UNO SGUARDO SUL METODO
6. Tra etica e rifugio
Le riflessioni che sono state proposte in questo capitolo hanno parlato delle scelte, delle difficoltà e delle soluzioni adottate sul piano metodologico. Tali componenti necessitano di una collocazione ulteriore all'interno di questa restituzione, per non rischiare di riceverne incursioni di tipo “personale”, che ne precludano una rielaborazione in sintonia con il quadro di questa indagine.
Pertanto ci si interroga, sul peso che può acquisire un elevato coinvolgimento nella rielaborazione di un testo scientifico, trattando nello specifico il tema dell'asilo e sull'effettiva possibilità di praticare il distacco da un campo come quello qui indagato. Le migrazioni forzate, come è stato possibile vedere sino ad ora, sono portatrici di disomogeneità, contraddizioni, fratture, che si ripercuotono sulle vite dei rifugiati, spesso ripiegate su vere e proprie strategie di sopravvivenza (Puggioni 2005, 323).
Il processo di securitizzazione delle migrazioni (Zetter 2009), il proliferare di status e l'utilizzo di centri di detenzione per rifugiati, il moltiplicarsi di attori sovra-nazionali che interagiscono con le politiche inerenti il rifugio (Voutira e Donà 2007, 168) hanno ricadute anche sul modo di fare ricerca.
“Increased security concerns, mobility and temporality mean that researchers need to find more reliable tools for mapping and monitoring diffuse and 'difficult to grasp' population movements that are characterized by increasingly rapid flows. Accessibility is obstructed because people are constantly moving both geographically across multiple borders, and administratively across formal and informal 'bureaucratic' regimes”239(Idem).
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Le esperienze di indagine dunque prendono vita in contesti liminali, temporanei (Idem); si potrebbe dire che il campo del rifugio, quale spazio di osservazione, sia un campo infinitamente e ciclicamente temporaneo, come lo sono le storie di chi non riesce a trovare una casa dove fermarsi, uno status da cui ripartire, un Paese in cui praticare una nuova cittadinanza. Sayad (2008, 23-24), nel definire “che cos'è un immigrato?”, sottolinea la presenza di una contraddizione di fondo che,
“sembra essere costitutiva della condizione stessa dell'immigrato. Essa si impone a tutti: gli immigrati, certo, ma anche alla società che li accoglie, così come alla società di cui sono originari. Essa impone a tutti di mantenere l'illusione collettiva di una condizione che non è né provvisoria, né permanente o, il che è lo stesso, di una condizione che è ammessa a volte come provvisoria (in linea di principio), solo a patto che questo 'provvisorio' possa durare indefinitamente, e a volte come definitiva (nei fatti), solo a condizione che questo 'definitivo' non venga mai enunciato come tale”.
L'attenzione del ricercatore sta nel riconoscere questa temporaneità infinita, ed inserirsi per tentare di contestualizzare quello che vede, che ascolta, e quello che non viene detto; ponendosi in relazione con tutto ciò.
Durante la fase dell'osservazione partecipante nei contesti delle occupazioni, da un lato vi è stata la consapevolezza dell'insita assenza di “distanza tra l'osservatore e l'oggetto delle sue osservazioni” (Cardano 2005, 107), dall'altra la nascita di un'ulteriore consapevolezza, ovvero la difficoltà di applicare una completa presa di distanza dal precedente ruolo professionale ricoperto nel medesimo contesto. Sebbene l'ambito delle occupazioni (per fortuna si può dire) sia stato di nuovo approccio per chi scrivere, la familiarità con i “grumi di storia” (Beneduce 2009, 66) contenuti nelle narrazioni incontrate è stata sempre presente. Tale fattore ha favorito la comprensione di particolari dinamiche, ma è stato anche vissuto il rischio di un'interpretazione prevenuta alla luce delle precedenti esperienze e di quella stessa familiarità.
