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Pensare il diritto alla salute

Nel documento Abitanti di uno spazio (pagine 130-140)

NELLA CICLICITÀ DEL RIFUGIO

5. Pensare il diritto alla salute

Prima di introdurre l'esperienza di campo nata da questa indagine, si ritiene necessario un piccolo cappello introduttivo alle riflessioni che si immetteranno assieme alle vicende esperite e narrate.

A fianco delle narrazioni e delle sofferenze dei rifugiati, vi è il loro corpo; portatore di ricercate verità e di silenzi imposti. Nell'approcciare i contesti entro cui i rifugiati si relazionano con il sistema-rifugio e la salute, trova una sua collocazione la riflessione che Ong utilizza come premessa per affrontare la sua personale esperienza nella medesima dimensione; introduzione che riproponiamo in questa sede come valido punto di riferimento. E' con queste parole che l'autrice introduce il piano analitico del legame tra rifugiati e medicina:

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“non c'è dubbio, dunque, che per i rifugiati cambogiani – che fuggivano dalla regola della morte – gli Stati Uniti rappresentassero la terra della libertà assoluta; tuttavia quegli stessi rifugiati avrebbero finito per rendersi conto che anche il potere di uno stato democratico esercitava una presa sul corpo, una presa benevola certo, ma al tempo stesso disciplinare. La modernità e la democrazia esercitano il proprio dominio attraverso l'amministrazione della quotidianità e attraverso la sorveglianza sui corpi individuali e sul corpo sociale, adattandoli entrambi a gerarchie normalizzanti” (Ong 2005, 87-88. Corsivo mio).

Pensare al rifugio in relazione al diritto alla salute, dunque, non può prescindere dal tenere conto della dimensione impari che si viene a creare nelle dinamiche di relazione tra chi accoglie e chi è accolto. I corpi dei rifugiati, una volta giunti in Italia, percorrono sentieri plurimi, in cui la bilancia della performance identitaria si piega il più delle volte alle scelte di altri in virtù di se stessi, in sintonia con il contesto della contrattazione in cui il rifugiato per definizione si inserisce.

Citando nuovamente Ong:

“Lo sguardo biomedico finisce pertanto per non essere un potere così egemonico e diffuso, ma un fenomeno generato da una lotta lunga e difficile con la quale i soggetti rifugiati-immigrati perseguono i loro obiettivi e i loro bisogni all'interno del labirinto burocratico (...)” (Ibidem, 90).

Nell'attraversamento delle esperienze a cavallo tra pratiche di rifugio e di cittadinanza, si è voluto qui brevemente riportare l'attenzione a quelle stesse premesse teoriche che hanno caratterizzato tutto il percorso di questa indagine. Ovvero da un lato una consapevolezza del potere insito nei sistemi statali e burocratici di influenzare lo sviluppo politico delle pratiche quotidiane; dall'altro la lucidità dei corpi sofferenti, dietro cui vi sono persone portatrici, oltre che di narrazioni violente, di Storia.

5.1 Il “dottore” dentro ai progetti

Nel momento in cui una persona entra all'interno di un progetto, tra i documenti che vengono ritenuti fondamentali vi è la tessera sanitaria e la conseguente iscrizione al Sistema Sanitario Nazionale. I rifugiati solitamente vengono orientati o affiancati dagli operatori che lavorano all'interno dei progetti, al cui interno verrà prediletto un approccio a seconda sia del tipo di progetto, sia del tipo di territorio a cui ci si rivolge.

Il bisogno di accedere al diritto sanitario ricopre, tuttavia, un posto ambiguo nella lettura del percorso dei rifugiati. Ciò su cui ci si interroga, una volta ascoltate le parole di chi lavora quotidianamente nei progetti, è quale sia il confine tra i bisogni di un sistema di accoglienza e quelli di chi ne beneficia. I progetti, oltre ad orientare gli ospiti verso l'accesso al diritto alla salute, attivano anche pratiche legate strettamente ad un bisogno di salute che, a parere di chi scrive, rimanda molto più ad esigenze dei progetti stessi, piuttosto che dei migranti.

