Capitolo 2 I Principi di Politica
3.2 Inconvenienti della rappresentanza moderna: il problema del controllo
A partire dalla volontà di riconoscere libertà e uguaglianza ai cittadini si finisce, in qualche caso, per legittimare un potere assoluto che può divenire in ogni momento usurpatore. Del resto il moderno concetto di rappresentanza ha la sua genesi nel pensiero assolutistico di Hobbes. Per quest'ultimo nessuna dimensione collettiva può essere naturale e originaria, dato che ognuno detiene un diritto naturale a tutto. Ciò che si richiede, allora, affinché le forze contrastanti dei singoli non si risolvano in una negazione di vita e di libertà reciproche, è la costruzione di una dimensione sociale artificiale. Tutti si assoggettano ad un'unica forza comune per evitare la sopraffazione
altrui: questo è il grande Leviatano di Hobbes. Emblematica è la figura che caratterizza il frontespizio dell'opera, quella del sovrano, costituito da tanti piccoli uomini, tutti uguali, che si ravvisano in tutte le parti del suo corpo. Non solo non ci sono parti diverse, ma colui che esercita il potere del corpo politico non è più la testa, la guida, nei confronti delle altre parti, ma è solo la maschera, l’attore che agisce per tutto il corpo politico. Ciò che bisogna comprendere è il fatto che è proprio sulla natura rappresentativa che si basa nello stesso tempo la legittimità dell’agire del sovrano e anche la sua assolutezza, vale a dire l’impossibilità (in Hobbes) o, in ogni caso, la difficoltà estrema (nei pensatori successivi che si ispirano al diritto naturale) di pensare a un suo controllo. La ragione della difficoltà del controllo dell’esercizio rappresentativo del potere consiste nel fatto che la rappresentanza moderna nasce come condizione indispensabile per poter pensare il corpo politico, cioè il soggetto collettivo, il che rende impossibile pensarlo di fronte e contro colui che lo rappresenta. Nella moderna teoria della rappresentanza non c’è una realtà o una volontà precedente che sia semplicemente da rispecchiare: la volontà del corpo politico è quella che prende forma mediante l’agire rappresentativo. La difficoltà per coloro che, contro Hobbes, vorranno riuscire a pensare al controllo del potere, deriva proprio dalla loro accettazione del principio rappresentativo per poter intendere il potere politico. Se il punto di partenza è la libertà di tutti gli individui e il fine è la creazione e il mantenimento di una situazione di pace in cui ognuno sia libero di perseguire i propri interessi privati, l'unica forma stabile adatta ad ottenere ciò è la sottomissione di tutti alla forza comune di colui che è stato autorizzato. Infatti se il nuovo concetto di libertà comporta la mancanza di ostacoli e l’indipendenza della volontà, tale situazione di
mancanza di opposizione e di indipendenza è pensabile per l’individuo solo se è pensabile per tutti gli individui, e ciò non è possibile se non mediante quei vincoli, le leggi, che impediscono il reciproco recarsi danno e dunque il reciproco ostacolarsi. Solo il potere rende dunque pensabile una situazione di libertà per gli individui. Qui, come abbiamo già sottolineato, si trova il punto di snodo fondamentale: se, come fanno Hobbes e Rousseau per motivi diversi, si dà più importanza al potere che alle libertà individuali – dimenticandosi che dovrebbe essere solo una garanzia e non il fine – si legittima un potere assoluto e illimitato; se, invece, come fa Constant, si comprende che l'assoggettarsi al potere è un atto necessario, ma si tiene presente che il vero fine è la libertà, non è difficile concludere che quel potere dovrà essere minimo, tanto quanto basta perché riesca a raggiungere il fine. Se ci dimentichiamo questo e limitiamo la libertà all'iniziale consenso, legittimiamo in questo modo e in ogni caso un potere assoluto che, essendo il prodotto della propria volontà, potrà ogni cosa senza possibilità di resistenza. Per questa via sarà la forma stessa della legge, il fatto che sia ciò a cui abbiamo acconsentito e che abbiamo voluto, a renderla giusta e a far divenire contraddittorio ogni tentativo di sfuggirle.
