di cui Mallki parla, che in questa etnografia si ritrova nella rabbia di chi è costretto a vivere "come animali” (Note di campo, gennaio 2014), in un limbo di silenzioso abbandono, dove l'assenza di una propria collocazione può condurre alla morte sociale e a quella fisica. Anche quando i progetti attuano efficaci pratiche di supporto per i rifugiati, quando gli operatori riconoscono che i rifugiati sono portatori di una propria agency e si creano relazioni positive, vi è il perenne confronto con la cognizione di essere impotenti di fronte ai limiti che impongono da un lato le politiche dell'asilo e dall'altro i silenzi delle istituzioni. Agli operatori viene richiesto un approccio quasi olistico nella relazione con i rifugiati; se si fa riferimento al manuale Sprar299, l'operatore dovrebbe avere delle competenze relazionali e di mediazione ben definite; quello che emerge di fatto, se si ripensa al confronto con l'emersione delle vulnerabilità, è invece una evidente lacuna formativa a detta degli stessi operatori che non si sentono in grado di potersi relazionare con determinate situazioni. E anche quando i progetti vengono specificatamente dedicati alle situazioni più gravi, sono sempre gli operatori che raccontano dell'insufficienza del loro ruolo a poter fornire risposte adeguate. L'operatore racconta di un percorso solitario, in cui si scontra con i limiti del sistema pubblico, con i limiti della relazione con i rifugiati, con i limiti delle sue possibilità di intervenire e in varie occasioni con i limiti delle sue stesse competenze.

Se da un lato dunque i rifugiati rappresentano i soggetti attivi che incorporano le contraddizioni della stessa categoria di cui sono portatori, essi si confrontano con altri soggetti che rivestono a loro volta ruoli incerti. I rifugiati individuano negli operatori i portavoce delle istituzioni che, come già ribadito, sono spesso distanti; al contempo però sono le istituzioni stesse i mandanti di una richiesta di presa in carico, in cui gli operatori

297

“Il silenzio ufficiale è un'altra forma di appropriazione. Esso dalla impedisce la pubblica testimonianza. Esso forgia una storia segreta, un atto di resistenza politica mantenendo in vita la memoria di cose rinnegate” (Traduzione mia).

298

La dignità è un termine ricorso in molteplici occasioni durante sia le interviste che l'osservazione di campo; i rifugiati incontrati raccontano spesso il divario tra le priorità nel Paese di origine e quelle trovate in Italia, dove per la prima volta devono confrontarsi quotidianamente con la preoccupazione di trovare cosa mangiare e dove dormire.

299 Cfr. Manuale Operativo dello Sprar: http://www.serviziocentrale.it/file/pdf/manuale.pdf (03 marzo 2014).

187

devono affiancare i rifugiati nel districarsi tra le maglie delle complessità burocratiche per accedere ai propri diritti. Questa investitura degli operatori però non scaturisce da un dettame istituzionale, proiettando dunque anche sulla dimensione micro il dualismo di Giano, che mostra i suoi due volti nel lavoro degli operatori: un volto è l'immagine idealtipica del ruolo degli operatori intesi come il canale attraverso cui implementare il raggiungimento dei diritti dei rifugiati; l'altro volto sta nelle delusioni e nelle difficoltà che si trovano a confrontare e condividere con i rifugiati.

La refugeezenship è il risultato di una reazione al costante tentativo di depoliticizzazione e di non-istituzionalizzazione apportato al sistema asilo, in cui le persone oscillano tra le categorie del rifugio e della cittadinanza. Il paradosso che si insinua in questo spazio è la ricorrente sensazione che gli attori recitino coi volti scoperti e le maschere in mano, da indossare all'occorrenza, in una sorta di tacito accordo.

Alla domanda se in Italia si sia sviluppata una cultura dell'asilo, la risposta è evidentemente, non ancora:

“sì, l'ho visto quando stavo in Finlandia tante persone, tante anche ho conosciuto tante persone ragazzi ragazze tutti, comunque anche mi hanno spiegato com'è in Finlandia però non sono uguali Italia e Finlandia. Perché loro stanno bene e loro sono come cittadini della Finlandia, perché ho visto anche tante persone che stanno in Finlandia otto anni già hanno preso cittadini. E allora, perché Finlandia aiutano le persone perché tu quando non hai impronte digitali un altro Paese pensano come migliorare la tua vita, come diventare come loro e quando prendi documenti ti mandano a scuola, se tu vai anche un collegio per continuare a studiare ti mandano anche quella scuola e dopo ti danno una casa, dopo ti aiutano come trovare a lavoro, se tu stai quasi otto anni diventi anche cittadino. Allora, il problema in Italia io l'ho visto! Tante persone stanno in Italia 20 anni, 11 anni, ancora non hanno diventati cittadini Italia, ho vista tante persone. (...) Però purtroppo io prime impronte digitali le ho prese in Italia comunque non lo so in futuro come riuscirò o a andare via, o a restare in Italia (sorride) perché quando io vedo una persona sta qua tanti anni e sempre a volte trova lavoro, a volte non trova lavoro e non può andare via e non ha documenti cittadino italiano e il suo tempo lo ha perso in Italia” (Mise, Intervista 38).

189

CONCLUSIONI

Il paesaggio osservato in questa ricerca è attraversato da molteplici dimensioni.

Le ipotesi individuate, sebbene passino per strade diverse si incontrano in un comune punto di arrivo, ovvero in quel senso di incertezza e di paradossale insensatezza che divengono i due elementi principi nel contesto del rifugio italiano. In queste pagine finali si propone di ripercorrere le ipotesi individuate, riflettendo sul campo osservato e le conclusioni che da esso scaturiscono.

In questa indagine è stata interpellata l'esperienza di quel particolare settore che riguarda l'ambito dell'accoglienza dei rifugiati in Italia. A livello storico e nazionale l'impostazione che il sistema-rifugio ha relegato per la gestione dell'accoglienza di persone rifugiate, poggia da sempre su esperienze dove risulta centrale il ruolo di singoli operatori che lavorano a stretto contatto con le vite quotidiane delle persone accolte.

Nei contesti del rifugio l'individuo è costantemente posto in relazione con il processo di labelling, secondo cui il rifugiato – categoria qui considerata non solo giuridicamente ma più

Nel documento Abitanti di uno spazio (pagine 182-197)