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Il paradigma (paradosso) di una Refugeezenship

Nel documento Abitanti di uno spazio (pagine 37-41)

Nell'ambito del sistema-rifugio è importante individuare un punto di vista che consenta di portare alla luce le dinamiche che costituiscono il superamento delle etichette e delle pratiche esclusive, per comprendere il valore stesso del concetto di asilo. Ciò si affianca a tutti quegli approcci riduzionisti che sorgono nello studio dei contesti attinenti al sistema-rifugio, e in cui spesso si lasciano in ombra pratiche di resistenza e di non-loyalty ad un sistema escludente, ovvero la “capacità di agency di quegli attori sociali che vengono appiattiti nella categoria dei 'rifugiati' o 'migranti forzati'” (Ambrosini in Ambrosini e Marchetti 2008, 17; Ambrosini 2010).

Ritornando ad un tema già affrontato, si reputa interessante riportare quanto proposto da Turton (2003) che, interrogandosi su quali elementi compongano la distinzione tra migrazioni forzate e migrazioni volontarie, si chiede se effettivamente sia necessario compiere una distinzione di tale genere. Per questa seconda domanda egli individua tre possibili risposte. La prima riguarda un approccio che considera l'esperienza dei rifugiati fondata su bisogni e vissuti differenti, e tale approccio egli lo ritrova nei refugee studies51

. Parallelamente, vi è una risposta negli sviluppi delle migrazioni internazionali e in particolare delle migrazioni forzate che, in riferimento a Castles, sono esse stesse parte di un cambiamento a livello globale. L'autore ci fornisce un terzo “buon motivo” per uno studio specifico delle migrazioni forzate ed è che esse attivano un richiamo speciale a ciò che ci sta a cuore, ci obbligano a riflettere sulle nostre responsabilità e a porci in relazione con temi quali appartenenza, cittadinanza e liberalismo democratico. Per dirla con le sue parole, “they require us, in other words, to consider who we are – what is or should be our moral community and, ultimately, what it means to be human”52

(Turton 2003, 8).

Si è visto che proprio i concetti di cittadinanza e appartenenza si fondono in modo inequivocabile con un discorso sulle migrazioni forzate e come le etichette che derivano da tentativi di concettualizzazione e categorizzazione di tale fenomeno sfocino spesso in convenient images in grado di supportare una visione negativa o vittimizzante del migrante forzato, con indosso un abito escludente nella maggior parte dei casi. Turton sottolinea come, secondo alcune teorie, la stessa distinzione tra migrante forzato e volontario sottenda a un rischio simile. Egli riporta quanto sostenuto da Richmond (Turton 2003) il quale, differenziando la migrazione tra proactive e reactive, quindi suddivisa tra chi decide di migrare e chi subisce una tale azione, lascia emergere ciò che Turton definisce un ethical problem (Ibidem, 9). Secondo tale visione, i rifugiati sarebbero considerati dei soggetti che si fanno portatori di un livello minimo, se non del tutto nullo, di capacità di agency, in quanto subiscono l'esperienza migratoria propriamente detta forzata. Ma se le migrazioni rappresentano ciò che noi stessi siamo, sia sul piano individuale che collettivo e sia sociale che politico, è fondamentale riconoscere che non è pensabile rinchiudere delle categorie di

51 Si veda il sito del Refugee Studies Centre di Oxford, fondato da Barbara Harrell-Bond. http://www.rsc.ox.ac.uk/ (7 novembre 2013).

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“Ci richiedono, in altre parole, di considerare chi noi siamo – cosa è o dovrebbe essere la nostra comunità morale ed, essenzialmente, che cosa significa essere umani” (Traduzione mia).

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migranti in dimensioni di staticità e quasi totale passività, altrimenti ciò vorrebbe dire che noi stessi siamo completamente in balia degli eventi.

Risulta centrale, al fine di presupporre la condivisione di tale proposta, approfondire cosa si intenda per agency. Secondo Ortner, l'agency rappresenta una forma di intenzionalità attiva che si distanzia dalle semplici pratiche quotidiane (2006, 136). Sewell (1992) la definisce come la capacità della persona di reinterpretare e mobilitare una gamma di risorse, in termini di schemi culturali altri rispetto a quelli che inizialmente si avevano a disposizione. È una risorsa comune ad ogni individuo, ma il modo e la forza con cui si sviluppa dipende in modo fondamentale dalla capacità di agire creativamente (Sewell 1992, 19-20). Essa non è uniformabile e uguale in ogni persona o gruppo di persone, poiché dipende intrinsecamente da quali sono i desideri e le intenzioni di ogni soggetto, o gruppo di soggetti, e a quali trasposizioni creative essi possono portare (Ibidem, 20). Citando nuovamente Ortner, ella sostiene che “(...) in one modality agency is closely related to ideas of power, including both domination and resistance; in another it is closely related to ideas of intention, to people's (culturally constituted) projects in the world and their ability to engage and enact them”53

(Ortner 2006, 143).

