UNO SGUARDO SUL METODO
2. Ricerca e rifugio
Rahola prosegue la sua analisi dello sviluppo contemporaneo delle pratiche etnografiche facendo riferimento a Clifford207, autore che problematizza il concetto stesso di cultura, poiché “(...) impossibile da declinare in termini di sistema, di un qualcosa di isolabile e interpretabile” (Ibidem, 43).
Le pratiche etnografiche, la ricerca sul campo e in generale gli approcci che rimandano a metodologie qualitative non sono statici e standardizzabili, ma dialogici, mutevoli, producono un movimento a spirale (Bourdieu 1998, 15), come la relazione che si stabilisce tra osservatore e osservato.
In riferimento all'abdicazione dell'empirismo, Bourdieu suggerisce che:
“la sociologia sarebbe meno vulnerabile alle tentazioni dell'empirismo se bastasse ricordarle, con Poincaré, che 'i fatti non parlano'. Aver a che fare con un oggetto che parla è forse la maledizione delle scienze dell'uomo (…). Non basta che il sociologo si metta ad ascoltare i soggetti, registri fedelmente i loro discorsi e le loro ragioni, per riuscire a spiegare la loro condotta ed anche le ragioni che essi propongono: in tal modo egli rischia di sostituire puramente e semplicemente alle proprie prenozioni le prenozioni di coloro che studia, o un misto falsamente scientifico e falsamente oggettivo della sociologia spontanea dello 'scienziato' e della sociologia spontanea del suo oggetto” (Bourdieu e Chamboredon Passeron 1976, 61-62).
I concetti non possono essere definiti in modo isolato, in modo sistemico (Bourdieu 1992, 66), ma situandoli all'interno del sistema teorico da cui nascono; bisogna dunque “pensare in maniera relazionale” (Ibidem, 67), sottolineando la natura oggettiva di tali relazioni che si stabiliscono tra gli agenti del campo preso ad oggetto di studio.
2. Ricerca e rifugio
Addentrarsi nella vita quotidiana del rifugio non può prescindere da alcune riflessioni che ormai da svariati anni sono condivise e prodotte dalle discipline accademiche che si cimentano in questi percorsi di osservazione.
Se l'approccio etnografico prevede un'immersione nel mondo quotidiano di chi è oggetto di studio, dalle sue pratiche scaturiscono contraddizioni e difficoltà, presupposti e considerazioni che si muovono entro il dualismo che intercorre tra potere ed etica (Lammers 2007, 75). Le dinamiche attribuite alle relazioni di potere rimandano alle riflessioni sulla presenza e le influenze dei ricercatori nei contesti di studio, indicati dalla letteratura post-coloniale, come soggetti che si appropriano delle stesse voci che tanto si vogliono difendere e rendere udibili; ciò dà adito ad una enfatizzazione delle modalità di utilizzo di quelle voci, ovvero mantenendone l'autenticità ed il rispetto (Ibidem, 73). L'etica cui fa riferimento Lammers riguarda, invece, il dubbio imperante emerso durante la sua etnografia, dove l'autrice si trova ad interrogarsi sulla criticità a farsi coinvolgere dalle vite e dalle problematicità dei rifugiati che incontra svolgendo un ruolo di aiuto e supporto concreto per
206 Sempre in riferimento al testo di Rahola, che riassume in poche pagine lo sviluppo delle pratiche etnografiche e del sapere antropologico, egli sottolinea come gli approcci come quelli di Malinowski, Geertz, Evans-Pritchard siano stati sottoposti a critiche fondate sul presupposto e la consapevolezza “dell'impossibilità di parlare a nome di altri” (in Dal Lago e De Biasi 2006, 42) 207 Per un maggiore approfondimento del lavoro di Clifford si veda Scrivere le culture del 1997.
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far fronte agli ostacoli burocratici e di vita; parla di un dubbio in cui “neutrality and the scientific ideal of objectivity” (Ibidem, 76) hanno vacillato a seguito di un suo forte coinvolgimento nelle relazioni di aiuto coi rifugiati da lei incontrati. La sua domanda, al tempo stesso, è “(...) did anyone ever prove the opposite, that is, that people give 'neutral' answers – or even, speak 'the truth' – because there is no assistance involved?”208 (Idem). Con questa domanda, evidentemente retorica, l'autrice informa i suoi lettori di una poco citata consapevolezza da parte dei rifugiati, in quanto oggetto di studio, di essere soggetti-oggetti di osservazioni, e della conseguente assunzione di una loro posizione distaccata, poiché da parte degli osservatori non vi è una effettiva ricerca di relazione ma una mera raccolta di materiale da poter poi analizzare.
