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82 6. Dentro i confini del rifugio

Nel documento Abitanti di uno spazio (pagine 82-85)

Dalla descrizione proposta nel presente capitolo emerge quanto l'Italia sia un Paese che non ha da poco a che fare con il tema del diritto di asilo; tutt'altro, la storia legislativa e quella dell'accoglienza mostrano una presenza costante, che però è al tempo stesso destinata a passare molti anni nella penombra, ai margini della pratica e spesso del diritto.

Si pensi ad esempio alla lunga attesa per giungere al superamento della limitazione geografica prevista dalla Convenzione di Ginevra; alla frammentarietà nell'organizzazione a livello nazionale dei percorsi di accoglienza che vanno dai grandi centri allo Sprar sino ad interventi spot come è stata l'Emergenza Nord Africa; si pensi alla precarietà che si può trovare anche in quegli ambiti, come il diritto alla salute, seppur notoriamente fondati su un approccio universalistico che si identifica in una buona pratica nazionale a garanzia di un diritto fondamentale. Ma anche se il rifugio è rimasto a lungo nelle zone d'ombra degli interessi di politiche e delle riforme (ciò non vale per i momenti di crisi o emergenza), esso va assumendo un piano crescente di importanza che necessita un approfondimento, al fine di interpretarlo.

I diritti sociali di cui sono titolari i rifugiati trovano una frastagliata ed irregolare applicazione nel quotidiano, andando di fatto a creare un confine scivoloso nel passaggio da rifugiato a cittadino. Come anticipato nel corso del Primo Capitolo, lungo questo confine si innescano soluzioni e proposte per tentare in ogni modo di ottenere il raggiungimento di un diritto, quale il possedere una casa o il potersi curare, e nel fare ciò si presentano delle altre quotidianità, fatte di contrattazioni, di scontri, di negoziazioni non solo burocratiche ma anche identitarie199

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Il rifugiato che giunge in Italia si porta dietro le esperienze traumatiche delle persecuzioni subite, del viaggio - in molti casi quasi più violento delle esperienze vissute nello stesso Paese di origine; il corpo diviene il luogo in cui tali esperienze sono impresse e da cui si può trarre una legittimazione alla protezione. Parlando dunque di traumi in fieri, una sociologia del rifugio, come questa qui proposta, si vuole concentrare sulle varie fasi di produzione e perpetrazione di un trauma, ma in particolar modo su ciò che avviene nel momento post-migratorio. Vacchiano (2005, 97), raccontando la sospensione dei cittadini-rifugiati da lui incontrati, sostiene che:

“ciò che colpisce nelle parole e nei racconti di molti rifugiati è il senso di straniante continuità che l'esperienza della violenza assume nel passaggio fra paesi d'origine e contesti di accoglienza. (…) E' una violenza d'impronta strutturale e categoriale, che genera marginalità e sofferenza in modi non così differenti da quelli sperimentati prima della migrazione”.

Basaglia individua due tipologie di guerre; da un lato quella prodotta dagli imperialismi e dai movimenti a essi antagonisti; dall'altro "la guerra di pace, con i suoi strumenti di tortura e i suoi crimini, che ci va abituando ad accettare il disordine, la violenza, la crudeltà della guerra come norma della vita e della pace" (1975, 82). I crimini di pace si perpetuano

199 Il concetto di identità viene qui considerato portatore di fluidità (Bauman 2003) e dinamismo (Signorelli 2007), dove lo spazio e il tempo definiscono i confini e la continuità del soggetto agente (Melucci 1991). Maalouf (2005) sostiene che l'identità è prima di tutto "una questione di simboli e di appartenenze” (Ibidem, 112), ma egli sottolinea anche la mutevolezza dell'identità, come bisogno basilare della globalizzazione.

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all'interno delle istituzioni pubbliche di cui la quotidianità del mondo si fornisce, per garantire "l'ordine e la difesa dell'uomo" (Idem).

