Capitolo 2 I Principi di Politica
4.5 La natura del “bene comune”
Spesso sentiamo dire che la politica ha come scopo il perseguimento del “bene comune”, concetto dalla difficile definizione, considerato il pericolo che deriva tanto
245 Ivi, p.489 (XVI.7). 246 Ivi, p.490.
dal fatto che venga svuotato fino a diventare un puro nome, quanto dal fatto che venga piegato a letture di tipo ideologico. Evidentemente, la perfezione dei singoli, delle famiglie, delle associazioni e così via, rimanda a qualche denominatore comune a tutti i diversi soggetti indicati, altrimenti assisteremmo alla guerra di tutti contro tutti e non si darebbe nessun tipo di associazione, dalla più piccola alla più estesa. In quest'ottica, potrebbe sembrare che l’individualità debba essere sacrificata alla molteplicità, ma non è così, poiché ogni soggettività può realizzarsi nella dimensione comunitaria e avere una relazione e un'apertura al “noi” in un modo che non lo annulli o lo mortifichi bensì che lo arricchisca in una dinamica di dare e ricevere. Potremmo fare di nuovo riferimento alla relazione autentica di Levinas247. È una relazione in cui l'io parte da se
stesso, definendosi autonomamente e in maniera autoreferenziale, per poi aprirsi a relazioni fruttuose con il mondo esterno; significa realizzare l'armonia della società avendo come punto di partenza la singolarità di ognuno, che non deve essere superata ma integrata in modo equilibrato con le altre.
Il liberalismo esprime effettivamente la difficoltà di una libertà individualistica che deve essere in grado di produrre socialità. La socialità che produce è però sempre un prodotto dell'esistenza del singolo e non una condizione originaria dell'individuo stesso. Quando si parla di bene comune, del resto, ci si riferisce sempre ad una prospettiva che si potrebbe chiamare degli enti collettivi, cioè di ogni entità che costituisce un “tutto”, una molteplicità unificata secondo un suo ordine interno. Ogni realtà collettiva, infatti, ha un suo bene comune, che è costituito dal bene/fine che gli è per natura conveniente e che costituisce il suo scopo necessario. Abbiamo, dunque, innanzitutto messo in chiaro l'impossibilità di riferirsi a un bene comune che sia 247 Cfr. E. Levinas, Totalità e infinito, op. cit.
universalmente riconosciuto e stabilito una volta per tutte. Del resto l'idea secondo cui l'individuo si realizzerebbe soltanto abdicando alla propria particolarità in favore di un'unita, quella dello Stato, che costituirebbe la dimensione universale in cui poter dare senso alla propria esistenza e acquisire la morale (universalmente data), espone al pericolo da cui Constant vuole guardarsi. Si tratta della uniformazione a valori comuni, imposti da un altrui volontà, in niente a noi superiore, che toglierà ogni libertà agli individui e instaurerà, sorretta dal conformismo, una vera e propria tirannia. È il pericolo del fascino dell'Uno che distrugge la singolarità di ognuno in nome di una presunta verità universale. Constant, come abbiamo più volte sottolineato, è in prima fila nella critica di quest'universale, causa di ogni oppressione, di cui la volontà generale di Rousseau è esemplare espressione. Lo abbiamo visto difendere l'indipendenza della morale e l'importanza della volontà particolare, la necessità di un atteggiamento critico nei confronti della legge, l'esigenza di approdare alla verità solo attraverso percorsi personali basati sull'evidenza e l'urgenza di non farsi mai ingannare dalla presunta infallibilità di una inesistente (se non come risultato empirico) volontà generale.
