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170 1.2 Nel disincanto del rifugio

Nel documento Abitanti di uno spazio (pagine 170-176)

Parlare del rapporto tra operatore e ospite significa inevitabilmente rimandare il discorso ad un piano emozionale.

Non tutte le esperienze incontrate raccontano dinamiche in cui vi sia un disconoscimento dell'agency o un esercizio di pratiche di potere; ma si tratta di un rapporto asimmetrico, come già ribadito, da cui ogni soggetto trae le proprie conseguenze, sia nel modo di relazionarsi che nel modo di concepire quel tipo di relazione.

Molti operatori incontrati in questa etnografia, hanno raccontato del disincanto che sta alla base del rifugio, posizionando questo tipo di esperienza lavorativa e di vita in una linea intermedia, dove da un lato c'è il riconoscimento di un'esperienza che arricchisce sempre chi ne parla, e dall'altro una dimensione che prima o dopo lascia emergere il peso vuoto del senso stesso del diritto di asilo.

Come racconta questa operatrice di un progetto Sprar, il legame operatore-ospite è:

"Ah... [sorride] complesso, complesso; perché a volte ti da delle soddisfazioni incredibili, nascono proprio dei dialoghi veramente interessanti, molto belli, e altre volte invece ti senti un po’ usato, io mi sento usata un po’ sfruttata; un po’ anche presa in giro su certe cose, quindi un po’... ha queste due facce qua; ha dei lati positivi e dei lati negativi" (Intervista 20).

Per molti operatori è difficile "non portarsi a casa" ciò che preoccupa, ciò che a volte resta incompreso, ciò che diviene fonte di scontro e ciò che emerge dalle storie personali che, se da un lato i rifugiati si trovano a dover raccontare, gli operatori si trovano a dover ascoltare, come racconta l'operatrice di un progetto Ena:

"(…) Un passato che avevano cercato di dimenticare e io con le mie domande non facevo che tirare fuori questo, però non davo una risposta perché non ho neanche io le basi per dare questo. Quindi vedevo che tiravano fuori certe cose però rimanevano in sospeso: "e ora che te mi hai messo in mano questa mia vita che io avevo in qualche modo cercato di dimenticare, ora che me l'hai riportata tutta a galla, ora io con questo dolore in mano che faccio?" (Intervista 7).

I progetti devono essere in grado di posizionare tali sofferenze in una loro precisa collocazione, e dare così anche un senso al proprio lavoro, come sottolinea questa coordinatrice Sprar:

"Su questo bisogna lavorarci per potere essere umani ma professionali. Ed è una fatica anche questo perché tante di quelle volte te le porti a casa e ci ripensi, ci ripensi e ci ripensi. In questo senso è importante trovare un modo di proteggersi da queste situazioni come operatori. Come il rapporto con l'utente è importante che venga fuori, ma noi non abbiamo intenzione né di fare la terapia né di farlo sentire uno sfigato, per cui dobbiamo entrare e non entrare, entrare e non entrare. Non ci interessa il macabro della storia per così dire" (Intervista 18).

La difficoltà del lavoro degli operatori, oltre che nell’essere in grado di gestire il percorso in itinere, viene rilevata anche quando non è possibile conferirgli una continuità; i silenzi e le contraddizioni del sistema rendono insensato il lavoro svolto, ed è come se le singole persone tentassero di aprire spiragli in porte blindate:

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"Cerco di fare del mio meglio però mi vedo un po’ una lotta contro un macigno, una cosa così grande che è difficile da... Come dire, da riuscire ad entrarci fino in fondo, da trovare soluzioni che sono veramente quelle effettive. Io so quali possono essere i bisogni, cerco di capire quali possono essere i bisogni, trovare le giuste soluzioni, ma non è detto che io riesca veramente con gli strumenti che ho, a fare quello che potrebbe essere fatto. Non è detto che io abbia gli strumenti e che io riesca fino in fondo a mettere in atto tutta una serie di strumenti che sarebbero quelli significativi, non è detto che lo Sprar ce la faccia... Bisogna anche un po’ accettarla questa cosa, è difficile" (Operatrice Sprar, Intervista 11).