La gestione delle immigrazioni attraversa la creazione di rinnovate forme di istituzioni totali (Goffman 2003), come lo sono i grandi centri in cui il migrante è libero di uscire ma sostanzialmente bloccato nella disinformazione e nella non attuazione dei diritti di cui dovrebbe godere - ad esempio i Cara; proiettando l'attenzione al quotidiano descritto da chi si trova a vivere per lunghi periodi all'interno dei Cie, emerge quanto le dinamiche che Goffman individuava nei contesti da lui indagati, si ripetano in questi luoghi caratterizzati sostanzialmente dall'impossibilità a un qualsiasi “scambio sociale” (Ibidem, 34).

Volendo osare una parafrasi della teorizzazione del sociologo canadese, si potrebbe sostenere che vi sono momenti nella vita dei rifugiati che vivono la fase dell'approdo prima e del rifugio poi, che si impongono alla vita sociale del rifugio come delle vere e proprie istituzioni totali, poiché il sistema-rifugio diviene una sorta di gabbia al cui interno vi sono dinamiche che impediscono l'uscita (ad esempio la paradossale obbligatorietà dettata dal regolamento Dublino II a risiedere in Italia da un lato, e la controversa possibilità di effettivo accesso alla residenza, dall'altro). In questo contenitore sociale, sempre percorrendo la parafrasi del lavoro di Goffman, si instaurano relazioni di squilibrio tra i soggetti che vi sono inglobati.

L'antropologa inglese Mary Douglas sostiene che "le istituzioni si inseriscono saldamente in una struttura basata su un'analogia col corpo" (1990, 86). Il concetto di analogia è utilizzato dall'autrice per spiegare come nascono le istituzioni200

, nello specifico come proprio dalle analogie, le istituzioni si formino alla luce del bisogno di un "principio di stabilizzazione" (Ibidem, 85), che le tuteli dalla scomparsa e che consiste nella "naturalizzazione delle classificazioni sociali" (Idem). La società trova le sue fondamenta non tanto nell'utilitarismo, quanto nella durkheimiana visione del conflitto tra individuo e società che associa al pensiero individuale origini sociali (Ibidem, 36); l'autrice stessa sostiene difatti che "la teoria della scelta razionale soffre di limiti pesanti. La gente non sembra comportarsi secondo i suoi principi (Ibidem, 46) ma secondo necessità di ordine soggettivo che rispecchiano il bisogno di coerenza e di superamento di ogni forma di incertezza. Ed è proprio nella ricerca di tali sicurezze che sono prodotte "convenzioni" (Ibidem, 81) che avranno un valore condiviso e riconosciuto solo a seguito della produzione parallela di nuove convenzioni, dunque di analogie, che ne permettano la trasformazione in una "istituzione sociale legittima" (Ibidem, 82). Il carattere fondamentale però di queste analogie sta nella loro natura non socialmente prodotta ma socialmente accettata poiché derivante da elementi naturali; le analogie sono degli strumenti il cui ripetersi alimenta e rinforza i contesti in cui si riproducono. Attraverso di esse dunque l'istituzione è naturalizzata e legittimata:

"le istituzioni orientano in modo sistematico la memoria degli individui e incanalano le nostre percezioni entro forme compatibili con le relazioni da esse

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Per istituzione Douglas intende un "(...) raggruppamento sociale legittimato. L'istituzione in questione può essere una famiglia, un gioco, o una cerimonia." (1990, 82-83). Il testo nasce dalla tesi secondo cui "il calcolo mezzi-fini presuppone un corpo di conoscenze sulla base delle quali calcolare, la cui creazione e mantenimento sono analoghi a quelli di un bene pubblico. Tuttavia, è impossibile decidere razionalmente di non prender parte all'azione collettiva che permette di costituire, sostenere e tramandare un sistema di conoscenza, perché non si può stabilire il costo della partecipazione prima di aver acquisito le conoscenze che ci servono per calcolare e decidere. La possibilità di pensare individualmente risiede insomma su una pre-esistente conoscenza comune istituzionalizzata (...)" (Giglioli in Douglas 1990, 13).