Voutira e Donà, in un loro articolo, individuano il consolidamento di tre sostanziali aspetti del fare ricerca nei contesti del rifugio, sviluppatisi nel corso degli ultimi anni (2007, 165-166). Il primo tra questi riguarda la necessità di assumere un carattere multidisciplinare nel campo dei refugee studies, e della sua interdisciplinarità metodologica. Il secondo fa riferimento, a prescindere dall'approccio disciplinare utilizzato, all'assunzione di una prospettiva refugee centred (in contrapposizione con quella stato-centrica) e bottom up, che consideri i rifugiati in quanto attori ed agenti. Nello specifico, le due autrici non si riferiscono tanto agli strumenti metodologici utilizzati, quanto al focus e alla prospettiva assunti dai ricercatori. Infine, il terzo elemento che completa questa analisi, riguarda la relazione tra ricerca e advocacy. Le autrici si domandano se questa tensione esistente tra i due approcci al campo del rifugio non sia dovuta ad una scarsa comprensione del ruolo della advocacy e riportano ad esempio l'esperienza portata avanti da Harrell-Bond che collaborò assieme ad un gruppo selezionato di rifugiati per lo svolgimento di una sua indagine (Harrell-Bond e Voutira 2007, 290-291), promuovendo in questo modo una effettiva comprensione del proprio lavoro di ricerca da parte dei rifugiati stessi, “(...) [which] is in their own best interest either because it addresses urgent conditions of survival or because it acknowledges their presence and historicity or both”209
(Ibidem, 290).
Considerare i rifugiati come risorse non viene reputata una mera necessità insita nelle pratiche di advocacy e indipendente dagli approcci teorici; “it is theory” (Voutira e Donà 2007, 167)210
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Così le due autrici continuano: “In this sense, in refugee studies, scholarship is embedded in advocacy and advocacy in scholarship”211 (Idem); e citando Cohen, si soffermano su un aspetto che riguarda la capacità di mantenere una distanza nel campo del rifugio:
“Can one possibly develop the distance, the techniques and methods to describe and analyse issues impregnated with need, with fear, irrationality and emotion? In other words, is there a hopeless and irredeemable conflict between scholarship on the one hand and advocacy on the other?'”212(Idem).
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“Nessuno ha mai provato l'opposto, ovvero che le persone danno risposte 'neutrali' – o anche che dicono 'il vero' – perché l'assistenza non è presente?” (Traduzione mia).
209 “Che è nel loro stesso interesse perché fa riferimento ad urgenti condizioni di sopravvivenza o perché riconosce la loro presenza e storicità, o per entrambe le ragioni” (Traduzione mia). 210 Questo elemento è fondamentale, perché caratterizza una sostanziale distanza tra chi fa ricerca e
i rifugiati, riscontrabile parimenti nelle dinamiche tra istituzioni e rifugiati. Su questo punto si tornerà nel corso dei prossimi capitoli.
211 “In questo senso, nei refugee studies, la ricerca è incorporata nell'advocacy e l'advocacy nella ricerca” (Traduzione mia).
212 “E' possibile sviluppare la distanza, le tecniche e i metodi per descrivere e analizzare questioni impregnate di bisogno, di paura, di irrazionalità e di emozione In altre parole, c'è un disperato ed
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Ciò rimanda direttamente alla riflessione che nasce dall'esperienza di Lammers (2007, 76), in cui è sottolineata la frustrazione da parte dei rifugiati nell'avere a che fare con ricercatori che si presentano costantemente alle loro porte con in mano solo delle empty promises, cui seguono degli atteggiamenti accomodanti e strumentali da parte dei rifugiati stessi, fornendo ai ricercatori le risposte che vorrebbero sentirsi dare213.
Indagare in ambiti quali il rifugio, dunque, porta chi fa ricerca ad assumere a priori la consapevolezza del proprio ruolo e dei potenziali limiti che un ambito come questo può portare a dover costantemente affrontare (come del resto in ogni ambito di indagine); e in questa consapevolezza vi è il riconoscimento della - già menzionata - agency delle persone, le cui condizioni di vita sono al centro dell'interesse di indagine214
.