Da alcune interviste emerge anche una riflessione su come il lavoro dell'operatore talvolta si basi su pratiche assistenzialistiche, messe in pratica anche in modo consapevole, attraverso formule di presa in carico paternalistiche (Urru in Sorgoni 2011, 82).

Ne parlano, ad esempio, gli operatori del progetto Sprar in cui si sono da tempo creati i blocchi ai percorsi di uscita, tali per cui molti dei rifugiati che vivono fisicamente nella struttura non sarebbero più titolati a ricevere l'affiancamento degli operatori. Ciò nonostante, dalle parole degli operatori emerge sempre un senso di responsabilità nei confronti delle persone che abitano nella struttura, dando adito a dissensi con gli enti gestori:

"A noi ci rimproverano spesso, anche da parte dell'amministrazione pubblica, di essere un po' troppo materni in questo senso. Di accudirli troppo. E probabilmente in parte è anche vero. Però alla fine se non gli dai delle soluzioni a questa gente qui, è chiaro che poi si attaccano a quello che hanno. Alla fine ci sono minori... Che li devi trattare male almeno si sentono male qui dentro e se ne vanno?" (Intervista 15).

O come dall'esperienza di questo operatore Ena che si rende conto, dopo vari mesi, di come il suo stesso approccio assistenziale stesse influenzando il modo di porsi degli ospiti:

"allora, io mi sono accorto a un certo punto del progetto, dopo qualche mese, che il mio atteggiamento era troppo orientato sull'assistenzialismo. Era veramente troppo orientato. E questo stava creando dei problemi, ne ho parlato anche con il mio collega e me lo fece notare lui, stava cominciando a creare questo sedersi di loro che erano protetti da questo progetto, che probabilmente non si muovevano” (Intervista 9).

Il rapporto di maternage descritto dagli operatori, lascia intendere come alle volte siano i rifugiati stessi a ricercare e richiedere un tale genere di approccio. Così Mehdi, che è stato ospite di uno Sprar, racconta il suo punto di vista sul maternage all'interno dei progetti:

"Purtroppo io arrivato in Italia in un periodo che non era tanto giusto mi sembra per crisi perché questo lavoro non è lavoro di tutti, non possono farlo tutti, ci vuole una persona che lo fa con cuore, che lo capisce. Ma in questo periodo lo fanno qualcuno che solo lo fanno perché non hanno nessun altro lavoro (...). secondo me noi abitiamo in mondi diversi, quello che cresce qua in Italia è molto diverso da quello che cresce da me o in altri Paesi. E' per quello, proprio per quello che ho detto “lavorare con cuore” perché tu fai tutto con cuore per il tuo bambino, tuo figlio. Anche quando fa un casino, fa che ne so, ti dà noia, non ti dà noia mai (sorride)! (...) ascoltami. Quando io sono arrivato in Italia mi trovavo proprio come un bambino, anche peggio, senza nessun strumento per fare comunicazione, per contattare gli altri. Lingua, che ne so, soldi, non ho nessun strumento! Ma un bambino almeno ha una madre che lo aiuta. Avevo bisogno di qualcuno così di

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questo tipo, questo genere. E per quello ho detto, ora non proprio non esageriamo, non proprio come i genitori, ma sì invece c'è bisogno delle persone che lo fanno così, perché quando arrivi in un altro mondo, non sei come non lo so, un ragazzo che va via dalla casa... E non hai niente, proprio niente. Devi cominciare un'altra vita. Sì lo so, ma come? Mi spieghi? Sì ti spiego, ma io non capisco. Quindi ci vuole proprio una mamma (sorride) che ti spiega infinite volte" (Intervista 40).

Egli spiega che, sin dai primi momenti del suo arrivo in Italia, sentiva il bisogno di ricevere da parte del sistema, e quindi da parte degli operatori, un supporto palesemente paternalistico. In questo si potrebbe leggere come l'incorporazione di un modello italiano di accesso al diritto di asilo, che passa quasi sempre dalla relazione interpersonale con gli operatori, interfacciandosi con una parte burocratica e istituzionale, e una parte soggettiva e personale.