In alcuni progetti, in particolare in alcuni Sprar, è stata rilevata la prassi di effettuare uno screening sanitario dove a volte vi è un controllo delle malattie infettive. Ci si domanda al tempo stesso, quale sia la percezione che i rifugiati hanno rispetto a questo genere di pratiche, se viene loro effettivamente spiegato cosa stanno facendo, se gli viene domandato se sono d'accordo sul fare un determinato genere di controllo, o se è una pratica data per

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buona. Non stupisce il fatto che, in molti racconti, sia proprio il reparto di malattie infettive uno di quegli interlocutori afferenti alla sanità pubblica più familiari con i progetti, e con i quali è più facile stabilire protocolli anche di tipo informale, che consentono un accesso più fluido ai servizi. Come nel caso delle relazioni con i reparti di malattie infettive, nella costruzione delle relazioni che intercorrono tra i soggetti del pubblico e del privato – in questo caso i progetti - è in generale riscontrata, quasi fosse una sorta di prassi, la costante ricerca e la selezione dei riferimenti nel pubblico sanitario, sottolineando un bisogno costante di trovarsi di fronte a soggetti professionali che siano a conoscenza delle necessità e peculiarità dei pazienti rifugiati.

Ad esempio, nel caso del medico di medicina generale, ovvero il medico di base, in molte situazioni viene raccontato come vi siano dei contatti storici sui territori, a cui il progetto si rivolge in maniera sistematica, essendo queste figure ormai sensibilizzate e informate sull'esistenza del tal progetto: “per la scelta del dottore abbiamo cercato con il tempo le persone più disponibili, quelle che hanno più capacità di ascolto” (Intervista 18).

Il legame che intercorre tra sistema sanitario pubblico e progetti del privato sociale, racconta di come vi sia una direzione particolare nella sua costruzione: risulta più comune incontrare esperienze dove il privato si immette nel pubblico, o al massimo dove è il pubblico che in veste “privata” si relaziona con il privato, piuttosto che la situazione opposta, in cui è il pubblico a stabilire di sua iniziativa legami con il privato sociale che conosce più da vicino le caratteristiche e le specificità di un ambito come quello della salute dei migranti forzati.

Un primo esempio riguarda il fatto che alcuni progetti hanno beneficiato per determinati periodi storici del loro operare, della presenza di medici volontari che si recavano presso le strutture di accoglienza, in taluni casi, proprio svolgendo attività di controllo e consulenza. Dalle esperienze raccontate dai progetti, si trattava in molti casi di medici già in contatto con l'ente gestore, di cui magari erano soci piuttosto che simpatizzanti.

Dal racconto di queste relazioni emerge la ricerca di un legame – quasi personale – di fiducia quale elemento che garantisca un certo livello ed una sicurezza nell'accesso al diritto alla salute. Alcuni operatori infatti raccontano di come l'accesso al sistema sanitario sia fortemente legato a “quale sportello vai, chi ti trovi davanti e la sensibilità e la persona che ti trovi davanti” (Coordinatrice Sprar, Intervista 10), nel momento di porgere una richiesta di qualsiasi tipo inerente il diritto di asilo, “perché io qua o trovo le persone competenti, o comunque che ti stanno ad ascoltare, o delle persone che un po' sono chiuse” (Operatrice Sprar, Intervista 20), e tra le motivazioni fornite vi è “una scarsa informazione” (Ibidem). Se emerge dunque questa componente individuale, è proprio nei percorsi di accesso a questo diritto che risulta centrale la presenza degli operatori. In tutti i casi contattati è prevista la presenza di figure professionali che supportino il rifugiato nelle fasi di accesso al sistema sanitario, sia nel caso in cui il progetto la preveda quale prassi, come negli Sprar e nei progetti Ena, sia nei casi di richieste dettate da un bisogno particolare, come nelle esperienze del Centro Polifunzionale.