Affermare l'esistenza di una verità infallibile, di un bene universale significa dover sacrificare sull'altare della certezza la propria volontà particolare e la possibilità di una partecipazione personale. Una delle conseguenze inaccettabili dell'imposizione di una verità esterna, infatti, è la perdita di significato che subisce la partecipazione: lo Stato diventa estraneo e, tutt'al più paternalistico, impone una verità e detta delle regole rispetto alle quali gli individui rimangono indifferenti, spingendoli a ripiegarsi su se stessi. A cosa serve la più bella verità, il bene più auspicabile, la giustizia più
esatta se non possono essere realizzati? La realtà delle cose smentisce ogni teoria pura: una verità imposta non sarà mai accettata, una giustizia “straniera” non sarà mai realizzata. Al di là di ogni “neutralità” sostenuta dal liberalismo è, però, inevitabile ammettere l'esistenza di certi beni, d'ordine generale, da cui non si può prescindere per costituire e mantenere in vita la società politica. L'unica via, però, è quella del percorso individuale: ognuno, in totale autonomia, deve intraprendere un cammino, nel quale attraverso il dibattito e lo scontro delle proprie opinioni con le altrui approderà a formare dei principi che, in questo caso, non avranno bisogno di essere imposti o spiegati perché l'individuo li avrà elaborati liberamente e interiorizzati autonomamente. Non a caso ai Principi di politica viene spesso assegnata, come abbiamo già accennato, una funzione di “catechismo politico”: non si ravvisa mai nella struttura dell'opera – che si configura come dialogica e interlocutoria – l'imposizione di un pensiero assoluto, bensì la definizione dei principi teorici si accompagna sempre alla preoccupazione di persuadere il lettore, nella convinzione che solo la comprensione dei principi esposti, attraverso un percorso autonomo e costellato di scambi con altri soggetti, possa essere efficace e produttiva. All'isolamento e alla tirannia di una ragione universale la politica ha bisogno di contrapporre il dialogo e il contributo di tanti “io”. Si deve rischiare un'opinione egoista ma non si può non tener conto delle circostanze, dei punti di vista, del dibattito, della partecipazione, che sarebbero, invece, escluse dall'imposizione di una verità. La Arendt diceva che stabilire un principio – che sia la giustizia, l'uguaglianza, la libertà o altro – come una verità incontrovertibile, indipendente dalla volontà dei singoli, rende questi stessi principi irrilevanti politicamente248. È un po' quello che intende Constant quando
difende l'indipendenza della morale e, in generale, di tutte le virtù. Non esiste un interesse generale infallibile e universalmente dato a cui uniformarsi, esistono solo tante volontà particolari dal cui incontro-scontro nasce un’opinione generale di volta in volta diversa e che è necessario classificare come risultato empirico di dati empirici. È l'incertezza il prezzo che dobbiamo accettare di pagare in nome dell'autonomia e dell'autenticità.
Ma, allora, dato che ogni idea di cittadinanza presuppone un concetto di bene comune e la condivisione di certi valori, è opportuno chiarire che cosa intendiamo quando parliamo di bene comune. Non si intende altro se non quello sfondo condiviso di valori che accettiamo in quanto membri di una società; nel nostro caso quella occidentale moderna. Non possiamo, infatti, negare che esistano tutta una serie di ideali, credenze a cui ogni membro di una comunità in quanto tale presta liberamente la propria lealtà.
Nessun popolo – dice Constant – ha considerato come membri dell'associazione politica tutti gli individui che risiedono, a qualsiasi titolo, sul suo territorio. Non si tratta qui delle distinzioni arbitrarie che, presso gli antichi, separavano gli schiavi dagli uomini liberi e che, presso i moderni, separano i nobili dai plebei. Anche nella democrazia più pura vengono stabilite due categorie di individui; nella prima sono relegati gli stranieri e quelli che non hanno raggiunto l'età prescritta dalla legge per esercitare i diritti politici; l'altra è composta dagli uomini nati nel paese e che hanno raggiunto tale età. Esiste dunque un principio secondo il quale tra gli individui riuniti su un territorio alcuni sono cittadini e altri non lo sono. Questo principio stabilisce evidentemente che per essere membri di un'associazione politica occorre avere un certo grado di lumi e un interesse comune con gli altri membri della stessa associazione249.
Sorrentino, Verità e politica, Bollati Boringhieri, Torino, 2004. 249 B. Constant, Principi di Politica, op. cit., p.213 (X.2).