La logica della rappresentanza politica moderna – dice Duso – non potrebbe essere esposta più chiaramente: ognuno esprime un unico atto di volontà, che non
è politico, ma fonda lo spazio politico, nel quale egli non agirà – politicamente –
più: con questo atto ognuno intende la volontà di un singolo uomo o di una assemblea di uomini come volontà di tutto il corpo politico, e dunque anche come la sua volontà in quanto membro del corpo politico. Dopo di che non ci sarà più bisogno di nessun consenso.115
Gli individui costituiscono il fondamento del potere, ma quest’ultimo, pur essendo costruito sulla base della loro volontà, una volta formato non dipende più da essa, che, in quanto privata, si muove ormai su di un livello diverso da quello pubblico del potere. Le azioni pubbliche sono le azioni politiche di ognuno, ma solo attraverso l’azione reale della persona rappresentativa. La difficoltà è tutta espressa nell’immagine del frontespizio del Leviatano, a cui sopra si è fatto cenno. Non si manifesta più quella pluralità dell’agire politico presente nel principio del governo, che comporta la presenza e l’agire politico dei governati di fronte a chi governa. Di fronte al sovrano non c’è più nessuno: i sudditi sono all’interno del sovrano, ne costituiscono il corpo. La loro volontà politica, mediante il processo di autorizzazione e dunque il principio rappresentativo, è quella espressa dal sovrano. Solo nel contesto antico si può usare il termine consenso nel suo autentico significato «e ciò proprio in quanto non siamo in una situazione in cui la volontà di tutto il corpo, espressa come legge, richiede soltanto obbedienza, ma piuttosto in quella di un lavoro continuo di accordo e concordia, che tiene insieme il regno come pure le altre forme associative»116. Il
consenso moderno, invece, diventa un’arma a doppio taglio: esprimendosi una sola volta nell'atto di scelta del rappresentante legittima quest'ultimo a fare ciò che vuole e toglie senso a ogni resistenza nei suoi confronti. Come vedremo, non sarà così per Constant che, pur accettando il principio di rappresentanza in senso moderno, sfugge all'assolutismo da una parte attraverso l'affermazione di uno spazio inviolabile di diritti naturali dell'individuo, preesistente e in cui è vietata l'ingerenza dei rappresentanti, dall'altra attraverso una diversa definizione della volontà generale.
Prima di lui il tentativo più radicale di sfuggire alla logica della rappresentanza 116 Ivi, p.76.
moderna – tentativo fallito se guardato dal punto di visto di Constant – può essere ritrovato nel pensiero politico di Rousseau. Egli vuole riconsegnare la scena politica al popolo, sostituire all'azione dei rappresentanti l'agire politico di quest'ultimo e alla rappresentanza della sovranità l'attualità della volontà comune: «offrite gli spettatori come spettacolo, fateli attori essi stessi, fate che ciascuno si veda e si ami negli altri, affinché tutti siano più uniti»117. Tuttavia tutto quello che riesce a fare Rousseau è
interiorizzare quello iato che nella rappresentanza moderna si esprimeva esternamente: ognuno è suddito e sovrano, scisso fra volontà particolare e volontà comune ed ognuno deve sottomettere la prima alla seconda. Essendo la volontà comune propria del cittadino, tanto quanto quella particolare è propria dell'individuo, quello che si crea è un assoggettamento interno che è anche più profondo di quello esterno del Leviatano. Ripercorriamo brevemente la teoria politica di Rousseau per comprendere meglio il suo giudizio sulla rappresentanza moderna e sul tipo di Stato che si dovrebbe costituire, prima di esporre la critica che di questo sviluppa Constant. Innanzitutto Rousseau teorizza uno stato di natura che non ha niente a che vedere con il perenne stato di guerra e conflitto fra uomini guidati da passioni e vizi, ipotizzato dai giusnaturalisti. Gli uomini, al contrario, vivrebbero in un iniziale stato di innocenza e uguaglianza in cui ognuno persegue i propri bisogni immediati e necessari senza per questo dover entrare in conflitto con i suoi simili. L'uomo naturale di Rousseau conduce un'esistenza per così dire atomizzata, a stretto contatto con la natura; ma, a differenza dell'animale, è dotato della cosiddetta perfectibilité, facoltà che lo induce a perfezionare se stesso e la propria condizione. Quando l'individuo, per impulso di
117 J.-J. Rousseau, Lettre sur les spectacles (1758), trad. it. a cura di P. Alatri, Lettera a D'Alembert
questa facoltà, comincia a ricercare e a perseguire un benessere sempre maggiore e si accorge che la natura non è più in grado di supplire a quei bisogni “secondari” allora scopre la necessità di associarsi. È proprio l'entrata in società che, secondo Rousseau, determinerebbe la nascita delle disuguaglianze e la corruzione degli uomini:
Dal momento che un uomo ebbe bisogno dell'aiuto di un altro, e s'avvide che era utile a uno solo aver provviste per due, l'uguaglianza scomparve, la proprietà s'introdusse, il lavoro diventò necessario, e le vaste foreste si mutarono in campagne ridenti, che bisognò bagnare col sudore degli uomini, e in cui ben presto si vide la schiavitù e la miseria germogliare e crescere con le messi118.
