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8. Rifugio, un ciclo di paradossi
Circa venti anni fa, una sociologa italiana, Delle Donne, ha pubblicato un testo intitolato “La strada dell'oblio”. Esso racconta le prime esperienze italiane in relazione con i rifugiati e i richiedenti asilo giunti in un Paese dove ben poco era stato fatto sino a quel momento, e che, come abbiamo potuto vedere nella breve storia del sistema di accoglienza, è proprio negli anni Novanta che inizia.
Leggendo questo testo, l'attenzione del lettore non può non venir colta da una particolarità insita nelle parole che descrivono il sistema asilo di quegli anni, come in questo estratto da una intervista con un gruppo di rifugiati etiopici:
“Il problema centrale è che i rifugiati non sono considerati come rifugiati (…) Ci basterebbe tener conto che un rifugiato in teoria dovrebbe essere parificato, salvo i diritti politici, a un cittadino italiano, se non altro ad un cittadino sanmarinese. Di conseguenza dovrebbe avere una serie di diritti come quello alla casa e al lavoro, dovrebbe poter entrare nella pubblica amministrazione, fare i concorsi fino ad un certo livello (...)” (Delle Donne 1995, 79).
Ancora oggi queste parole suonano familiari all'attuale contesto del rifugio italiano che, nonostante l'evoluzione e il rafforzamento delle prime esperienze nate proprio in quegli anni, è ancora di fronte alla presenza di una assenza:
(...) il dopo, il dopo accoglienza. E credo che è questo che manca a livello Italia, perché anche se riescono a coprire, a poter accogliere tutti no, non serve soltanto accoglierli se non c'è l'integrazione, se non c'è una possibilità di poter fissare chi tu hai accolto, di poter fissarlo dopo, credo che sono soldi buttati via, tempi sprecati per niente. Perché tu dai un percorso a qualcuno per quasi un anno, e dopo un anno tutto quello che hai potuto dare a questa persona sul punto di vista educativo e morale, se tutto questo dopo un anno la persona va via dimenticando tutto, non vedo un po' la finalità di questa accoglienza. Se magari uno, se la politica dell'accoglienza in Italia si concentra unicamente a dare cibo, alloggio senza esperienza a qualcuno non credo, perché gli altri Paesi uno ci va e rimane, si fissa si integra (...)" (Louis, Intervista 39).
Gli abitanti del rifugio, siano essi per primi i rifugiati o chi con loro lavora nella quotidianità, sono portatori di forti consapevolezze rispetto a quelli che sono i limiti che li circondano; confini labili, fluttuanti.
Il percorso che si è tentato di ricostruire in questo capitolo, è quello di un viaggio attraverso le possibili tappe tra le maglie del sistema-rifugio, con l'esperienza di chi quotidianamente lo vive e vi lavora all'interno.
Si è proposta una sequenza temporale che in qualche modo rispecchia il tempo dei progetti del sistema asilo - sempre consapevoli del fatto che non tutti vi accedono in maniera eguale, quindi passando dai Cara, all'ingresso in un progetto di accoglienza per rifugiati, alla quotidianità specifica relativa all'accesso al diritto alla salute, sino al momento che riguarda l'uscita dai progetti. In ognuno di questi tempi è stato inevitabile il dialogo con l'esperienza del mondo fuori dai progetti ed in particolare dentro le marginalità socio-abitative, poiché,
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sebbene ciò non faccia parte di un discorso pubblico ricorrente, essi sono necessariamente compenetrati.
Vi sono vari elementi che accomunano queste fasi di accesso ai diritti; ma in particolare ciò che ci preme sottolineare è l'elemento che forse rende il rifugio un campo insicuro, ed è la frammentarietà del diritto e delle pratiche che ne consentono l'accesso.