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stesse autorizzate. Esse fissano processi che sono essenzialmente dinamici, celano la loro influenza e suscitano le nostre emozioni ad un livello prefissato su temi stabiliti. Infine, le istituzioni si fregiano dell’attributo della giustizia e si rinforzano reciprocamente, in maniera capillare, a tutti i livelli del nostro sistema d’informazione" (Ibidem, 42-43).

Douglas offre come esempi di analogie la relazione complementare tra mano destra e mano sinistra e lo svilupparsi di numerose altre relazioni a due quali maschio e femmina, re e popolo, nord e sud, riconoscendo una naturale predominanza del lato destro del corpo su quello sinistro (Ibidem, 86). Volendo proseguire con altri esempi, vi potremmo trovare corpo sano e corpo malato, cittadino e non-cittadino o altrimenti - secondo il paradigma arendtiano - anche cittadino e rifugiato.

Il sistema-rifugio può essere descritto quale sistema inserito in un percorso di istituzionalizzazione. La storia del diritto di asilo nasce dalla sacralità dei luoghi in cui i fuggitivi si nascondevano, dunque da una presenza naturale (e sovrannaturale) che proteggeva gli esuli. Oggi questa naturalizzazione e legittimazione deriva dai diritti umani intesi come norme che aprono le porte a una cittadinanza cosmopolita, che si scontra costantemente con l’ancora presente sovranità nazionale nella gestione e nella pratica, come dimostrato dalle contraddizioni che stanno alla base delle vite dei rifugiati, la produzione dei label del rifugiatio, e la ripetizione delle analogie che accompagnano la contrapposizione tra diritti de jure e diritti de facto.

Parallelamente, come il corpo non è solo sociale e politico ma anche individuale, così anche le istituzioni non hanno solo un ruolo classificatorio su cui gli individui non hanno alcun tipo di influenza o potere, e come Douglas si domanda: "In che modo potremmo pensare a noi stessi nella società, se non utilizzando le classificazioni stabilite all'interno delle nostre istituzioni?" (Ibidem, 152).

Da qui il focus di questa indagine che, riprendendo le parole di Sorgoni, verte sul "processo di istituzionalizzazione e del ruolo dei soggetti istituzionali (...) nel riconoscere e al contempo forgiare una particolare categoria di soggetti - i rifugiati - attraverso politiche e pratiche quotidiane di ricezione, verifica e accoglienza (...)" (2011, 25).

Gabriele Del Grande (2009, 153-154) accompagna il suo libro "Il Mare di Mezzo", attraverso il contributo di Giorgio Gaber, "Sogno in due tempi, E pensare che c'era il pensiero" del 1994 e se ne ripropone un estratto di seguito:

"Ecco, si, ce l'ho fatta: l'acqua, il mare, le onde... giusto... un uomo su una zattera, giusto... un altro che nuota, arranca, annaspa disperato, sento il cuore che mi scoppia. Oddio... che succede? Sono io...sono io quello che nuota. No, io ero quell'altro eh! Non è giusto, non è giusto! A me piaceva di più stare sulla zattera! Ma quale dubbio morale, ho le idee chiarissime! Sono per l'accoglienza! Un ultimo sforzo, la zattera è a cinque metri, quattro, tre... Alzo la testa verso il mio salvatore...Eccomi! PUMM! Dio, che botta. A questo punto mi sono svegliato di nuovo. Mi basta così. Non voglio sapere altro. Spero solo che non sia un sogno ricorrente".

L'osservazione e l'analisi delle etichette prodotte all'interno e dal sistema-rifugio consentono di comprendere se stessi, la società in cui si vive e di leggere, attraverso i meccanismi di etichettamento, quali sono le analogie su cui il rifugio stesso trova legittimazione e su quali classificazioni le persone si basano per vivere dentro un contesto tanto mutevole quanto istituzionalizzante.

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Nel documento Abitanti di uno spazio (pagine 82-85)