In alcuni casi gli operatori per primi, riconoscendo l'arbitrarietà insita nei rapporti che si instaurano o tra il singolo operatore e un servizio, o tra un singolo progetto e un servizio, descrivono lo svilupparsi di zone incerte ed in un certo senso, si potrebbe dire, ghettizzanti, in cui l'accesso ad un diritto è condizionato dalla presenza di un intermediario riconosciuto: “io ho fatto in trecento mila modi diversi per avere una esenzione. In un posto mi chiedevano una cosa, in un posto quell'altra, alla fine ti adegui, ma se ci mandi un ospite da solo non ci leva le gambe, tante volte non ce le ho levate io” (Operatrice Sprar, Intervista

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13). E' in queste zone incerte che si può riconoscere lo svilupparsi di un modello idealtipico (Marras 2009, 83), un label (Zetter 1991; 2007) necessario al fine dell'ottenimento di un diritto, ovvero quello di rifugiato-ospite261. Questo non significa che i rifugiati senza l'aiuto degli operatori non sono in grado di agire in autonomia; ma la presenza di figure che mediano con il pubblico risultano essere un percorso privilegiato, sia dai progetti che in molti casi dai rifugiati stessi.

Ai fini di comprendere la dimensione che si crea in queste quotidianità, è interessante soffermarsi anche su come gli operatori, spesso con specifica qualifica di operatore per l'accesso alla salute, raccontano il rapporto che i rifugiati ospiti hanno con il sistema medico con cui si relazionano, come nelle parole di questo operatore Sprar intervistato:

“E loro confrontano sempre quelli che sono i metodi… Di medicina dei loro paesi e quelli nostri. Quindi la maggior parte di loro dicono la famosa frase: eh ma questo non capisce bene, non capisce nulla, non capisce nulla questo dottore. Perché loro, in modo particolare, vivono il farmaco come una soluzione imminente, per cui il dottore se non gli prescrive una medicina, secondo loro il dottore non capisce nulla. Oppure se gli prescrive una medicina, secondo loro prendono una Tachipirina per il mal di testa e gli deve passare subito. Hanno una visione un po' strana, della medicina” (Intervista 17).

Dalle parole dell'operatore, si riporta di seguito la narrazione di Pascaline, che racconta come è iniziata la sua esperienza italiana nelle relazioni coi medici:

“(…) Lì c' è *il medico+ perché loro hanno messo in un container, perché era un centro di accoglienza e erano fuori. Quindi per andare lì esci dalla tenda e vai a fare la coda; entri e loro ti chiedono, perché ci sono persone che parlavano francese, arabo e anche altre lingue, ti chiedono: "dove ti fa male? Hai la tosse?", perché io avevo vertigini, non so come si chiama in Italia, quando mi alza, mi gira la testa; era freddo quindi mi hanno dato tante pasticche, anche in questo momento mi prudeva anche la pelle, mi hanno dato anche una crema per far idratare la mia pelle perché l'acqua di Libia e qua non sono uguali, quindi io sono un po’ allergica; da lì che abbiamo iniziato ad andare dal dottore. Ma per andare lì avevamo i ticket, dove erano scritti i numeri, io avevo quarantuno e mio marito quarantadue se non mi sbaglio, si porta questo biglietto e anche prendi per mangiare; anche i vestiti. Vai con il tuo ticket, loro guardano la lista, se tu anche per dare l'acqua, la frutta, tutte le cose; vai con il tuo ticket, guardano e poi ti danno cosa ti serve” (Intervista 36).

Mettendo a fianco i racconti di queste due esperienze, non si può fare a meno di riflettere sulle responsabilità del sistema-rifugio stesso nel saper accogliere i rifugiati, oltre che materialmente, anche nella comprensione del contesto in cui sono giunti, tra cui il sistema socio-sanitario nazionale.

I grandi centri che accolgono per lunghi periodi di tempo i migranti forzati giunti in Italia, raccontano un certo tipo di accesso al diritto alla salute; quello delle medicine, dei tranquillanti, degli antidepressivi, delle pasticche, delle numerazioni. Non parlano di colloqui individuali con mediatori formati, di percorsi di emersione delle vulnerabilità, di accesso alle strutture sanitarie fornite di canali comunicativi adeguati alle particolari esigenze di persone

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In questa sede si decide di utilizzare il concetto di “ospite” abbinato alla categoria di rifugiato poiché è lo stesso sistema-rifugio, in particolare attraverso i testi dello Sprar, che definisce i propri utenti, o beneficiari, come degli “ospiti”. (Cfr. Manuale operativo Sprar op.cit.).

