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Dal governo al potere: nascita della rappresentanza moderna

Capitolo 2 I Principi di Politica

3.1 Dal governo al potere: nascita della rappresentanza moderna

La rivoluzione francese è, certamente, luogo privilegiato per la formazione del concetto moderno di rappresentanza politica. Questa nasce da un cambiamento nella concezione del popolo e dei singoli individui. Nelle cosiddette società cetuali il popolo era suddiviso in classi o gruppi, ognuno dei quali era caratterizzato da una serie di interessi particolari da far valere nei confronti del potere sovrano. In questa concezione l'individuo non svolgeva un ruolo determinante nel funzionamento complessivo della politica e la volontà e il consenso non erano necessari per rendere legittima una forma di governo. Il singolo cittadino si esprimeva politicamente, non in quanto individuo ma attraverso gli interessi della cerchia di cui faceva parte e anche la partecipazione alla vita politica passava esclusivamente attraverso il gruppo di appartenenza. In questa concezione pluralistica anche il popolo non aveva carattere unitario, ma era il risultato della somma e dell'accordo delle diverse parti che lo costituivano. Per le società cetuali il popolo – e questa è la caratteristica peculiare di questo modo di vedere le cose – era una realtà pre-costituita che chiedeva di essere rappresentata da un sovrano, con il quale poteva stipulare un contratto e controllarne l'operato, dato che la sua esistenza era rispetto ad esso autonoma e precedente. Il popolo era composto da gruppi di individui i cui interessi cercavano rappresentanza e il rappresentante, in questo caso, era colui che “stava al posto di”, colui che veniva scelto da un gruppo, in quanto ne condivideva desideri, bisogni, modi di vivere, e il quale con mandato imperativo

doveva sostenere quegli interessi comuni di fronte al potere regale. Nelle parole di Duso: «il popolo può costituire e delegare potestas, in quanto è costituito, ed è realtà che può esprimersi prima del patto, mediante il patto e dopo il patto»110. Veniva,

inoltre, affermata la naturalità della società e del governo: era nella normalità delle cose che una realtà associativa composta da elementi differenti che chiedevano ognuno l'espressione dei propri interessi necessitasse di una guida – dunque di un governo – e che ci fosse qualcuno che governava e qualcuno che veniva governato.

Dal XVIII sec. in poi, le cose cominciarono a cambiare, cambiarono credenze e valori e, in particolare, il concetto di uguaglianza e cittadinanza. Nella cultura politica del secolo si era affermato il principio per cui ogni autorità legittima doveva derivare dal consenso di coloro sui quali era esercitata, in altre parole che gli individui erano tenuti a rispondere solo a ciò a cui avevano acconsentito. Le tre rivoluzioni moderne furono portate a termine proprio in nome di tale principio. La convinzione che il consenso costituisse l'unica fonte di autorità legittima era comune a tutti i teorici del diritto naturale, da Hobbes, passando per Locke fino a Rousseau. In Francia, Thouret – una figura chiave della Rivoluzione – all'inizio del 1789 pubblicò un abbozzo di dichiarazione dei diritti che includeva l'articolo seguente:

Tutti i cittadini devono avere il diritto di concorrere, individualmente o attraverso i loro rappresentanti, alla formazione delle leggi, e di sottomettersi solo a quelle alle quali hanno acconsentito liberamente111.

110 G. Duso, La rappresentanza politica. Genesi e crisi del concetto, FrancoAngeli, Milano, 2003, p.74.

111 J.G. Thouret, Projet de déclaration des droits de l'homme en société (1789), in S. Rials (a cura di),

È in questo momento in cui al centro della scena c'è ormai l'eguale diritto ad acconsentire al potere, e non, o in misura molto minore, l'eguale possibilità di ricoprire una carica, che nasce il governo rappresentativo. Con esso emerge anche una nuova concezione della cittadinanza: i cittadini adesso sono visti principalmente come fonte di legittimità politica, anziché come individui che possono ricoprire una carica in prima persona. È il primo passo di quelli che porteranno dalla libertà politica come era concepita dagli antichi alla libertà individuale tipica dei moderni. Anche l'importanza crescente che fu attribuita alle elezioni rifletteva la centralità che aveva assunto il consenso popolare. Nel sistema elettivo ogni individuo acconsente non solo all'utilizzo del metodo – come era, invece, per l'estrazione a sorte nelle democrazie antiche – ma ad ogni risultato particolare e il suo consenso è costantemente reiterato. Attraverso le elezioni, però, non solo avviene la selezione di coloro che ricopriranno la carica, ma si dà una vera e propria forma di legittimazione del potere che crea nei votanti un sentimento di obbligo e impegno nei confronti di coloro che hanno designato, proprio perché liberamente scelti attraverso il consenso. Ecco perché le elezioni possono divenire uno strumento pericoloso, suscettibili di dar forma a un governo arbitrario e usurpatore se non sono accompagnate da un controllo costante e da una libertà politica del popolo che non si riduca solo al momento della scelta. È questa, come vedremo, la denuncia tanto di Rousseau quanto di Constant, i quali però offrono due soluzioni diverse. Sul cambiamento appena descritto Duso si esprime in questo modo:

Ora l’intento di base è quello di farla finita con il governo dell’uomo sull’uomo, che risulta ingiusto in relazione al duplice assunto: che tutti gli uomini sono uguali, e che non è più riconoscibile alcun ordine naturale, cosmico, teologico o

giuridico che serva ad orientarsi. L’azzeramento della tradizione di filosofia pratica va di pari passo con l’azzeramento della realtà politica che ci circonda, nella quale non è ravvisabile alcun criterio di giustizia […] La questione non è più quella di riconoscere un bene e un nomos comune, né di guidare su questa base la comunità, ma piuttosto quella di lasciare che ognuno persegua il suo bene e la sua fede per suo conto, privatamente, evitando che ciò sia causa di conflitto. Qui non c’è più spazio per il governo, nel senso antico del termine, ma ciò che è necessario è un potere costituito dalla forza di tutti, che renda irrilevanti le eventuali differenze di forza tra gli individui ed eviti perciò la supremazia degli uni sugli altri ed ogni pretesa di governo112.

Per far sì, dunque, che ognuno possa perseguire privatamente il proprio bene e i propri interessi particolari, con l'unica clausola che ciò non sia motivo di conflitto con gli altri o causa di mali, è necessario che il governo di pochi venga sostituto dal potere di tutti. La rappresentanza non deve più esprimere la volontà particolare privilegiata di un dato ordine, gruppo, organizzazione, bensì la volontà unica di tutta la nazione. Se quella delle società cetuali poteva essere definita una concezione “descrittiva” della rappresentanza perché colui che veniva scelto per rappresentare un dato gruppo ne era il riflesso, la rappresentanza moderna si basa, invece, sulla teoria dell'indipendenza del rappresentante, il quale è un fiduciario, superiore agli interessi particolari dei singoli cittadini e in grado di formarsi un'idea del bene comune da perseguire. Si tratta, insomma, di dare vita a una volontà comune, ma in che modo? In questo caso non si parte da una realtà preesistente ma da qualcosa che deve ancora formarsi e che può prendere vita solo grazie all'atto rappresentativo. Il singolo individuo deve rinunciare alla propria possibilità di decisione e azione politica in favore di colui che rappresenterà una più alta unità. Il popolo per la politica moderna è una grandezza 112 G. Duso, La rappresentanza politica, op. cit., p.77.

costituente – e non una realtà costituita – che nasce solo grazie all'atto rappresentativo e può agire politicamente solo per mezzo della persona civile, con o contro la quale non può nulla perché ad essa ha alienato tutto il suo potere in cambio della possibilità di costituirsi e agire come popolo. In questo caso si presuppone che non ci sia alcuna volontà precedentemente formata e da rappresentare, ma si asserisce che l'unica volontà è quella che si viene formando nella rappresentanza stessa.

La stessa costituzione della forma politica – dice Duso – implica un coinvolgimento della totalità degli individui come fondamento del potere solo a patto dell'espropriazione del loro agire politico. Tutti diventano autori e, dunque, soggetti di azione, solo mediante il compimento di queste azioni nella scena pubblica da parte di quell'unico attore che è il sovrano, o il rappresentante della sovranità del popolo, solo cioè in quanto rinunciano ad agire essi stessi nel senso pubblico del termine113.

In altri termini non si dà nella realtà moderna la presenza immediata del popolo se non attraverso il principio formativo della rappresentazione. Rappresentare in senso moderno non è “stare al posto di” ma “rendere presente ciò che è assente”. Questa nuova concezione allontana dall'idea, diffusa nelle moderne democrazie e caratterizzante le società cetuali, della dipendenza del rappresentante dalla volontà di coloro che lo eleggono e giustifica la subordinazione assoluta al potere comune, eliminando ogni possibilità di resistenza. La legittimazione avviene attraverso una doppia affermazione: si dichiara, innanzitutto, che tale potere è l'unica costruzione che permetta la conservazione della vita e quindi anche il perseguimento per il singolo di ogni altro bene, inoltre che la volontà di quel potere non è la volontà di un singolo che

domina sugli altri individui divenuti sudditi, bensì la volontà di tutti in quanto membri del corpo politico, «la loro vera volontà politica, contro la loro volontà privata»114.

