Capitolo 2 I Principi di Politica
3.3 Volontà generale: risultato empirico o principio universale? La critica a Rousseau
Nel primo libro dei Principi di politica, in cui Constant critica le idee favorevoli all'estensione dell'autorità sociale, i primi sei capitoli sono dedicati alla critica di Rousseau. Innanzitutto è necessario partire dal presupposto che Constant sui due principi fondamentali della teoria del Ginevrino, si esprime definendo uno «la più salutare delle verità», l'altro «il più pericoloso degli errori»129. In particolare condivide
l'idea secondo cui ogni potere legittimo può derivare solo dalla volontà generale e rifiuta categoricamente l'asserzione secondo cui lo Stato prenderebbe forma attraverso l'alienazione totale dei propri diritti da parte di ogni cittadino alla comunità. Infatti, secondo Constant, le garanzie che Rousseau aveva fornito contro ogni conseguenza negativa, per giustificare questa perdita assoluta di diritti da parte di ognuno, erano certamente insufficienti e fallaci. Si supponeva che essendo ognuno allo stesso tempo protagonista e destinatario dell'alienazione ed essendo, dunque, la condizione uguale per tutti, non ci fossero motivi e possibilità che qualcuno potesse nuocere a qualunque altro. La soluzione di Rousseau si imbatteva però clamorosamente – e su questo più di tutto si concentra la critica di Constant – con la difficoltà della pratica. Infatti come troviamo scritto nei Principi di politica:
Rousseau dimentica che tutti questi attributi preservatori conferiti all'essere astratto che egli chiama sovrano sono dovuti al fatto che questo essere si compone di tutti gli individui, senza eccezione alcuna. Tuttavia, non appena il sovrano deve fare uso della forza che possiede – vale a dire, non appena bisogna procedere all'organizzazione pratica dell'autorità sociale, dal momento che il sovrano non
può esercitarla in prima persona – questi è costretto a delegarla e quindi tutti gli attributi preservatori spariscono. Poiché l'azione compiuta a nome di tutti è necessariamente, che lo si voglia o meno, a disposizione di uno solo o di pochi, ne consegue che dandosi a tutti non è affatto vero che non ci si dà a nessuno. Al contrario ci si dà a coloro che agiscono in nome di tutti130.
Il punto è che, dal momento in cui non è più possibile – per le mutate condizioni sociali, storiche, economiche e geografiche – mettere in pratica una vera e propria democrazia diretta, la sovranità per poter agire deve divenire necessariamente rappresentativa. Ma Rousseau sostiene che:
La sovranità non può venir rappresentata, per la stessa ragione per cui non può essere alienata; essa consiste essenzialmente nella volontà generale e la volontà non si rappresenta; o è essa stessa o è un'altra; una via di mezzo non esiste. I deputati del popolo non sono dunque e non possono essere i suoi rappresentanti, sono solo i suoi commissari; non possono concludere niente in modo definitivo. Qualunque legge che non sia stata ratificata dal popolo in persona è nulla; non è una legge. Il popolo inglese si crede libero, ma è in grave errore; è libero solo durante l'elezione dei membri del parlamento; appena avvenuta l'elezione, è schiavo131.
Peraltro Constant, quando parla del rischio di una libertà e di una sovranità solamente apparente dell'uomo moderno, in qualche modo abbraccia le preoccupazioni di Rousseau; ma, a differenza di lui, comprende che la rappresentanza è un male necessario alla pratica, per cui l'unica cosa che rimane da fare è stabilire un limite al potere così da contenerne gli inconvenienti: ogni cittadino deve mantenere una parte