Il problema (Harrell-Bond e Voutira 2007, 283) nell'approccio alla ricerca nel campo del rifugio, sta nell'invisibilità del rifugiato:
“(...) the refugee as a persona, a social role that underlines in psychological terms specific experiences of fear and suffering; the refugee as a person understood from the standpoint of individual human agency which entails patterns of flight undertaken under duress; and the public perceptions of refugees often entailing dehistorization of their experiences”215
(2007, 294-295).
I rifugiati corrono costantemente il rischio di essere ricondotti ad una speechlessness, incorporando i label che il contesto politico e sociale attribuisce loro. La sfida della ricerca è identificare e superare le barriere che si frappongono tra i ricercatori e i rifugiati (Ibidem,
irrimediabile conflitto tra la ricerca da un lato e l'adovcacy dall'altro?” (Traduzione mia)
213 Questa riflessione che nasce dalla relazione tra rifugiato e ricercatore, si ricollega alla riflessione sulla relazione tra operatori e richiedenti asilo, che nasce nel momento in cui ad un richiedente asilo viene richiesto di raccontare la storia che lo ha portato a chiedere asilo e a quelle dinamiche di incorporazione di determinati label che sono in linea con le aspettative degli Stati sicuri cui le vittime giungono per poter ottenere una protezione. Al tempo stesso questa riflessione necessita di una premessa fondamentale: non si intende qui sostenere che i rifugiati siano persone potenzialmente false e manipolatrici; tutt’altro, quanto persone che per poter ottenere un diritto si prestano a dire quello che i governi del Nord vogliono sentirsi dire per poter avere una protezione; ciò che Beneduce ha definito come economie morali delle sue menzogne (in Fanon 2011). Da alcune esperienze di persone rifugiate incontrate nell'esperienza professionale di chi scrive e di altre fonti vicine, le storie raccontate in commissione non erano vere; quelle vere, conosciute solo dopo un certo tempo caratterizzato dallo svilupparsi di rapporti personali più approfonditi, erano costellate di elementi più gravi e violenti.
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Si sottolinea la posizione di Harrell-Bond e Voutira, che affermano “(...) we eschew research among refugees that treats them as 'subjects' or 'informants'”(2007, 290). In queste parole le autrici intendono affermare il loro voler fare ricerca con i rifugiati seguendo un approccio partecipativo, dove quindi essi non sono ridotti a mero oggetto di indagine, distaccati completamente da ciò che poi sarà il prodotto dell'indagine, in particolare perché proprio per il loro essere rifugiati, sono soggetti potenzialmente vulnerabili, sia alla luce delle loro personali esperienze, sia per le relazioni spesso delicate e complesse con il Paese di arrivo e i soggetti incaricati di prenderli in carico. Questa posizione risuona interessante per la presente indagine, dove, come si potrà vedere nel sottocapitolo ad essa dedicata, la fase riguardante le interviste con i rifugiati è stata complicata non essendoci un legame diretto con i potenziali intervistati, quindi un coinvolgimento effettivo nella elaborazione di una mappatura di contatti.
215 “Il rifugiato come personaggio, un ruolo sociale che sottolinea in termini psicologici specifiche esperienze di paura e sofferenza; il rifugiato come persona intesa dal punto di vista dell'agency umana individuale che comporta schemi di fuga intrapresi sotto coercizione; e le percezioni pubbliche dei rifugiati che spesso comportano la de-storicizzazione della loro esperienza” (Traduzione mia).
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295). Ne sono un esempio i lavori di Korac e Puggioni216
che descrivono come le azioni di self-help e di agency attivate dagli stessi rifugiati, problematizzino una visione del rifugiato come “passive 'recipient of aid'” (Puggioni 2005, 330), fornendo una visione più approfondita e al di fuori dei canoni abituali con cui si approccia il rifugio e l'immagine del rifugiato.
In questo stesso lavoro si tenterà di fornire una lettura dell'esperienza portata avanti in un pezzo della quotidianità del sistema asilo italiano, con l'obiettivo di fornirne una lettura che tenga conto degli elementi sino ad ora introdotti.