Il possesso di «un certo grado di lumi» è garantito dal requisito della maggiore età, il riferimento a «un interesse comune» dalla condivisione del luogo di nascita. Certamente tanto ai minorenni quanto agli stranieri saranno riconosciute le garanzie civili e le libertà individuali, ma non i diritti politici, i quali, come dice Constant, «non sono una protezione, sono un potere»250. I diritti politici sono il mezzo attraverso il
quale ognuno apporta il proprio contributo alla cosa pubblica e tale contributo si potrà dire che realizzerà il bene comune se e solo se colui che lo apporta condividerà gli interessi generali degli altri cittadini. Tale condivisione è il risultato dell'esperienza, dell'abitudine, della convivenza e della condivisione della medesima tradizione, cultura, situazione geo-politica, sociale e così via, e non il risultato dell'imposizione di principi universali estranei ai singoli.
Certe verità, ripetute in maniera costante e universale – dice Constant – acquistano alla lunga e grazie all'abitudine un'evidenza piena e immediata; infatti una verità evidente non è nient'altro che una verità il cui segno ci è talmente familiare da richiamare all'istante l'operazione intellettuale grazie alla quale aveva ottenuto il nostro assenso. […] Dall'unione di queste verità, adottate da tutti gli individui, e dall'abitudine dei sacrifici che queste verità impongono loro, si forma una ragione, si stabilisce una morale comune a tutti, i cui principi, ricevuti senza discussione, non si mettono più in dubbio251.
L'unica “imposizione” che Constant riconosce è quella che deriva dall'esperienza passata, dalle acquisizioni ottenute ad opera delle generazioni precedenti che, una volta sedimentatesi, con l'abitudine, nella tradizione e nella cultura, si tramandano a tutte le generazioni successive. L'individuo, secondo Constant, non riparte ogni volta dal 250 Ivi, p.220.
punto zero in cui la sua inesperienza individuale lo collocherebbe, bensì dal punto in cui l'ha portato “l'esperienza sociale”252 e da lì procede con il suo percorso. In altri
termini non c'è un bene comune universale a cui sacrificare i propri obiettivi individuali, ma solo una sorta di “integrazione etica” relativa al proprio popolo che lascia spazio al perseguimento dei propri obiettivi personali in una certa modalità e entro certi limiti. Tale integrazione è possibile solo lasciando al primo posto lo spazio per l'opinione, per la partecipazione e dando, in ogni campo, la priorità all'autonomia.
Dal punto di vista formale potremmo definire il “bene comune” con le parole di R.Simon:
[bene comune è] l'ordine che coordina, concilia fra di loro i diversi beni e li orienta verso la costituzione di un ambiente favorevole allo sviluppo della persona umana. Il bene comune considerato formalmente è dunque questa stessa organizzazione253.
Preso, invece, nel suo aspetto materiale esso è «l'insieme dei beni necessari alla vita
umana»254, molteplici e di varia natura (economici, giuridici, istituzionali, culturali,
morali, spirituali) che sono diversi in tempo di guerra e in quello di pace, in tempo di ricchezza e in quello di crisi economica o, più normalmente, nel variare delle capacità tecniche, delle strutture economiche e delle esigenze sociali. La necessità ermeneutica del bene comune legittima, allora, la molteplicità interpretativa di parte. Tra bene comune e interessi di parte, infatti, non c'è essenziale contraddizione. È inevitabile,
252
Ibidem.
253 R. Simon, Morale (1961), trad. it. a cura di A. Sacchi, Morale. Filosofia della condotta umana, Paideia, Brescia, 1966, pp. 252-253.
