Capitolo 2 I Principi di Politica
3.4 Volontà generale: incontro-scontro o alienazione delle volontà particolari? La critica a Hobbes.
Anche per quanto riguarda la teoria politica di Hobbes, come abbiamo già avuto modo di accennare, Constant condivide alcuni aspetti e ne critica fortemente altri. Di fatto la teoria di Hobbes ha in comune con quella di Constant due punti fondamentali: l'idea per cui la libertà debba essere classificata come assenza di leggi e la convinzione che i diritti individuali siano la vera libertà, mentre i diritti sociali ne costituiscano la garanzia. Ma è il modo in cui Hobbes, a partire da questi punti, sviluppa la sua teoria che lo porta a divergere dal pensiero di Constant.
Nel Leviatano Hobbes definisce la libertà come «secondo il significato proprio della parole, l'assenza di impedimenti esterni»140: non è regolamentazione, ma il diritto
che ognuno ha di fare ciò che vuole. Quando, però, il cittadino del Leviatano si accorge che tale libertà lo espone irrimediabilmente alla violenza altrui, attentando continuamente alla sicurezza della sua vita, comprende che per mantenere la possibilità di godere della propria libertà privata e domestica dovrà rinunciare alla vera 140 T. Hobbes, Leviatano, op. cit., p.134 (I.14).
libertà – il diritto di tutti a tutto – assoggettandosi a un sovrano e alle sue leggi. Nello stato di natura, infatti, ciascuno ha un potere sufficiente da mettere a repentaglio la vita altrui, il che dà origine a una condizione di guerra perpetua di ogni uomo contro ogni altro. «Vi è continuo timore e pericolo di morte violenta, e la vita dell'uomo è solitaria, misera, sgradevole, brutale e breve»141. Ma:
Il desiderio di agi e di diletto sensuale, dispone gli uomini ad obbedire ad un potere comune […] Il timore di morte e di ferite dispone alla stessa cosa. [...] Il desiderio di conoscenza e delle arti pacifiche, inclina gli uomini ad obbedire a un potere comune, poiché tale desiderio contiene un desiderio di ozio, e, conseguentemente, di protezione da parte di qualche potere altro dal proprio. […] Il timore dell'oppressione dispone un uomo ad anticiparla, o a ricercare aiuto nell'associazione, poiché per lui non c'è altra via per assicurarsi la propria vita e la propria libertà142.
La sottomissione a un potere comune che mantenga tutti nella medesima soggezione è l'unica soluzione: l'uomo nello stato di natura percepisce la necessità di deporre il proprio diritto naturale a tutte le cose per perseguire la pace e ottenere la sicurezza di sé. Questo è ciò che gli suggerisce la ragione, sotto forma di quelle che Hobbes chiama le leggi di natura. Queste ultime, però, obbligano solo internamente, consigliano più che disporre. Affinché, dunque, l'obbligo diventi anche esterno e ci sia coercizione all'applicazione la legge di natura deve essere ufficializzata sotto forma di legge positiva, a partire da un potere comune che imponga l'obbedienza attraverso il timore della punizione. Ma Hobbes non dimentica mai di distinguere la libertà dalla legge,
141 Ivi, p.131 (I.13). 142 Ivi, p.103 (I.11).
che è lo strumento della sua tutela: una cosa è essere liberi, un'altra garantirsi la sicurezza. Il fatto che il governo sia la garanzia – e non il fine – è ciò che Constant, nei Principi, invita a tener ben presente come motivazione fondamentale per la limitazione del potere, dicendo che:
In tutto ciò che riguarda l'uomo bisogna distinguere il fine dai mezzi. Nelle associazioni umane la felicità è il fine, la garanzia è il mezzo. La garanzia non è quindi un bene in se stessa. Al contrario, essa presenta alcuni inconvenienti, ma essendo il mezzo necessario per giungere al fine, bisogna rassegnarsi ai suoi inconvenienti. […] Di qui derivano due conseguenze: 1) poiché la garanzia deve essere completa e sicura, bisogna fare tutti i sacrifici necessari per renderla tale, ma senza andare al di là del necessario: se è infatti ragionevole sopportare inconvenienti necessari, è folle aggiungervi inconvenienti superflui; 2) tutte le dottrine nelle quali gli inconvenienti della garanzia superano il necessario sono essenzialmente viziate143.