Col passare del tempo, chi scrive è giunta alla conclusione che, forse, tali difficoltà sono parte del contesto stesso, poiché,
“Parlare di migrazione, anche quando si vuole pensarla in termini sociologici o riferirsi unicamente ai problemi psicologici che così spesso connotano tale esperienza, significa già situarsi all’interno di una prospettiva politica. Questo assunto vale ancor più chiaramente nel caso si consideri la questione ‘rifugiati’: le loro biografie, i percorsi incerti di tanti richiedenti asilo, le ombre di morte e minaccia che li accompagnano, obbligano il clinico, l’operatore sociale, a misurarsi con un orizzonte propriamente politico, detto in altri termini: con la violenza della storia, con la dolorosa eredità del colonialismo, con le controverse espressioni di una cittadinanza e una sovranità ormai differenziate e diversamente distribuite (…). Il ‘politico’ è già lì, di fronte a noi, realizzato nel registro dell’indifferenza, nei toni cinici con i quali si discetta su questo o quell’aspetto amministrativo, nella violenza razzista di questi anni di chi si accanisce contro immigrati isolati, nelle pratiche sociali informate da un’ostilità generalizzata che traduce la parola ‘immigrato’ in
ricercatori hanno bisogno di trovare metodi più affidabili per mappare e monitorare i movimenti di popolazioni diffusi e ‘difficili da acchiappare’, caratterizzati da flussi sempre più rapidi. L’accessibilità è impedita perché le persone sono costantemente in movimento sia geograficamente attraverso confini multipli, e amministrativamente attraverso regimi ‘burocratici’ formali e informali” (Traduzione mia)
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quella di ‘deviante’ o ‘criminale’. Ogni gesto, ogni parola sembra qui raddoppiare e amplificare la “maledizione” dell’immigrato e ci riporta alla memoria le sfide della cura che Fanon aveva analizzato nel contesto coloniale, dove la cura della sofferenza del colonizzato era impossibile, tanto più là dove l’uso della tortura materializzava di fatto il collasso di ogni distanza fra psichiatria e politica. Si tratterà dunque, per chi lavora accanto a rifugiati e richiedenti asilo, di riconoscere il politico in ogni sfumatura, anche quando dissimulato sotto gli eufemismi del linguaggio giuridico o clinico, per poi trasformarlo in atteggiamento di cura, di ascolto, di orientamento” (Beneduce e Taliani in Caldarozzi 2010, 77-78)
Fare ricerca nei contesti del rifugio, volendo ravvisare una prospettiva etica, non può esimere il ricercatore dall'interrogarsi sul peso di assumere una prospettiva politicamente situata, già inscritta nell'ambito del rifugio, come appena citato. Ecco quindi che questa lotta tra il tentativo di un distacco ed il flusso (naturale) del riavvicinamento hanno fatto parte di questo lavoro e devono essere tenuti di conto anche nella sua restituzione.
Anche Manocchi, nell'introdurre il suo lavoro negli ambiti delle occupazioni sottolinea che,
“(...) questo lavoro e la costante interpretazione di quanto accade a sé e agli altri, giorno dopo giorno, sul campo, sono tutti elementi intrisi di teoria (Hanson, 1978), e che trasudano – mi sento di dire inevitabilmente – ideologia, opinioni su come dovrebbero andare le cose, prese di posizione, che il ricercatore non può che fare oggetto di ulteriore osservazione, ma dalle quali, in un ambito come questo, difficilmente riesce a prendere le distanze (o, almeno, questa è la mia esperienza)” (2012, 8).
Un altro fattore che incide sulla questione relativa alla relazione tra osservatore ed osservato, sta nella scelta di portare avanti l'osservazione partecipante senza palesare ogni volta gli obiettivi della propria presenza. Assumere posizioni ingannevoli può rimandare ad una certa “concezione ottocentesca della ricerca” (Cellini 2008, 107), oltre che incidere sull'autostima di chi svolge la propria osservazione. Ciò non vuole mettere in discussione le scelte compiute, ma sottolineare i pensieri a cui tali scelte si sono accompagnate, e che si ritiene di dover mettere nero su bianco per cercare di restituire anche il sentimento del fare ricerca in determinati ambiti, accompagnandolo con la componente della sua consapevolezza.