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che, in quanto rifugiati sappiamo essere spesso portatori di quelle esigenze particolari262

riconosciute a livello giuridico dalle stesse istituzioni europee. Ciò nonostante, tra le criticità rilevate tra molti intervistati nell'accesso ai servizi sanitari vi sono “in primis la mancanza di personale all'interno degli ospedali, dei presidi sanitari, dei consultori: dei mediatori” (Operatrice Sprar, Intervista 12).

La necessità di una presenza quale la figura dell'operatore induce a porsi una domanda, ovvero quale peso abbia la consapevolezza dimostrata dal sistema pubblico in merito alla presa in carico dei rifugiati, a fronte di una modalità storica del sistema asilo italiano di attivare pratiche di accoglienza per rifugiati. Detto altrimenti, la costante presenza di un operatore che connette il rifugiato al proprio diritto, è il risultato delle pratiche attivate dal terzo settore negli anni Novanta con l'inizio dei primi progetti sull'asilo, o è la costante risposta degli operatori del rifugio, ad una serie di falle sistemiche del settore pubblico che ancora non trovano una loro risoluzione?

Quotidianamente c'è chi si confronta con le richieste, le frustrazioni, le difficoltà incontrate dai migranti forzati che popolano i servizi pubblici, a fianco di operatori del pubblico e del privato, e ciò che affiora è la presenza, come sottolinea Benedetti,

“di incomprensibili, cortocircuiti amministrativi-burocratici (…). I rifugiati sono una cartina di tornasole di tutti i disagi che noi viviamo (...) [e] amplificano tantissimo il senso di separazione, di angoscia, di sentirsi diversi e questo in loro genera dei disagi (…); non si può dividere con l'accetta sanità e sociale quando si parla di salute” (Intervista 33),

quindi da ciò che riguarda le vite quotidiane dei rifugiati.

5.2 “Il dottore” fuori dai progetti

Nel momento in cui un progetto finisce, si concludono anche numerose buone prassi che consentono di mantenere aperto il passaggio da rifugiato a cittadino; prima tra tutte l'iscrizione anagrafica e di conseguenza numerosi altri aspetti, tra cui l'iscrizione al Sistema Sanitario Nazionale:

“(…) il dottore è importante, perché? Perché è importante il dottore? Perché il dottore... E' per curare malattia, per curare malattia. Perché se tu stai male non puoi pensare a andare via perché stai male; però può essere anche se tu stai male, se tu non hai carta sanitaria non c'è qualcuno che aiuta puoi pensare anche vai quel Paese comunque lo troverai un dottore per curare la tua malattia anche se tu, se dopo ti rimandano in Italia comunque cercalo come si può uscire di questa malattia. (...)... Per me dottore una cosa è grande però anche la casa... La vita prima di tutto se tu vedi una persona pensa dove dorme e dove mangia la sua vita mai non cambierà mai, mai perché tu sei sempre qua, tu stai sempre qua perché se tu svegli la mattina dove pranzare oggi? E stasera dove dormo? Se tu pensi sempre tua vita sempre rimane lì, però noi pensiamo sempre a riuscire il problema, a risolvere questo problema (…). Però secondo me dottore è importante perché se tu stai male e non ce l'hai dottore è difficile anche per vivere; per vivere è difficile. Allora come puoi trovare il dottore? Ora è difficile anche per trovare il dottore se tu non hai residenza o ospiti, non puoi chiedere dottore perché ti chiedono carta di residenza e ti chiedono un ospite però anche ora è difficile anche loro come

262 Cfr. Direttive Accoglienza e Qualifiche.

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persone nuove vuole fare un dottore, non puoi trovare se non trovi un aiuto non puoi trovare “ (Intervista 38).