Gli operatori vivono la contraddizione insita nel loro ruolo, intersecando alle volte una sorta di desiderio di vivere in modo paritario il rapporto con l'utenza derivante dalla dimensione soggettiva messa in campo, per far poi emergere l'inevitabile contraddizione di un legame incongruo.

Si prenda ad esempio il racconto di questa operatrice Sprar che in un primo momento racconta la difficoltà a posizionare il suo legame con gli ospiti, sottolineando il suo intento a non volersi porre come colei che deve educare persone più adulte, a cui peraltro riconosce un bagaglio esperienziale: "(...) non è che mi permetto di educarle (...); non sono amici però son molto di più. Non sono clienti, non sono pazienti, cioè sono... E' un confine molto... All'inizio soprattutto anche molto difficile da capire (...)" (Intervista 21).

Poco dopo però, sempre dalle parole dell'operatrice, emerge ineluttabile una riflessione sul legame educativo tra operatore e ospite, quasi a rappresentare il "limite" necessario per dare un senso ed un indirizzo al proprio lavoro:

“La difficoltà che ho avuto, una delle difficoltà che ho avuto e che ho un po’ ancora, è applicare quest'idea di un messaggio educativo, che credo sia molto giusto; però ogni tanto... Ti racconto un evento che mi viene in mente ora: io lavoro anche il sabato mattina, quindi quando ci sono da fare gli spostamenti per la spesa ce ne occupiamo io e uno dei ragazzi del servizio civile. E' capitato che una delle nostre ospiti mi chiedesse: guarda io vengo però ho da comprare solo il pane. Quindi non è che si può fare su e in giù, tutti ci chiamano: allora io ho fatto, io ho fatto tra dieci minuti... Si fa tipo trasporto navetta: alle dieci si parte, a mezzogiorno si viene a riprendervi. Se uno ha finito mezz'ora prima fa un giro per il centro commerciale, se uno voleva comprare due o tre cose in più torna in bicicletta infra-settimana o le compra il sabato dopo. Insomma si portano tutti i sabati quindi... Lei mi fa: guarda vado a prendere il pane e basta, mi aspetti un attimo li due minuti?. Effettivamente farla aspettare due ore per un po’ di pane. Non ci sono problemi, ti aspetto. Passano dieci minuti, passa un quarto d'ora, passano venti minuti, passa mezz'ora e questa non esce. Tu ti senti presa in giro. Perché dici: scusa tu mi avevi detto un po’ di pane. Aveva fatto la spesa solo che non aveva voglia di aspettare due ore, aveva da fare le sue cose in casa e mi ha chiesto di aspettare. Allora il rapporto con l'ospite: hai davanti una persona vulnerabile, che ne ha viste di tutte nella vita e che probabilmente gli stava fatica aspettare quelle due ore perché ha aspettato talmente tanto in vita sua che non ne può più, oppure hai davanti una persona, che cavolo, non ha rispetto per me? Io sto lavorando e son qui ad aspettarti. Non son la tua schiava, io son qui a sostenerti, non a esaudire i desideri" (Idem)

In molti operatori incontrati questa componente duale si fa costante nei discorsi sul rapporto con i rifugiati; il sapere dire di "no" diviene alle volte come una scoperta per gli

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operatori che si trovano sormontati dalle richieste o dalle difficoltà di gestione sia delle relazioni interne che di quelle esterne, per cui i silenzi delle istituzioni, le difficoltà derivanti magari dai ritardi delle questure a rilasciare un permesso e via dicendo, creano momenti di empatia289 con i rifugiati; gli operatori che hanno difficoltà a dire "no", fanno molto spesso riferimento alle numerose sofferenze vissute dai rifugiati, lasciando così intravedere il label del rifugiato-vittima a cui non si può negare assistenza e sostegno.