Il contesto regionale toscano racconta la fatica per riuscire a stabilire una continuità tra il lavoro iniziato all'interno dei percorsi di accoglienza e il sistema pubblico con cui i rifugiati si dovrebbero poter relazionare in veste di cittadini una volta usciti dai progetti. Si creano meccanismi paradossali per cui il rifugiato accede in modo più diretto ai propri diritti nel momento in cui ricopre il ruolo di ospite, quindi con la presenza a fianco dell'operatore che ne supporta il dialogo con il sistema pubblico; ma nel momento in cui può pensare di riappropriasi di una autonomia che prescinde dal dover sottostare alle norme dei progetti, i passi fatti tornano spesso indietro: si perde la residenza, si perdono i diritti sociali, si perde ciò che era stato ottenuto grazie al privato sociale e qualora la fase della conclusione dei progetti sia problematica o delicata, sono proprio i servizi del sistema pubblico istituzionale a fornire spesso risposte di delega allo status di ospite di un progetto, demandando così la responsabilità di presa in carico al progetto stesso, anche a fronte delle difficoltà economiche vissute dai settori, in questo caso, socio-sanitari.
L'esperienza toscana non si discosta da un più vasto contesto nazionale, dove le difficoltà di accesso ai diritti sociali, se paragonate ai dati rilevati dalle Linee Guida del Ciac del 2011:
“sono rimaste essenzialmente le stesse e sono legate al nodo della iscrizione anagrafica. E ancora una volta avviene proprio perché il nodo della integrazione sociale non funziona. Il titolare di protezione che esce da un centro di prima accoglienza o di accoglienza per richiedenti asilo, non è in quel centro residente, o non viene iscritto come residente in quel centro e quindi nel momento in cui esce, esce con un titolo di soggiorno, di protezione, nel quale c'è un indirizzo che è una finzione perché è esattamente l'indirizzo del luogo in cui lui non può più stare (…), questa situazione crea un incredibile paradosso, crea i rifugiati senza fissa dimora, che poi vagano per tutta l'Italia cercando quale è il luogo nel quale poter eleggere, scusa, effettuare l'iscrizione anagrafica divenendo residenti. Vengono rifiutati un po’ da tutti; perché chiunque lo riconosca come residente nel proprio comune chiaramente è un soggetto debole, quindi una ulteriore persona da assistere. Si guarda che nel permesso di soggiorno è scritto, che so, Cara di Crotone, si dice: ah ma devi andare a Crotone! Ma Crotone è proprio il posto in cui non posso stare! Ah, non so cosa farci! E questo meccanismo ha prodotto questa sorta di bolla italiana che è una sorta di espulsione sociale dei rifugiati, che si sono trovati a vagare per l'Italia, ad occupare gli stabili nelle aree metropolitane e ad innescare meccanismi di marginalità sociale incredibili. Prevedere un diritto alla seconda accoglienza dei rifugiati, e prevederlo in un meccanismo di accoglienza diffusa, quello che dicevo prima, permetterebbe di archiviare per sempre questo paradosso perché è evidente che poi la persona trova la residenza nel luogo in cui... Anche eventualmente spostandosi da richiedente a rifugiato, essendo inviato in un'altra città, a quel punto però in quella città elegge residenza. Per cui alla fine del percorso di inclusione, quando termina, non avremmo più un rifugiato che non è di nessuno ma è di quel territorio” (Gianfranco Schiavone, Intervista 31).
Avere un indirizzo, avere una casa, avere un luogo in cui poter stabilire una dimora diviene dunque un simbolo controverso anche per poter poi avere un medico, per poter accedere a quelle pratiche di cittadinanza che consentirebbero l'equiparazione tra rifugiati e cittadini. Ma questo difficilmente avviene in un Paese considerato da molti un terreno di passaggio,
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anche da molti che in Italia ci vivono e ci stanno permanendo. La fuggevolezza non è solo fisica, è incorporata dalla stessa vita delle persone rifugiate tout court, che assieme a chi lavora con loro, divengono abitanti di questo spazio incerto.