Le parole appena riportate sono di Mise, un giovane ragazzo originario del Corno d'Africa, che sottolinea in modo netto e chiaro come il medico sia una componente fondamentale, ma non separabile da tutto il resto: dall'avere una casa, dall'avere una forma di stabilità non solo per una prospettiva di ricostruzione ma anche per bisogni pratici, come poter ottenere i documenti, siano essi sanitari o di soggiorno. Le sue parole rispecchiano perfettamente ciò che è stato il lavoro con Medu nelle occupazioni di Firenze dove vivono molti rifugiati263. Le persone che si trovano all'interno delle occupazioni sono spesso già passate attraverso uno dei progetti territoriali, ne è un esempio il fatto che chi scrive ha incontrato molti ex-ospiti che erano stati nel progetto dove aveva lavorato come operatrice sociale, e di cui talvolta era stata la loro stessa operatrice. Nel sottocapitolo dedicato alla residenza, emerge chiaramente il fatto che le persone, una volta uscite dai progetti o dai Cara, non sono più titolari di una residenza o di un indirizzo, essendo in molti casi le stesse strutture di accoglienza in collaborazione con i comuni a prevederne la cancellazione. E quando il percorso di vita in Italia non consente alternativa, oppure se l'alternativa non è quella desiderata264

, le occupazioni divengono un nuovo luogo di rifugio, se così si può definire. Ma le occupazioni sono anche il luogo dove emergono in superficie tutte le lacune create dallo stesso sistema in cui i rifugiati non sono più inseribili, poiché o già ne hanno beneficiato, o sono in attesa di entrarvi, o semplicemente perché l'Italia non è il posto in cui vogliono ricrearsi una vita; ma se un rifugiato sta male è anche difficile pensare di poter andare via, come sottolinea Mise. Il lavoro portato avanti con i volontari di Medu consiste nel raccogliere i bisogni di salute di coloro che vivono le occupazioni, affiancandoli nei percorsi di accesso. Una sera a settimana, o ogni due settimane, a seconda dei contesti e delle disponibilità dei volontari, l'equipe multidisciplinare si reca nelle case occupate dove vivono i migranti. Dagli incontri con le persone emergono i bisogni e problematicità a cui Medu tenta di rispondere a seconda dei casi. Nel momento delle uscite il personale sanitario coinvolto ha a disposizione medicinali per poter supportare interventi direttamente sul campo. Dal momento in cui vengono rilevati ostacoli particolari all'accesso al diritto alla salute, vi è la possibilità di affiancare le persone tramite accompagnamenti specifici. Nel caso di questa etnografia, gli accompagnamenti svolti sono stati realizzati presso una Asl di Firenze, spesso affiancando un membro dell'equipe del progetto Camper.

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Il lavoro svolto in questi mesi di etnografia all'interno delle occupazioni non ha consentito, alla luce del prioritario interesse sulle dinamiche di accesso ai diritti sociali, di approfondire aspetti altrettanto presenti e caratterizzanti la vita dei rifugiati nelle occupazioni.

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Questa riflessione, condivisa e confermata nei già citati momenti di back talk, può essere spiegata attraverso una esperienza vissuta direttamente da chi scrive, nel periodo in cui lavorava come operatrice sociale. Una non più giovane coppia di rifugiati etiopici, affetti da malattie gravi e invalidanti, sono stati all'interno del progetto per molto tempo. Uno dei loro principali dolori e crucci è stato sempre quello di vedersi riconosciuto lo status di rifugiato e non quello di sussidiaria, tanto da affrontare anni di difficili ricorsi e giudizi in appello per tentare di cambiare l'esito della loro commissione. Dopo molto tempo, dopo vari fallimenti, dopo un costante blocco anche ad imparare la lingua italiana, decidono di lasciare il progetto. Le parole che hanno pronunciato all'operatrice sono sufficienti a comprendere il senso della scelta di non voler stare più in accoglienza. Operatrice: “ma se lasciate il progetto ve ne dovete tornare in occupazione, dove andate in questo momento?” Solomon:”Non siamo bambini, basta stare nel progetto, meglio fuori dove faccio la mia vita”.

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Durante questi momenti è stato possibile rilevare dinamiche che, se poste a fianco di quanto raccontato da chi opera nei progetti, non molto si discosta nelle principali criticità, come racconta questo estratto delle note di campo in cui viene descritto un accompagnamento avvenuto assieme ad un gruppo di tre giovani somali che vivono a in una delle case occupate:

“Entriamo assieme ad Ali che in prima battuta si siede ma poi lascia il posto a Yusuf. Spieghiamo alla sportellista, una donna con occhiali e capelli bianchi, che il signore

Nel documento Abitanti di uno spazio (pagine 130-140)