L'errore fondamentale di Hobbes sta nel non comprendere che proprio in virtù del fatto che questo potere non è altro che una garanzia deve essere limitato e rimanere sotto il controllo dei cittadini. Pur partendo da un'asserzione vera, secondo cui è necessaria una forza coercitiva per governare le azioni umane, una forza armata per la difesa comune e delle leggi per regolare i diritti degli uomini, Hobbes cade in errore quando a questa forza coercitiva e armata affianca l'aggettivo “assoluta”. Constant puntualizza, invece, che il sovrano ha sì il diritto di punire, ma solo le azioni colpevoli, ha sì il diritto di fare la guerra, ma solo quando è necessario per il bene della società e ha sì il diritto di fare le leggi, ma solo quando sono necessarie e solo se sono conformi a
giustizia144.
Anche in questo caso è una diversa concezione della volontà generale a giustificare il diverso orientamento delle teorie politiche di Hobbes e Constant. In Hobbes la volontà generale coincide con la volontà del sovrano, che sia uno o un'assemblea, la quale sorge non dalla somma delle volontà particolari, ma dalla loro alienazione. Nel contratto con il quale si istituisce il Leviatano sono i singoli che stringono fra loro una serie di patti reciproci con i quali donano al sovrano tutti i loro diritti, e tutta la loro forza: una rinuncia reciproca in favore di un terzo beneficiario. È proprio per mezzo della rinuncia che è possibile la nascita dell'unione reale di tutti in una sola persona. È come se la sopravvivenza delle volontà particolari fosse incompatibile con la nascita di uno Stato che sia in grado di garantire la sicurezza. Non a caso Hobbes ritiene che, in ogni forma di governo, la libertà che può essere attribuita ai sudditi è la medesima, vale a dire quel poco che può essere concesso per garantire ad ognuno la sicurezza. Ogni Stato che voglia rispondere al suo fine non può garantire la totale libertà. La pace civile può essere assicurata unicamente se la moltitudine slegata dei singoli forma una persona con un’unica volontà, il che è possibile se e solo se vi è la sottomissione di tutti a un unico individuo o assemblea. Ne consegue che fissare dei limiti alla sovranità è contrario ai fini dell’istituzione civile, perché significherebbe concedere ad ogni uomo la possibilità di essere padrone della vita di ogni altro, concedere quel diritto a tutto che lascerebbe o riporterebbe l'individuo allo stato di natura. La libertà oltre un certo grado è, per Hobbes, incompatibile con lo Stato, per cui ogni forma di governo è in ciò identica ad ogni altra; possono, invece, essere distinte solo per la minore o maggiore attitudine a produrre la pace e la 144 Cfr. Ivi, I.7.
sicurezza del popolo (e in ciò la monarchia, per Hobbes, è preferibile alla democrazia). La sovranità, dunque, è la stessa tanto in una democrazia, quanto in una monarchia: in qualunque forma di governo il potere sovrano è necessariamente un potere assoluto, indipendentemente dalla maniera in cui si manifesta. In linea con ciò Hobbes sostiene che quella stessa libertà degli antichi greci e romani, che sentiamo lodare dagli scrittori, non è altro che la libertà dei sovrani e mai quella dei privati:
Gli Ateniesi e i Romani erano liberi, cioè i loro stati erano liberi, e ciò non perché ogni particolare avesse la libertà di resistere al proprio rappresentante, ma perché il loro rappresentante aveva la libertà di resistere a un altro popolo o di aggredirlo. Sia monarchico o popolare lo Stato, la libertà è sempre la stessa145.
L'idea stessa che nella democrazia vi sia più libertà che in ogni altra forma di governo e che la grande prosperità dei popoli antichi dipenda proprio da questa è frutto della tendenza dell'Occidente a ricevere le opinioni, riguardo alle istituzioni e ai diritti degli Stati, da Aristotele, Cicerone e dagli altri scrittori greci e romani
i quali, vivendo sotto governi popolari, non derivavano quei diritti dai principi della natura, ma li trascrivevano nei loro libri traendoli dalla pratica dei loro stati, che erano popolari. […] E per il fatto che si insegnò agli Ateniesi (per trattenerli dal desiderio di cambiare il loro governo) che essi erano uomini liberi e che tutti coloro che vivevano sotto la monarchia erano degli schiavi, Aristotele, perciò, scrisse nella sua Politica: Si deve supporre che nella democrazia vi sia libertà;
poiché si ritiene comunemente che nessun uomo sia libero sotto altri governi
(libro VI, capitolo II). E come Aristotele, così Cicerone e altri scrittori hanno fondato le loro dottrine politiche sull'opinione dei Romani, ai quali fu insegnato ad odiare la monarchia, dapprima da coloro che, avendo deposto il loro sovrano, si
erano divisi fra di loro la sovranità di Roma, e poi dai successori di questa146.