L'autrice porta alla luce due componenti per lei fondamentali cui l'agency afferisce, da un lato vi è il potere, dall'altro il progetto. La prima, l'agency del potere si presenta sia come dominazione che resistenza, ed è ritrovabile nelle dinamiche sociali dove si impongono a dominanti e dominati. La seconda è l'agency dei progetti, ed è quella che viene messa in difficoltà e rifiutata ai subordinati. È la stessa che funge da stimolo per i potenti, perché non è il dominio in quanto tale la loro finalità ma il poter esercitare il proprio potere. Ed è quella che le persone meno potenti coltivano e proteggono in luoghi creati appositamente, luoghi che Ortner definisce on the margin of power (Ibidem, 144). Le due forme di agency non sono separate, ma correlate tra loro in quanto, come indicato poc'anzi, il potere è sia nell'obiettivo da cui scaturisce l'agency ma anche nel mezzo, poiché viene attivato al fine di avere progetti propri e poterli proteggere. L'agency dei progetti è, secondo l'autrice, quella più importante:

"The agency of projects is not necessarily about domination and resistance, although there may be some of that going on. It is about people having desires that grow out of their own structures of life, including very centrally their own structures of inequality; it is in short about people playing, or trying to play, their own serious games even as more powerful parties seek to devalue and even destroy them”54 (Ortner 2006, 144).

In un'etnografia svolta tra Italia e Belgio, Korac (2009) mette in relazione ben due etichette, il Rom e il rifugiato, mediante la descrizione di incontri che avvengono tra la popolazione autoctona e gli abitanti dei “campi” che non seguono i percorsi standard dei rifugiati ma, da

53 “Secondo una prima modalità l'agency è strettamente connessa con l'idea di potere, includendo sia il dominio che la resistenza; in un’altra è strettamente collegata con l'idea di intenzione, con i progetti (culturalmente costituiti) delle persone nel mondo e con la loro abilità di impegnarsi e rappresentarli *nel senso di “metterli in scena”+” (Traduzione mia).

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“L'agency dei progetti non ha necessariamente a che fare con il dominio e la resistenza, anche se può avere in parte queste componenti. Essa ha a che fare con persone che hanno desideri, che si sviluppano dalle loro stesse strutture di vita, includendo in modo centrale le loro stesse strutture di ineguaglianza; in pratica ha a che fare con persone che giocano, o tentano di giocare, i loro giochi seri anche se parti che detengono maggior potere tentano di svalutarli o anche distruggerli” (Traduzione mia).

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rifugiati, seguono i percorsi che sono in un immaginario stereotipato solitamente attribuiti alle persone di origine Rom. Da essa emerge come attraverso esperienze di legami che vanno oltre il sistema-rifugio previsto dalle leggi e dalle offerte burocratiche ed istituzionali, si formino legami e interazioni positive tra autoctoni, in questo caso gli italiani, e i rifugiati che vivono in campi Rom. In questa esperienza l'agency ricopre un ruolo positivo e di sprone per i rifugiati che ne riconoscono l'attivazione e la presenza. Korac racconta che, trattandosi di persone con status temporanei e prive di una stabilità lavorativa, oltre che come già accennato fuori dalla rete dei progetti, “(...) nessuno aveva la sensazione di essere riuscito a trovare un posto sicuro per sé in Italia” (Ibidem, 143), e la parola perdita era collegata al

welfare e alle prospettive future, ma non alle capacità personali di rimessa in gioco55, non

alla propria agency. Secondo l'autrice il principale determinante di benessere “non va attribuito al grado di discrepanza tra obiettivi e reali condizioni di insediamento” (Idem) quanto alla effettiva possibilità di esercitare l'agency nel reinsediarsi (Korac 2009, 143). Anche nelle migrazioni forzate è fondamentale riconoscere questa stessa agency dei progetti, e al tempo stesso ricordare che le condizioni di partenza e di spostamento dei rifugiati sono fatte di bagagli diversi e spesso più complessi di quelli dei migranti altri. La persona che chiede asilo è caricata di aspettative continue, che sia una vittima, che sia genuina, che racconti la verità, che racconti il falso, che racconti tutto. Parallelamente la persona che chiede asilo proietta sul Paese di arrivo aspettative che riguardano il suo essere un rifugiato in cerca di protezione56

.