invece, che sulla base dei diversi interessi economici, sociali, culturali si diano diverse letture del bene comune. Non è dunque l'interpretazione “di parte” ciò che lo minaccia, ma la sua riduzione al bene privato, cioè la sua mancata o finta mediazione politica, che pretende di elevare con l'inganno un interesse di parte a interesse di tutti (quello che è accaduto con i giacobini e con Napoleone in Francia). In altri termini la definizione del bene comune è al contempo necessaria all'agire comune e quindi oggetto di dovere e affidato alla libertà morale dei soggetti politici. La moralità politica sta perciò nel ricercare e nell'accettare, da parte di chi è membro a qualche titolo di una comunità politica, l'armonizzazione dei propri interessi con le esigenze del bene totale. Il criterio di questo bene rimane un'idea liberale, perché in esso il soggetto è tutto impegnato. Basterà adottare una concezione del bene che non sia fondata su un contenuto, vale a dire su definiti beni sostantivi che l'uomo dovrebbe perseguire, ma solo sull'idea – condivisa da Constant255 – di miglioramento umano. Si
potrebbe ad esempio sostenere che una vita è buona non tanto se include un certo numero di beni oggettivi ma se le virtù possono regolare il modo nel quale quei beni sono perseguiti. Questa idea è consona al liberalismo perché la regolazione può avere luogo soltanto attraverso l'esercizio personale dell'agente e inoltre il valore delle virtù “si attiva”, per così dire, soltanto con l'approvazione dell'agente attraverso l'esercizio. In altri termini non avrà valore una virtù esercitata semplicemente per coercizione o abitudine, ma solo quella a cui l'individuo ricorre consapevolmente nella convinzione che sia la risposta giusta in una certa situazione. L'approvazione mette in luce la piena partecipazione dell'agente alla propria scelta e non si dà, dunque, nessuna minaccia dei principi liberali dato che lo Stato non può promuovere nessun ideale di bene che le 255 Cfr. B. Constant, La perfettibilità della specie umana, op. cit.
persone non approvino. Sostanzialmente si lasciano tutti gli agenti liberi di scegliere i propri fini, prescrivendo solo il modo giusto di scegliere, qualunque sia il bene scelto256.
Ma qual è il modo giusto di scelta? “Il modo giusto” in questo caso non è altro che quello che ognuno ha acquisito tramite la tradizione e i miglioramenti che la specie umana ha collezionato nel tempo grazie alla sua natura perfettibile, si tratta infatti di qualità della persona e non di beni da perseguire. Si tratta di una fondazione ermeneutica del bene che poggia su concetti valutativi come il coraggio, la generosità ecc. che gli individui hanno adoperato nel corso del tempo e dello spazio. È quella che Mangini nel suo Liberalismo forte257 chiama “teoria dei beni dell'agire”. Fra questi
Mangini annovera anche la partecipazione dei cittadini al governo della nazione, lo sviluppo di certe virtù civiche che permetterebbe di sfuggire alla logica di uno Stato da cui pretendere la realizzazione dei diritti in una relazione a senso unico, senza che quest’ultimo possa pretendere niente di ritorno. «Vogliamo – dice Mangini – che coloro che appartengono alla repubblica perfezionista non siano soltanto beneficiari di uno stato benevolente ma cittadini di una repubblica nella quale posseggono doveri importanti per il buon funzionamento delle loro istituzioni»258.
Sviluppare una concezione normativa di cittadinanza non significa sviluppare principi dotati di validità universale da applicare in qualsiasi società indipendentemente dalle circostanze; si tratta piuttosto di un ideale di cittadinanza utile per le persone le cui fonti del valore sono simili a quelle che hanno gli europei, gli 256
Ricorda un po' la distinzione cartesiana della libertà fra libertà come spontaneità e libertà come indifferenza. Cfr. R. Cartesio, Meditazioni metafisiche, op. cit.
257 M. Mangini, Il liberalismo forte, Paravia, Milano, 2004. 258 Ivi, p.12.
americani o qualsiasi altro popolo che faccia appello a valori come la libertà individuale, l'uguaglianza, la giustizia, l'autonomia personale.
Viviamo – dice Mangini – in uno stato liberale se siamo liberi di scegliere la nostra concezione del bene entro una gamma di opzioni di valore a disposizione perché, come ha sottolineato Berlin, nessuna società può accogliere ogni tipo di valori: nell'Italia contemporanea è piuttosto improbabile essere liberi di perseguire gli ideali di cavalleria del XII secolo. Quel che abbiamo disponibile dipende soprattutto dalle condizioni sociali, ma lo stato liberale deve mostrare una seria attenzione per la libertà individuale. Questa si realizza quando vi è l'offerta di una vera pluralità di opzioni disponibili e si sottolinea l'approvazione dell'agente circa il contenuto della sua concezione del bene259.