Spostando l'attenzione dall'ingresso nel campo a quello della restituzione del mondo osservato, si riportano le parole con cui Sorgoni introduce il testo “Etnografia dell'accoglienza”:
“il contatto prolungato con operatori, volontari e richiedenti asilo, ed il fatto di svolgere l'osservazione etnografica contemporaneamente partecipando attivamente alle attività che venivano svolte negli spazi della ricerca, ha comportato la nascita di rapporti di amicizia e la conseguente condivisione di riflessioni o informazioni in via confidenziale, oppure al di fuori dei momenti o degli spazi 'ufficiali' della ricerca” (2011, 32).
In questa particolare esperienza le dinamiche riscontrate sono simili, ma scaturiscono da fasi storiche differenti dell'indagine. In molti casi gli operatori intervistati sono persone vicine al passato lavorativo di chi scrive, e si è vissuta la complessità che sottende in primo luogo ad una gestione del distacco nei momenti delle interviste agli operatori (non tanto ai rifugiati per il motivo stesso che sono state numericamente limitate). Secondariamente, durante la fase della rilettura, della rielaborazione, il momento in cui il ricercatore dorme con le
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proprie interviste, è stato accompagnato, come nei momenti d'ingresso nei contesti delle occupazioni, da dubbi relativi al legame che la ricercatrice aveva a monte di questa indagine con i soggetti osservati. Sorgoni si interroga sull'etica della restituzione di ciò che viene consegnato al ricercatore da “dietro le quinte” (Idem). Nel lavoro tramite le interviste vi sono due livelli di interrogazione sul piano etico: il primo riguarda il fatto di aver dialogato con la parte scomoda dei contesti di riferimento (come han fatto notare le tre persone che non hanno più autorizzato la pubblicazione delle proprie interviste) e la seconda è in merito alla relazione personale con le persone intervistate; le due sono ovviamente strettamente collegate tra loro e rimandano alle riflessioni di Sorgoni. Il ricercatore che lavora in contesti a lui familiari “sembra sostituirsi ai suoi interlocutori” (Ibidem, 33), e la conseguenza può portare a reazioni positive, di interesse e curiosità da un lato, come ad un completo non riconoscimento da parte degli intervistati in quanto rielaborato dal ricercatore; l'autrice conclude che di fatto questo è “un rischio che non può essere eliminato” (Idem).
Ognuna delle fasi di questa indagine ha portato con sé un bagaglio di coinvolgimento differente ma pur sempre di grado elevato. Ripercorrere durante le interviste le frustrazioni degli operatori, i momenti di difficoltà, come i momenti di soddisfazione; affiancare i rifugiati delle occupazioni per andare a fare la fila all'anagrafe sanitaria scontrandosi con i limiti e le ostruzioni di un sistema spesso non informato sulle procedure riconosciute a questa categoria di persone; partecipare ad un funerale preannunciato; ritrovare nei contesti delle occupazioni persone che erano state “gli ospiti” di chi scrive ai tempi del lavoro nel progetto e chiedersi “che ci fa lei qui? Ancora” (Nota di campo, dicembre 2013). Nel tentativo di conoscere attraverso gli stessi occhi ma con uno sguardo differente, il fare ricerca nell'ambito del rifugio può essere rimandato all'auspicio che Cerulo ritrova nell'opera di Goffman sulla teoria dei Frames:
“L’umanità mutante del nostro tempo gode di una libertà vertiginosa, nulla lascia più tracce su di noi; al riparo da ogni delusione, pronti a consumare ogni cosa in fretta e senza eccessivi turbamenti, ci accade di galleggiare su una nuvola di confortevole irrealtà ma il rischio più grande è che senza esperienza il futuro rischia di ridursi ad una sorta di circolo vizioso in cui tutto è già stato “provato”. Allora più che cercare il giusto inquadramento della realtà la vera sfida alla quale siamo chiamati oggi a rispondere è quella di trovare il coraggio di applicare di volta in volta frames differenti e nuovi alle diverse situazioni nelle quali c’imbattiamo quotidianamente. Solo così, contrastando l’evidente avanzare di una passività tardo moderna, possiamo a mio parere scongiurare il rischio di un’esperienza reversibile o addirittura impraticabile e vivere la vita in prima persona”(2006, 28)
In quest'ottica la ricerca di un'etica nell'indagine su fatti sociali globali come le migrazioni forzate, è da collegarsi ad una malleabilità e, al tempo stesso, una riflessione sulla componente politica ascritta in questo particolare genere di migrazione.