In altri casi, i comportamenti degli operatori non raccontano della creazione di dimensioni empatiche, quanto di una ricerca di distacco:

"perché per me è una questione di professionalità. Io non sono una... Io lo dico sempre ai ragazzi: non sono tua madre, non sono tua sorella, non sono una tua amica. Sono la tua educatrice... Non ritengo che sia molto producente stabilire con loro un rapporto di prossimità troppo... profonda ecco" (Operatrice Sprar, Intervista 12).

Mehdi, quando è giunto in Italia, sperava che questa rappresentasse una via di transito, e non il Paese in cui dover chiedere asilo; ma una volta entrato e depositate le impronte digitali si trova a vivere per dei mesi in un Cara, sino a quando viene trasferito nel primo posto Sprar disponibile:

"(...) mi hanno dato i biglietti per arrivare qua da Bari al Cara a [nome città dove è lo Sprar]. E non era interessante neanche quel giorno che sono arrivato qua ho perso un treno, ho preso un altro biglietto e quindi sono arrivato a [nome città dove è lo Sprar+ verso le 8.30 di sera, ho chiamato la operatrice, ha detto “Non siamo in orario del lavoro, domani chiama”, ho detto “Ma scusa, *sorride+ che devo fare io?” “Non lo so, non mi riguarda”. Non è facile. E per fortuna non ero da solo, ero con un altro amico, abbiamo trovato due signore molto gentili, ci hanno portati a un albergo. Perché non avevamo neanche per pagare il taxi” (Intervista 40).

Leggendo le sue parole, non stupisce se egli parla di se quasi come di un figlio abbandonato, sostenendo che l'operatore dovrebbe essere con i rifugiati come una madre coi figli.

Questo approccio genitoriale rilevato nell'ambito dei progetti, peraltro, non è attribuibile soltanto al lavoro del singolo operatore, ma va ricercato in un sistema istituzionale che ha improntato il lavoro dell'accoglienza dei rifugiati sulla presenza di figure educative e su legami interpersonali, rischiando troppo spesso di restare ancorato a dimensioni relazionali personalistiche e alle competenze della singola persona. Parlando del rapporto che intercorre tra operatori dei progetti e rifugiati-ospiti non si può prescindere dal far riferimento al contesto generale in cui i rifugiati sono immersi sin dal momento del loro ingresso in Italia.

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Il concetto di empatia ritorna sovente nella trattazione del tema del rifugio, si veda ad esempio Hayden che sottolinea come "the whole question of refugees is pre-eminently a moral one. The significant factor that distinguishes a refugee from other people who cross borders, people who are internally displaced, or indeed from those who have not moved at all but live in abysmal conditions, is the sense of responsibility and either pity or empathy we feel for them. 'Refugee', like all other such categories, is a relational term”. (2006, 478), ovvero: “tutta la questione dei rifugiati è preminentemente una questione morale. Il fatto significativo che distingui un rifugiato dalle altre persone che attraversano i confini, persone che sono sfollati interni, o persino da coloro che non si sono mai mossi ma vivono in condizioni terribili, è il senso di responsabilità oppure pietà o empatia che noi sentiamo per loro. 'Rifugiato’, come tutte le altre categorie simili, è un termine relazionale” (Traduzione mia). E ancora Catarci (2011, 63); Manocchi (2012, 155). Per approfondimenti sul concetto di empatia si veda Di Nuoscio (2006).

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Molti degli operatori incontrati raccontano del palcoscenico che si va creando nei contesti in cui lavorano:

"La mancanza di fiducia in alcuni casi è palpabile e la mancanza di volontà di farti partecipe dei tuoi progetti di vita, che se vuoi è legittimo ma mortificante. E quindi è come se si recitasse una parte in certi casi. Dentro un progetto lui recita la parte dell'ospite che deve fare il percorso di italiano, di cui non gliene frega niente perché magari il suo progetto è andare da un'altra parte, fare magari lo stage perché lo obbliga altrimenti non mi danno i pocket money che mi servono per avere qualche soldo in tasca. Questo penso che sia...io lo vivo quotidianamente all'interno del progetto ma credo che questo riscontro tu lo possa trovare da tante parti" (Intervista 3).