Come si è visto, il sistema-rifugio si interfaccia costantemente con la tensione che sottende al dualismo tra dentro e fuori. Risulta pertanto importante domandarsi cosa corre lungo questo invisibile confine, quali sono le dinamiche che determinano l'entrare e l'uscire, come si relazionano le varie aspettative che si attivano da parte e dei rifugiati e del sistema-rifugio di riferimento. E ancora, cosa succede una volta dentro o fuori dal sistema e se tale passaggio sia statico o dinamico.

Lavorare a contatto con il sistema-rifugio permette di fornire subitaneamente una risposta all'ultimo quesito, determinando a priori che tale contesto non è pensabile come statico ma in continua formazione e trasformazione. E' possibile dedurre ciò dalle stesse teorizzazioni scaturite dalle esperienze di Malkki e Zetter, che hanno fornito allo studio delle migrazioni

55 Si sottolinea come nel contesto dell'asilo vi siano vari termini di uso corrente che si basano proprio sul”rimettersi in gioco”, di cui qui ne indichiamo due. Il primo è il concetto di coping che viene definito come l'insieme di “sforzi cognitivi e comportamentali dell'individuo, mirati alla gestione di situazioni stressanti, che comportano percezioni di minaccia, perdita, sfida (…); le persone richiedenti protezione internazionale e rifugiate mettono in atto una serie di meccanismi di coping per far fronte alla difficoltà nella quale si trovano a vivere” (Costella, Furia e Lanti 2011, 76). Il secondo è il concetto di resilienza che nelle scienze naturali è definita letteralmente come la capacità di un materiale di riprendersi dopo un urto, ovvero, per traslato, la capacità di rimarginare una ferita, la possibilità di ripresa dopo un trauma, l’opportunità di ritrovare le proprie risorse, di sperimentarne nuove, per avviare un percorso di riconoscimento. Nel caso dei richiedenti protezione internazionale si può affermare che gli individui potenzialmente possono essere feriti o, al contrario, mantenere pressoché inalterate tutte o parte delle funzioni psichiche. Se gli individui sono stati effettivamente feriti, la psiche, come il corpo, è capace di rimarginare molte ferite” (Ibidem, 70).

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È importante sottolineare che con questa frase non si intende generalizzare le modalità e i connessi sentimenti con cui una persona giunge in Italia e chiede asilo. Non tutti i migranti forzati decidono di vivere in Italia, non tutti decidono di entrare nella rete dei progetti di accoglienza, non tutti sono proiettati verso l'esercizio di un diritto, e non tutti si dissociano dalla sua rivendicazione. Chiedere asilo significa anche attivare una eterogeneità (Korac 2009, 147) di approcci al sistema-rifugio ed a come esso viene percepito ed esperito.

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forzate solidi riferimenti teorici. Cambiano le etichette, gli status attribuiti a livello giuridico, i parametri di riferimento sia per chi aspira ad entrare nel sistema-rifugio, sia per chi tenta di uscirne attraverso molteplici e differenti modalità.

Per tentare di rispondere alle altre domande e cercare di analizzare più da vicino cosa avviene e quali dinamiche si formino e si modellino nel costante fluttuare dallo status di cittadino a quello di rifugiato, e quali siano le tecnologie sociali messe in atto dagli attori coinvolti, si propone quale lente di ingrandimento un paradigma che rappresenti tale commistione di status che, al tempo stesso, sono fatti di una reciproca negazione, definendolo il paradosso della refugeezenship57. L'obiettivo è quello di indagare il tema del rifugio partendo non solo dai rifugiati o dai soggetti istituzionali di riferimento, ma dalle pratiche dialogiche che si stabiliscono tra loro. Questo concetto vuole sottolineare la non staticità del rifugio e la costante trasformazione del rifugismo.

Essendo la cittadinanza sociale, come già sottolineato, quella che incorpora maggiormente il lato esclusivo della cittadinanza, il paradosso della refugeezenship si sviluppa in uno spazio liminale entro cui le cittadinanze sociali dei rifugiati si formano in base alle chiavi di accesso a disposizione per l'esercizio dei propri diritti. E il paradosso risiede proprio nel non essere più cittadino del Paese di provenienza, almeno nell'esercizio di determinati diritti, e non essere ancora cittadino del Paese di arrivo, nonostante l'esercizio di determinati diritti, di fatto quindi, “inclassificabile” (Beneduce 2004, 138). Ed ai margini di questa condizione di inclassificabilità, e volendo riprendere la proposta di Balibar, secondo cui l'esclusione può essere anche un luogo di sovra-determinazione, il paradosso della refugeezenship si fa anche portatore delle pratiche che vanno a sovvertire i limiti imposti, attraverso la voice degli attori coinvolti.