130 Ivi, p.20 (I.4).
della sua libertà politica da esprimere per mezzo di una sorveglianza attiva e costante sui suoi mandatari. La lungimiranza di Constant si esprime proprio nel fatto che, tenendo in altissima considerazione la partecipazione personale di ognuno alla politica, tanto quanto e forse più di Rousseau, comprende però che essa deve necessariamente esprimersi per altre vie negli Stati moderni che non permettono più la partecipazione diretta sul modello delle società antiche. Comprendere ciò è fondamentale per evitare quelle pericolose strumentalizzazioni del principio democratico che hanno consentito a certi rappresentanti di far passare per volontà generale il loro interesse particolare. Dall'applicazione del principio di Rousseau seguirebbero, infatti, secondo Constant, due successive espropriazioni di libertà: la prima per mano della società a cui ogni individuo aliena la propria volontà particolare autorizzandone la subordinazione, sempre e comunque, alla volontà collettiva; la seconda nel momento in cui la necessità della pratica fa sì che non sia più la società nel suo complesso a esercitare il dominio sulle volontà individuali, ma quella minoranza che detiene concretamente il potere. Quel che è peggio è che questa seconda espropriazione avviene di nascosto dato che coloro che detengono il potere fingono di esercitarlo in nome della volontà popolare. Questo è il rischio che Constant lucidamente individua in una democrazia che voglia essere “pura”, ossia che voglia fondarsi esclusivamente sulla sovranità del popolo e non anche sull'esistenza di una sfera di diritti individuali. Proprio questi ultimi, raccolti in una cerchia inviolabile, impenetrabile e superiore a qualsiasi volontà generale, insieme a un controllo costante da parte dei cittadini sui rappresentanti dovrà costituire, per Constant, il limite inviolabile di qualsiasi autorità sociale. La legittimazione dell'estensione illimitata del potere è una conseguenza della definizione
“pura” che Rousseau dà della volontà generale. Si tratterebbe, infatti, di un universale presupposto, mirante infallibilmente al bene e legittimato, proprio in virtù di ciò, a sottomettere ogni altra volontà particolare per dar vita ad una società giusta. Sotto questo profilo, dunque, come abbiamo già mostrato, il fatto che, nella realtà, sia la maggioranza a governare non fa problema: è questa l'espressione della volontà generale, mentre chi si trova in minoranza è solo colui che non è stato abbastanza retto da assoggettare la propria volontà particolare ed è dunque giusto che venga forzatamente sottomesso dalla maggioranza o, nelle parole di Rousseau che sia «costretto a essere libero»132. È chiaro che invece, per chi, come Constant, ha un'idea
diversa di che cosa debba essere definito volontà generale, l'assolutismo della sovranità di Rousseau e la questione della maggioranza rappresentano un problema di non poco conto a cui porre rimedio per tutelare la libertà dell'individuo negata dal principio rousseauiano. Per Constant la volontà generale non è altro che il risultato empirico di dati empirici, è la somma algebrica delle volontà particolari che si incontrano e si elidono, dando luogo ad una posizione di compromesso che fa capo alla maggioranza. In questo caso, però, la maggioranza non è una volontà infallibile a cui sottomettersi necessariamente per realizzare il bene comune, ma è solo ciò che scaturisce dall'incontro-scontro degli interessi particolari. È bene, dunque, che si pensi a tutelare anche quegli interessi che, di volta in volta, rimangono in minoranza. Constant, a differenza di Rousseau, sostiene con forza l'importanza di creare uno Stato composto da individui che non dimentichino di essere tali, che si tengano stretti la loro particolarità. Infatti mentre per Rousseau il particolarismo è il luogo della patologia 132 Ivi, p.27 (I.7). Infatti secondo la concezione che ha Rousseau della libertà, vera libertà non è quella naturale che ha un limite solo nelle forze dell'individuo, ma quella morale, che significa essere padroni di sé e obbedire alla legge che ci siamo prescritti, vale a dire seguire la volontà generale.
sociale, da abbattere necessariamente, in Constant non c'è alcuna demonizzazione e anzi il dissenso viene da lui considerato, non solo la condizione normale di una società umana in cui si formano opinioni differenti, ma anche la condizione auspicabile affinché dal confronto fra le varie opinioni scaturisca la decisione migliore.
Il problema della pratica evidenziato da Constant, in realtà, non sfugge del tutto a Rousseau il quale, difatti, pur affermando che il potere legislativo appartiene al popolo senza possibilità di delega, riconosce però la necessità di una forza, di un agente rappresentante del potere esecutivo che metta in pratica le direttive della volontà generale. Governo, dunque, è l'esercizio legittimo del potere esecutivo, un corpo intermedio tra i cittadini come sudditi e i cittadini come membri della sovranità. Quello che Rousseau non comprende è che gli unici diritti che possono effettivamente essere reali sono quelli riconosciuti al governo, il solo che li possa mettere in pratica. Dal momento che la società per esercitare i propri diritti ha bisogno, necessariamente, di delegarli al governo, è insensato distinguere quelli dell’una da quelli dell’altro, come invece fa Rousseau, ed è inutile affermare la superiorità e il controllo della società sul governo perché «un diritto che non può essere né esercitato, né delegato è un diritto che non esiste»133. La sovranità di tutti è la “cosa astratta”, mentre la “cosa
reale” è il suo esercizio, ossia il governo: e poiché il governo, comunque sia organizzato, è sempre nelle mani di pochi individui, soggetti a passioni e interessi, è sempre necessario limitarne i poteri. Rousseau non ha compreso che per risolvere il problema dei governi usurpatori e ingiusti non si doveva guardare ai possessori del potere ma alla sua estensione. È a lui, e alle teorie di tutti quelli che come lui autorizzano un'autorità sociale illimitata e sostengono la legittimità di tutto ciò che 133 B. Constant, Principi di politica, op. cit., p.22 (I.5).