Un operatore fornisce una sua visione precisa di come gli ospiti si relazionino con il sistema di accoglienza, individuando tre tipologie di rifugiati-ospiti, e ciò che risalta maggiormente è l'azzardare una relazione di fiducia con il progetto, quale massima dimostrazione di affidamento al contesto italiano:

"fra di loro ci sono chi si concede quel rischio di collaborare con noi, in maniera costruttiva, e quindi è aperto agli stimoli che possiamo proporgli, ossia la frequenza del corso di italiano, piuttosto che andare ai corsi di formazione, tirocini e quant'altro.

Chi invece vede il suo stare qua come una soluzione temporanea a quelle che sono le esigenze più importanti ossia il tetto e il cibo, e siccome molti di loro hanno effettivamente il bisogno e la voglia di mandare soldi a casa, ad esempio, non vedono nei percorsi un qualcosa di costruttivo o comunque un qualcosa che li tolga in tempi brevi che risolva in tempi brevi i propri problemi (...).

La terza categoria è la categoria del fantasma. Il ragazzo che entra, che non lo vede e noi ci siamo fatti l'idea che è proprio una strategia per dire, se non mi vedono ...meno mi vedono e meno si ricordano di me quindi passa il tempo, lui però non, come dire, di alcuni sappiamo che non lavorano nemmeno, quindi avranno altri metodi per comunque...per trovare qualche soldo. E questa è una visione ancor più temporanea del proprio stare qua, senza nessuna finalità insomma, ai nostri occhi. Loro sicuramente hanno invece la loro...cioè noi pensiamo che ognuno di loro ha ben precisamente, è ben consapevole di quello che vuol fare. È difficile trovare tra virgolette ragazzi sprovveduti, molti di loro hanno ben chiaro cosa fare. Alcuni incrociano le nostre, come dire, le nostre proposte, altri vanno diritto per la propria strada andando incontro poi...ci sono ragazzi anche che sono stati espulsi perché erano qua senza nessuno scopo e giustamente per dare un turn over e dare occasione ad altri che aspettano sono stati mandati via" (Intervista 2).

Goffman definisce l'istituzione sociale “un luogo circondato da barriere permanenti tali da ostacolare la percezione, entro il quale si svolge un certo tipo di attività (…) *dove+ troviamo un'equipe di attori che cooperano per presentare al pubblico una certa definizione di situazione” (1969, 273); all'interno delle istituzioni sociali gli individui che le compongono sono osservabili sotto le cinque prospettive analitiche individuate dall'autore canadese. La prima riguarda la dimensione tecnica dell’istituzione, che può essere valutata “in termini di efficienza o inefficienza quale sistema di attività intenzionalmente organizzata per il raggiungimento di obiettivi prestabiliti” (Ibidem, 275); la seconda parla della dimensione politica dell'istituzione che fa riferimento alle azioni pretese e dalle “punizioni e ricompense che possono esser distribuite per sanzionare tali pretese, e dei tipi di controllo sociale che guidano l'esercizio del comando e l'uso delle sanzioni” (Idem); la terza riguarda la

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dimensione strutturale dell'istituzione, che fa riferimento alle “divisioni di status, orizzontali e verticali, e dei tipi di rapporti sociali che connettono questi diversi raggruppamenti fra di loro”; la quarta prospettiva riguarda la dimensione culturale, ovvero “in termini di valori morali che influenzano l'attività nell'istituzione stessa (...)” (Idem). Goffman cita in ultimo una quinta dimensione per poter analizzare le istituzioni, e riguarda quella drammaturgica, ovvero quella che consente di “descrivere le tecniche di controllo delle impressioni adoperate in una data istituzione, i principali problemi che sorgono in tale attività di controllo nell'istituzione medesima, l'identità delle diverse équipes che operano nell'istituzione e i rapporti che esistono tra di loro” (Idem).

Guardando al sistema-rifugio, come lo abbiamo analizzato sino ad ora, si potrebbe dedurre che i progetti stessi rappresentino delle istituzioni sociali a sé stanti, al cui interno si

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