Prendono avvio, quindi, l'agricoltura e la metallurgia, si divide la terra e nasce la proprietà privata, fondata sul lavoro. L'accumulazione di ricchezze e la cupidigia degli uomini – che fa desiderare loro sempre qualcosa in più – scava divisioni sempre più profonde tra questi e alimenta un'aggressività sociale sempre più spietata. I poveri cominciano ad aver bisogno dei ricchi per ricavare sussistenza e i ricchi scoprono il piacere di dominare. «Così l'uguaglianza infranta fu seguita dal più orribile disordine; […] la società nascente fece posto al più orribile stato di guerra»119. Questo stato
permanente di conflitto, in cui nessuno è al sicuro, costringe l'uomo a riflettere sulla sua miserabile situazione e fa nascere l'idea di un patto di unione sociale nell'interesse di tutti.
Tutti corsero incontro alle loro catene, credendo d'assicurarsi la libertà: perché,
118 J.-J. Rousseau, Discours sur l'origine et les fondements de l'inégalité parmi les hommes (1755), trad. it. a cura di P. Rossi, Discorso sull'origine e i fondamenti della diseguaglianza, in Opere, Sansoni, Firenze, 1989, p.65.
avendo abbastanza ragione per sentire i vantaggi di una costituzione politica, non avevano abbastanza esperienza per prevederne i pericoli: i più capaci di presentirne gli abusi erano precisamente quelli che contavano di profittarne; e i saggi stessi videro che bisognava decidersi a sacrificare una parte della loro libertà alla conservazione dell'altra, come un ferito che si fa tagliare il braccio per salvare il resto del corpo. Tale fu o dovette essere l'origine della società e delle leggi, che diedero nuove pastoie al debole e nuove forze al ricco, distrussero senza scampo la libertà naturale, fissarono per sempre la legge della proprietà e della diseguaglianza120.
Ma esiste un patto in grado di porre un freno a questa decadenza, risolvendo i problemi della disuguaglianza e dell'ingiustizia e tutelando la persona e i beni di ciascuno: questo deve dar vita ad un potere che sia tale da poter essere definito solo nei termini di forza comune, una volontà generale che sia, allo stesso tempo, propria di ogni individuo in quanto cittadino, di modo che ognuno non si assoggetti ad altri che a se stesso. La libertà, infatti, è una delle maggiori priorità per Rousseau che sostiene che «rinunziare alla libertà vuol dire rinunziare alla propria qualità di uomo, ai diritti, all'umanità, persino ai propri doveri. Non c'è compenso possibile per chi rinunzia a tutto. Una tale rinuncia è incompatibile con la natura dell'uomo»121. Per questo motivo
l'alienazione che Rousseau chiede ai firmatari del “contratto sociale” non è altro che un'alienazione a vantaggio di se stessi. È l'io particolare che aliena la propria libertà naturale in favore dell'io che, in quanto cittadino, partecipa della volontà comune e acquisisce la libertà morale, vale a dire la libertà come autonomia, l'obbedienza a se stessi.