È importante però sottolineare anche che le agency e le soluzioni che si possono sviluppare in forme più o meno incisive all'interno di questo spazio liminale devono confrontarsi sempre con la componente costante del rifugio, la sua incertezza (Urru in Sorgoni 2011; Bauman 2004; Appadurai 2005). Il sistema-rifugio italiano si basa fortemente sulla produzione di incertezze. A partire dai momenti in cui una persona chiede asilo, l'incertezza si ripercuote su due fronti: sull'esercizio dei diritti afferenti allo status di richiedente asilo e sulla persona stessa in quanto richiedente asilo. Nel primo caso l'incertezza è insita nei percorsi che il sistema-rifugio italiano prevede per i richiedenti asilo: si pensi ad esempio

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Il neologismo qui proposto si rifà ad altre concettualizzazioni, derivanti sia dall'ambito sociologico che giuridico. Un esempio che deve essere menzionato in questa sede è il concetto di denizenship. Si tratta di un concetto introdotto per la prima volta da Hammar (1989), e sta ad indicare “una condizione intermedia tra lo status di straniero e quello di cittadino” (Valzania in Berti e Valzania 2010, 121). Zanfrini, in riferimento alle origini della definizione di denizenship, la definisce un concetto “inglese, risalente all'epoca in cui il sovrano garantiva agli stranieri il diritto a risiedere nel regno e di accedere alla maggioranza dei privilegi riconosciuti ai cittadini e che oggi trova applicazione in molti paesi (almeno nell'ambito delle società democratiche), quale esito di un progressivo rafforzamento dello status giuridico (…) e dell'ampliamento dei diritti (specie sociali) riconosciuti agli immigrati” (Zanfrini 2007b, 19-20). L'autrice prosegue sottolineando che l'origine di questo tipo particolare di status rispecchia una disattesa evoluzione della presenza non più temporanea degli immigrati, a cui è stata conferita questa cittadinanza ibrida, portatrice di diritti parzialmente riconosciuti. Vi sono in merito due filoni che si dividono in merito al concetto di denizenship: il primo la considera una “membership sociale” che garantisce l'adesione delle comunità non nazionali a quella nazionale, “senza necessariamente richiedere la loro adesione alla comunità politica” (Ibidem, 20), e questa è la visione positivista; vi è poi un filone critico che la definsice una “membership parziale” (Idem), quasi ad evitare il procedimento della naturalizzazione che invece garantirebbe i medesimi diritti tra autoctoni e migranti.

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alle modalità di accesso al principale progetto nazionale presente in Italia e specifico per l'accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati – lo Sprar58

- che avendo a disposizione pochi posti sul territorio italiano, quando una persona fa domanda per esservi inserita deve accettare di andare nel primo posto disponibile, e ciò può significare anche dover andare in un progetto di una regione diversa da quella in cui la persona si trova al momento della richiesta59

. L'incertezza è legata non solo ai luoghi ma anche alla componente temporale. Il tempo rappresenta un elemento ricorrente nella produzione di incertezze del sistema-rifugio italiano; esso determina e condiziona il formarsi di una lunga attesa per essere chiamati in Commissione, per ricevere una risposta, per un eventuale ricorso in caso di esito negativo alla domanda di protezione. E ancora, nella richiesta di asilo l'incertezza viene a collocarsi proprio “dentro” la vita della persona che chiede asilo, poiché si producono una serie di pratiche volte a dimostrarne l'attendibilità e, dunque, il richiedente spesso si trova a vivere un periodo in cui deve impegnarsi nella produzione di prove che smentiscano le possibili incertezze sulla sua storia di vita, sulla sua memoria che fluttua tra la ricostruzione e l'oblio (Taliani 2011), in quanto chiave di accesso per l'ottenimento di una protezione in Italia. Grazie anche all'esperienza professionale di chi scrive si può affermare che anche dopo l'ottenimento della protezione, la componente di incertezza è parte del quotidiano di molti rifugiati.

Ecco dunque che la refugeezenship è uno spazio alimentato da continuità fratturate (Luibhéid in Brotman e Ou Jin Lee 2011, 245), dove il rifugiato si scontra e si confronta costantemente e si reinventa, in relazione con gli altri soggetti del sistema-rifugio, come in questa etnografia saranno gli operatori dei progetti di accoglienza e gli altri burocrati della strada (Lipsky 2010) che lavorano nei luoghi cui i rifugiati si rivolgono per accedere ai propri diritti sociali.

Nel documento Abitanti di uno spazio (pagine 37-41)