Come abbiamo detto, dunque, la rappresentanza di tipo moderno che emerge anche nei dibattiti della Rivoluzione francese fra '89 e '91, è il frutto di un cambiamento concettuale. Gli individui sono uguali detentori di diritti naturali, più di ogni altro l'uguaglianza e la libertà. Dalla prima segue la negazione del principio per cui ci sarebbe chi è destinato a governare e chi a essere governato. Per quanto riguarda la seconda non si tratta più di quel tipo di libertà, pre-XVIII sec., dall'assolutismo, dalle tasse, che si esprimeva sotto forma di immunità e privilegi, bensì si tratta della libertà della volontà di esprimersi in ogni direzione, con il solo limite di non nuocere agli altri. Non si tratta nemmeno più di quel tipo di libertà che era propria solo di alcuni, i quali ne godevano proprio grazie alla schiavitù di altri, che con il loro lavoro liberavano i primi dalle necessità primarie e gli permettevano libertà politica. L'unico limite alla “nuova” libertà è posto adesso dalla garanzia della sicurezza altrui e tale limite è stabilito dalla legge, la quale, per essere funzionale alla libertà stessa, deve poter essere stabilita dagli individui di modo che, obbedendo alla legge, non obbediscano che alla propria volontà. Il cittadino non dovrebbe essere suddito di nessun altro se non di se stesso ma questa istanza all'atto pratico non può essere rispettata. Il popolo che ubbidisce alle leggi non è lo stesso che le ha fatte, al massimo può essere lo stesso che ha scelto colui, o coloro, che le hanno emanate, ma la sua libertà si esaurisce sempre nella scelta dell'atto fondativo di quel potere che poi, di fatto, diventa autonomo. Lo stesso Sieyes che si impegnò ardentemente affinché a un governo basato ancora sulle differenze e sulla divisione in ceti, si sostituisse, in 114 Ivi, p.79.

risposta alle nuove idee di libertà e uguaglianza, un popolo omogeneo, una nazione senza privilegi né differenze (se non quelli sociali legati al lavoro) non sostenne comunque mai la volontà generale alla Rousseau, piuttosto una volontà generale rappresentativa. Infatti non solo il potere costituito, ma anche il potere costituente – dato che il popolo per esprimersi ha bisogno comunque di un gruppo di persone a cui delegare – è necessariamente rappresentativo. Ci potremmo chiedere, allora, perché una teoria che parte dall'affermazione della centralità dell'individuo e dei suoi diritti, finisca per relegare, di fatto, la sua libertà a una singola scelta: la realtà delle cose costringe l'individuo a rinunciare a una parte della sua libertà, quella che lo vedrebbe difendere gli interessi particolari del gruppo cui appartiene e che lo renderebbe passibile di subire l'arbitrio o la violenza di quelli del gruppo più forte, quella che sarebbe impossibile riuscire a conciliare con ogni altra senza creare ogni volta uno scontro, in favore dell'interesse comune il quale poi non è altro che ciò permette la difesa della propria vita e del proprio spazio privato, nel quale ognuno potrà perseguire ciò che è bene per lui. Ma il modo in cui viene definito questo interesse comune è di importanza cruciale per far sì che la “nuova” rappresentanza risponda effettivamente alle esigenze dell'individuo moderno e si evitino derive assolutistiche. Infatti solo se questo bene comune mantiene le caratteristiche di dato empirico generatosi dal compromesso di diverse opinioni particolari – quelle che di volta in volta costituiscono la maggioranza – le libertà individuali saranno tutelate attraverso una limitazione del potere dello Stato che dovrà ridimensionarle e, per così dire, equilibrarle, ma mai sostituirle. Se, invece, come accade per Hobbes e Rousseau, abbagliati dalla possibilità dell'esistenza di un principio ideale di bene e giustizia da perseguire, si fa prendere a

questa volontà il sopravvento, dimenticandosi la sua natura di garanzia, allora proprio quella libertà individuale che si voleva difendere ne risulterà del tutto espropriata. È il pericolo delle teorie “pure” che troviamo denunciato da Constant. Certo è che grazie alla fiducia espressa mediante il voto – e se il consenso si riduce a questo – il corpo rappresentativo è sottratto ad ogni determinazione diretta da parte della volontà dei cittadini e ad ogni loro controllo, il che rende possibile per i rappresentanti tradire il popolo, facendo passare per volontà generale la loro volontà particolare. Ecco l'idea rousseauiana secondo cui la rappresentanza comporterebbe un'inaccettabile alienazione della sovranità del popolo. Constant riscontra la stessa aporia nella rappresentanza di tipo moderno ma ritiene che il problema non sia nello stabilire chi debba essere il detentore della sovranità, bensì nei limiti che ad essa devono essere posti.