120 Ivi, p.67.
Ciascuno dandosi a tutti non si dà a nessuno – dice Rousseau – e poiché su ogni associato, nessuno escluso, si acquista lo stesso diritto che gli si cede su noi stessi, si guadagna l'equivalente di tutto ciò che si perde e un aumento di forza per conservare ciò che si ha. […] Ciascuno di noi mette in comune la sua persona e tutto il suo potere sotto la suprema direzione della volontà generale; e noi, come corpo, riceviamo ciascun membro come parte indivisibile del tutto122.
L'alienazione prevista dal contratto di Rousseau garantisce allo stesso tempo libertà e uguaglianza: la prima perché ognuno in quanto membro del sovrano è il destinatario dei diritti che aliena come suddito, la seconda grazie al fatto che ogni partecipante al patto si pone nella medesima situazione di partenza degli altri. La sottomissione alla volontà generale è, per Rousseau, condizione di libertà in quanto si presuppone che essa sia propria di ognuno e non una forza estranea imposta da terzi. A formare negli uomini questa volontà generale che realizza il patto e li educa al bene comune è il legislatore, una figura che Rousseau inserisce nel contratto per giustificare il passaggio da un uomo dalla natura egoista a un popolo in grado di essere legislatore di se stesso realizzando la pubblica pace e il bene comune. In questo senso si può dire che colui che agisce secondo una volontà riconosciuta come propria, ma pur sempre irriducibile alla volontà individuale, allo stesso tempo assume un obbligo e esercita una libertà. Il punto è che la volontà generale non è direttamente la volontà dei singoli individui, bensì è la loro volontà in quanto, e solo in quanto, è la volontà di qualunque cittadino del corpo politico.
Secondo il concetto che ha Rousseau della sovranità non sono necessarie garanzie di fiducia da parte del Sovrano verso i sudditi. La sovranità, infatti, non è
altro che l'esercizio della volontà generale e il Sovrano un corpo morale e collettivo di cui i cittadini sono i membri; segue che è strutturalmente garantita la sua giustizia nei confronti dei sudditi. È inconcepibile, infatti, che una collettività possa nuocere a tutti i suoi membri, poiché così facendo nuocerebbe a se stessa. Il danno può venire unicamente dai sudditi poiché questi restano degli uomini, legati al loro interesse particolare piuttosto che a quello generale. La natura della sovranità garantisce anche la giustizia delle leggi. Essendo, infatti, la sovranità espressione della volontà generale, per sua natura non può tendere a atti particolari, per cui gli atti di questa volontà – le leggi – saranno misure che partono da tutti e si applicano indifferentemente a tutti i cittadini, cosicché nessuno possa essere favorito o svantaggiato rispetto agli altri. La volontà generale o sovrana può essere definita altrimenti come una regola di giustizia che impedisce alla libertà di autodistruggersi e l’obbligo di obbedire non è dovuto all’esistenza di un’autorità esterna e superiore agli individui, che imponga loro la legge, bensì ha fondamento nell’individuo stesso, nel suo impegno a far prevalere il lato morale. È la soggezione alle leggi, e al proprio sé morale, che rende liberi. Quello rousseauiano è, dunque, un patto interno all’individuo stesso: da una parte il suo lato morale (che fonda l’unità del corpo morale-collettivo) e dall’altra il suo lato naturale (che fonda la molteplicità dei sudditi). Nelle parole di Rousseau: «L'essenza del corpo politico è nell'accordo tra obbedienza e libertà; e la parola suddito e sovrano sono correlazioni identiche la cui idea si raccoglie sotto l'unica parola cittadino»123. La
volontà generale, dunque, è per Rousseau un universale presupposto per una società coesa e sana, è quella volontà tendente all'effettivo bene comune che nasce in ogni uomo che sappia far prevalere al suo interno la sua parte morale. Si tratta, dunque, di 123 Ivi, p.133 (III.13).