Conclusione
Ci siamo concentrati lungo tutto il percorso argomentativo su una lettura critica dei Principi di politica, in quanto opera di importanza cruciale ai fini della rivalutazione di Constant e del suo pensiero politico. Grazie alla nuova luce che la riscoperta di questa opera porta sulla sua teoria abbiamo avuto modo di smascherare i principali pregiudizi che lo hanno visto protagonista. In particolare ho cercato di mostrare come Constant sia molto più che il padre del liberalismo. Per quanto il suo pensiero sia totalmente legato alla affermazione di una cerchia di diritti, una parte dell'esistenza umana, individuale e indipendente, inviolabile e, di diritto, sottratta alla competenza sociale, il contributo di Constant si spinge oltre. È di fondamentale importanza nel suo pensiero politico la riattualizzazione, per così dire, della partecipazione. Molti hanno frainteso Constant al punto da descriverlo come l'assertore della libertà privata, fine a se stessa, dimenticando un'intera parte della sua teoria che descrive la libertà politica come essenziale garanzia, conditio sine qua non della libertà privata. Constant è certamente consapevole del fatto che la democrazia diretta e partecipativa delle società antiche non può più trovare applicazione negli Stati moderni, reso impossibile dalle dimensioni e dai cambiamenti di prospettive e priorità di cui abbiamo trattato. Ma proprio partendo dalla comprensione dell'inattualità della libertà politica e avendone affermato la necessità, teorizza un'ideale convivenza di libertà privata e libertà politica. Quello che caratterizza Constant è sicuramente un forte senso storico, che rende il suo pensiero pratico e realistico. Sono gli eventi che lo circondano – la Rivoluzione, il Terrore, il periodo del Direttorio, e l'Impero di Napoleone – che lo spingono a
interrogarsi sui motivi del fallimento della rivendicazione dei diritti e della libertà dell' '89. Constant, in altri termini, si trova a dover fronteggiare (spiegare e superare) gli esiti patologici della Rivoluzione, contraddittori rispetto agli obiettivi e ai fini che si era prefissati. Dal 1793 al 1794 la Francia vive quello che verrà definito il periodo del Terrore a seguito del quale il popolo, pur di recuperare la tranquillità e la pace perduti, si mostra disposto a riaccogliere un potere assoluto – a cui mirava la destra controrivoluzionaria – o a cadere nella trappola dei giacobini, pronti a nascondere sotto le vesti di una volontà popolare i propri interessi particolari. Qual è il motivo di questo fallimento? Quello che emerge dall'argomentazione di Constant è che, se vogliamo trovare un “colpevole”, tutto quello che dobbiamo fare è guardare al popolo che, abbracciando un concetto sbagliato di sovranità e avendo più cara la pace della libertà, non ha saputo lottare fino in fondo per ciò che gli spettava. Certo il discorso è molto più ampio di così, dato che dobbiamo considerare le responsabilità degli intellettuali, che avrebbero dovuto “illuminare” le menti del popolo e dei governanti che avrebbero dovuto ascoltare la voce dell'opinione pubblica, ma di questo abbiamo già trattato. I cambiamenti politici, i sovvertimenti delle vecchie istituzioni, le passioni che le accompagnano generano necessariamente un certo grado di tumulti e alterano la pace quotidiana, ma Constant ci insegna che si tratta di un piccolo prezzo da pagare per ottenere uno Stato in cui il popolo sia realmente chiamato a partecipare e il governo abbia un potere ristretto alle materie di sua competenza. Lo abbiamo visto, infatti, sostenere che affinché il sentimento della libertà giunga al cuore del popolo, è necessario che la libertà stessa assuma talvolta le cosiddette forme popolari, “tempestose e chiassose”. Meglio una nazione in tumulto di una indifferente e
scoraggiata, visto che è proprio quando la nazione si disinteressa dei suoi diritti che il potere si affranca dei suoi limiti. È questo che è accaduto in Francia: è l'amore per il benessere della routine quotidiana, la sicurezza di ciò che è familiare, la tranquillità della ripetizione, ciò che ha messo in scacco il popolo. Del resto, a conclusione del nostro percorso nei Principi di politica, possiamo affermare che la base comune dei principi teorizzati da Constant, su cui riflette con la speranza che gli individui possano comprenderli e farli propri, non è altro che la richiesta di mettere in pratica la libertà. I cittadini non devono essere i semplici spettatori di governanti che si professano