ordina la volontà generale, che Constant dà la colpa del fatto che la Rivoluzione francese sia sfociata, a partire da presupposti liberali, nel dominio di un'élite prima (i giacobini) e di un uomo poi (Napoleone). Constant, infatti, accosta alla sua critica esempi storici come controprova del suo ragionamento e afferma:
Tali sono le conseguenze di questa dottrina, e le vediamo manifestarsi in tutte le epoche della storia. Ma è soprattutto durante la nostra Rivoluzione che esse si sono sviluppate in tutta la loro spaventosa latitudine. Esse hanno inferto ferite forse incurabili a princìpi sacri. Più il governo che si voleva dare alla Francia era popolare, più queste ferite sono state profonde. […] Sarebbe facile dimostrare, attraverso innumerevoli citazioni, che i sofismi più grossolani dei più focosi apostoli del Terrore, nelle circostanze più rivoltanti, non erano che conseguenze perfettamente giuste dei princìpi di Rousseau. Il popolo che può tutto è altrettanto pericoloso – anzi più pericoloso – di un tiranno134.
Infatti in assenza di limiti l'esistenza individuale dei singoli si trova ad essere sottomessa senza riserve alle decisioni della volontà generale e, in conseguenza, a quella dei governanti che, di fatto, nella pratica costituiscono quella volontà. Anche nella seconda sezione del Discorso Constant torna ad attribuire la colpa degli esiti dispotici della Rivoluzione francese alla errata interpretazione che della libertà hanno dato i giacobini, in seguito all'anacronistica argomentazione di Rousseau. Il giudizio negativo, infatti più che per i giacobini – le cui intenzioni vengono definite “buone e ragionevoli” – è riservato a Rousseau e agli altri teorici della sovranità illimitata. Si ribadisce che in un'epoca in cui non è più possibile la partecipazione diretta non si può conferire potere illimitato alla sovranità perché questa, di fatto, non coinciderà con il
popolo nella sua interezza, ma con i governanti che la esercitano; l'assenza di limiti, quindi, giustificherà usurpazioni e ingiustizie ad opere degli interessi particolari di questi ultimi. Questo genere di democrazie moderne ispirate alla dottrina di Rousseau sono ancor più pericolose dei dispotismi pre-rivoluzionari, perché qualsiasi atto del potere, in questo modo, si ammanta della legittimazione popolare:
Ciò che nessun tiranno oserebbe fare a suo nome, costoro [i rappresentanti] lo legittimano con l'estensione illimitata dell'autorità sociale. I maggiori poteri di cui hanno bisogno li richiedono direttamente al proprietario dell'autorità sociale, cioè al popolo, la cui onnipotenza esiste proprio per giustificare le loro usurpazioni. Le leggi più ingiuste, le istituzioni più oppressive diventano obbligatorie, in quanto espressioni della volontà generale135.
È interessante, comunque, prendere in considerazione l'atteggiamento, per così dire altalenante, che Constant tiene nei confronti di Rousseau: si passa, infatti, da un atteggiamento di denuncia totale della sua teoria, in difesa di un’interpretazione – quella dei giacobini – che non poteva essere che tale (in altri termini dai principi di Rousseau non poteva altro che conseguire giustamente un regime tirannico), ad una valutazione più moderata che prende in considerazione la possibilità di usi pretestuosi di quella stessa dottrina, riconoscendo in fondo “le intenzioni liberali” di Rousseau, il primo a rendere «popolare il sentimento dei nostri diritti»136. Anche nei Principi di
politica al termine del capitolo dedicato alla critica della sua teoria Constant riserva uno spazio a una sorta di rivalutazione: Rousseau avrebbe affermato l'inalienabilità e l'impossibilità di delega della sovranità non per l'assenza di senso pratico, ma perché, 135 Ibidem.