un principio infallibile a cui ognuno deve sottomettersi, senza possibilità di critica, per potersi considerare buon cittadino. Segue logicamente da questo modo di pensare la volontà generale l'asserzione della sua inalienabilità e indivisibilità; dal loro contrario, infatti, risulterebbe che qualcuno ha rinunciato a seguire il bene comune, costui sarebbe un suddito e non più un cittadino, che potrebbe rivelarsi nocivo per la società. L'assolutezza della volontà generale, per Rousseau, dunque, è una conseguenza giusta e naturale della sua costituzione e non costituisce un problema. Non è necessario introdurre limitazioni per poter garantire anche gli interessi delle minoranze dato che queste non sono costituite che da coloro che non sono stati in grado di seguire, nella scelta di volta in volta in questione, l'effettivo interesse comune e si sono, invece, fatti sopraffare dalla propria particolarità. Sulla questione della maggioranza Rousseau, infatti, scrive:
Al di fuori di questo contratto originario, la decisione della maggioranza obbliga sempre tutti gli altri; è una conseguenza del contratto stesso. Ma ci si chiede come un uomo possa essere libero e costretto a conformarsi a volontà diverse dalla sua. […] Rispondo che il problema è posto male. […] La volontà costante di tutti i membri dello Stato è la volontà generale; è la volontà generale che ci fa cittadini e liberi. Quando nell'assemblea del popolo si propone una legge ciò che si chiede loro non è precisamente se approvano o no la proposta, ma se questa è, o no, conforme alla volontà generale che è la loro volontà; ciascuno, votando, dice il suo parere in proposito, e dal computo dei voti si ricava la dichiarazione della volontà generale. Quando, dunque, prevale l'opinione contraria alla mia, ciò prova solo che mi ero sbagliato, e che credevo volontà generale ciò che non lo era. Se la mia opinione particolare si fosse imposta, avrei fatto cosa diversa da ciò che volevo: e allora non sarei stato libero124.
Non è, dunque, nell'attenuazione dell'alienazione dei diritti che Rousseau si differenzia da Hobbes, ma nel fatto che il destinatario di questa alienazione non sia più una persona, bensì gli stessi individui che alienano: danno tutto e allo stesso tempo ricevono tutto, tutti insieme. La sovranità non può che appartenere al corpo politico nella sua collettività e non può passare attraverso la mediazione politica di nessuna persona, di nessun rappresentante. Ma il risultato non cambia: anche se nella sua formulazione il potere a cui ci si sottomette è, nominalmente, il potere di tutti i cittadini che liberamente si fanno guidare dalla buona volontà generale, e non più un potere estraneo a cui, dopo il primo atto di libertà, i cittadini si sottomettono senza possibilità di replica, la teoria di Rousseau rimane di fatto caratterizzata da un potere assoluto. Questa presunta volontà generale, infatti, non è altro che la volontà particolare di quei pochi a cui la necessità della pratica ci ha costretti a delegare le attività di governo. Non esiste un principio universale a priori di giustizia e di bene: quello a cui ci sottomettiamo può essere solo il bene secondo l'opinione altrui, dell'altro a cui ci siamo sottomessi. È, anzi, tanto più pericoloso il contratto di Rousseau, che sotto la parvenza di volontà generale e interesse comune cela un potere in realtà assoluto e illimitato, rispetto al Leviatano in cui i cittadini, consapevoli dell'assolutezza del potere a cui hanno acconsentito, sanno di sottomettersi, per il bene della loro sopravvivenza a una volontà altrui. Vedremo sottolineare, in modo molto chiaro, da Constant, le derive assolutistiche della teoria rousseauiana e la duplice espropriazione di libertà che ne consegue. Ma c'è un altro punto su cui la teoria di Rousseau fallisce mantenendo di fatto un'azione rappresentativa: come abbiamo visto, infatti, dichiara necessaria l'azione di un legislatore ideale per dar forma alla volontà
comune. Rousseau, infatti, si chiede:
Come una moltitudine cieca, spesso ignara di ciò che vuole, perché di rado sa cosa le giova, potrà attuare da sé un’impresa tanto grande e difficile come un sistema di legislazione? Il popolo da sé sempre vuole il bene, ma non sempre lo vede da sé125.
Il problema è ancora quello di passare dall'individualità isolata di ognuno ad una comunità in cui i singoli abbiano una natura sociale: e per questo sembra necessaria l’opera sovrumana di una persona, di qualcuno che non solo esprima la volontà del