accortosi della pericolosità dell'immensità del potere sociale che aveva creato, voleva evitare che cadesse nelle mani sbagliate rendendone impossibile l'esercizio. Nel Discorso Constant del Ginevrino dice che:
Trasferendo ai nostri tempi moderni un'estensione di potere sociale, di sovranità collettiva che apparteneva ad altri secoli, quel genio sublime, animato dall'amore più puro della libertà, ha nondimeno fornito funesti pretesti a più di un genere di tirannia137.
Si nota, allora, il permanere, nonostante le critiche, di una certa riverenza e ammirazione. «Sarò cauto nella confutazione e rispettoso nel biasimo. Eviterò certo di annoverarmi fra i detrattori di un grand'uomo»138, tiene a sottolineare Constant più
avanti. Del resto Rousseau con la sua teoria aveva pur sempre costituito un passo avanti fondamentale nel riconoscimento dei diritti dell'individuo, tanto che fra i suoi detrattori potevano essere annoverati i nemici della Rivoluzione e Constant certo non poteva e non voleva essere confuso con loro. Quello che, purtroppo, Rousseau non era riuscito a fare è definire con precisione quei diritti di cui chiedeva il riconoscimento. Infatti Constant si chiede:
Cosa significano dei diritti di cui si gode tanto più quanto più si alienano completamente? Che cos'è una libertà in virtù della quale si è tanto più liberi quanto più si fa implicitamente ciò che è contrario alla nostra volontà?139
In altre parole Rousseau, nonostante il suo sentimento della libertà, non sarebbe 137
B. Constant, Discorso sulla libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, op. cit., p.18. 138 Ibidem.
riuscito a darne il giusto sviluppo, finendo, al contrario, per produrre una teoria dispotica. Voleva proteggere la libertà e invece di attaccare il potere e la sua estensione si è limitato a mutarne i proprietari, affidandolo a tutti; in questo modo invece di formulare una teoria liberale, ha dato vita a una teoria democratica “pura” che per la sua inapplicabilità ha finito per giustificare il dominio assoluto di pochi – i governanti – sui restanti membri della società. L'incontro-scontro fra Rousseau e Constant può essere considerato, per così dire, l'archetipo dell'incontro-scontro fra democrazia e liberalismo. Mentre il secondo mira a limitare il potere, nella convinzione che un grado eccessivo di autorità sia sempre pericoloso a prescindere da chi lo detenga, la prima ha come esigenza fondamentale l'autonomia del potere, nella convinzione che l'autorità del corpo sociale costituisca una libertas maior. Ciò non significa che le due posizioni siano incompatibili: del resto la maggior garanzia di protezione dei diritti dal tentativo di limitazione dei governanti (fine del liberalismo) sta nella possibilità che i cittadini hanno di difenderli e il miglior modo è proprio la partecipazione del maggior numero di essi alla formazione delle leggi e la possibilità di esprimersi, non soltanto con il voto, ma anche grazie a libertà di opinione, associazione, riunione, stampa e così via. In altri termini, come sa bene Constant, il godimento dei diritti personali è strettamente legato alla possibilità di poter esercitare i diritti politici, ma una democrazia non è necessariamente liberale, come non lo è quella di Rousseau che invece di garantire i diritti privati insieme e per mezzo dell'esercizio dei diritti politici, sacrifica completamente i primi ai secondi quasi come se non potessero coesistere o come se quelli personali fossero diritti di minore importanza. Ecco perché Constant sostiene che un Stato per essere giusto debba essere prima di tutto liberale, fondato sui
giusti principi di libertà e autorità, indipendentemente dalla forma di governo. Se è liberale sicuramente tutelerà i diritti personali di ognuno, e per farlo garantirà anche la giusta dose di libertà politica, assolutamente necessaria. Al contrario una democrazia per il fatto che mette il potere nelle mani del popolo non è necessariamente garanzia di libertà, bensì piuttosto – come Constant ha sottolineato – soggetto passibile di strumentalizzazioni liberticide, nelle modalità che abbiamo descritto.
3.4 Volontà generale: incontro-scontro o alienazione delle volontà particolari? La