Certo Hobbes è molto lontano dal liberalismo di Constant: per l'autore inglese le libertà individuali sono qualcosa che necessita delle catene delle leggi e della costrizione artificiale dello Stato, per poter conservare la pace e se stessi. Le uniche libertà che rimangono agli uomini sono ristrette all'unico diritto inalienabile, vale a dire la difesa di sé, e a quegli ambiti in cui le leggi non si esprimono. Ma del resto è il sovrano a fare le leggi, ed è, dunque, sempre lui a decidere quali libertà concedere ai sudditi. L'unico limite effettivo è imposto dalla garanzia della sicurezza di ogni suddito: essendo questo il fine del sovrano, un potere che non è più in grado di garantirlo è un potere che non ha più ragion d'essere. Da quanto detto emerge che la sicurezza è “il bene supremo” superiore tanto alla libertà, quanto alla sovranità e questo diritto inalienabile è anche il fine dello Stato e l'unico diritto che, rimanendo al di fuori della sfera sovrana, pone un limite invalicabile alla sua tenuta e alla sua giustificabilità morale. Ciò che porta a costituire il potere assoluto – la sopravvivenza – è anche ciò che porta al suo dissolvimento qualora questa non venga più garantita e non perché il sovrano non abbia il potere di uccidere i propri sudditi, ma perché questi non hanno mai alienato il loro diritto di vivere. Hobbes, dunque, afferma un potere assoluto che non lascia aperta alcuna possibilità di resistenza:
Non c'è nulla – afferma – che il rappresentante sovrano possa fare ad un suddito, con qualunque pretesto, che, propriamente, possa essere chiamato ingiustizia o ingiuria, perché ogni suddito è autore di ogni atto che fa il sovrano147.
146 Ibidem. 147 Ivi, p.225.
e aggiunge
Le leggi di uno stato sono come le leggi del gioco: qualunque cosa su cui si accordano tutti i giocatori non è ingiusta per nessuno di essi148.
Ciò che, però, deve essere riconosciuto è che Hobbes, a differenza di Rousseau, è molto più realista e pragmatico: posto che non c'è per i sudditi nessuna possibilità di disobbedire alle leggi, se non nel caso in cui si attenti alla loro sicurezza personale, rimane il fatto che il sovrano non necessariamente darà vita a delle buone leggi. Il fatto che i singoli si debbano sottomettere a una volontà comune non è per Hobbes un atto razionale conseguenza del fatto che essa costituisce un principio infallibile di bene, ma è solo una necessità imposta dalla pratica:
In tanta diversità quanta ve n'è fra le coscienze private, le quali non sono che opinioni private, lo stato deve necessariamente essere diviso, e nessuno oserebbe ubbidire al potere sovrano più in là di quanto sembrerebbe buono ai suoi occhi149.
Agli occhi di Hobbes non si dà nessuna possibilità che la volontà egoistica dell'uomo possa mai, non dico coincidere con l'interesse pubblico, ma anche solo accordarsi su una decisione; ognuno giudicherà solo ciò che è utile per sé, per cui l'unico modo per far funzionare uno stato è eliminare il lavoro della coscienza individuale e sostituirlo con il lavoro artificiale delle leggi. Hobbes, dunque, riconosce la possibilità che il sovrano possa abusare del proprio potere per perseguire i propri interessi, ma dichiara che non si tratta altro che di un inconveniente necessario alla composizione di uno
148 Ivi, p.368 (I.30). 149 Ivi, p.343 (I.29).
Stato:
Ma si può obiettare che la condizione dei sudditi è molto miserabile, essendo essi esposti alle concupiscenze e alle altre irregolari passioni di colui o di coloro che hanno nelle mani un potere così illimitato. Comunemente quelli che vivono sotto un monarca, pensano che sia colpa della monarchia e quelli che vivono sotto il governo della democrazia o di altre assemblee sovrane attribuiscono tutti gli inconvenienti a quelle forme di stato […] e non considerano che lo stato dell'uomo non può mai essere senza qualche incomodo e che il più grande che in qualunque forma di governo possa capitare al popolo in generale, è appena sensibile rispetto alle miserie e alle orripilanti calamità che accompagnano una guerra civile, o a quella dissoluta condizione di uomini privi di un padrone, senza soggezione alle leggi e senza un potere coercitivo che leghi loro le mani150.
Almeno Hobbes sfugge all'errore di coloro che stabiliscono prima la necessità che gli uomini vengano guidati da un sovrano, a causa della loro natura corrotta, egoista e bellicosa e poi dimenticano che colui che andrà a ricoprire quel ruolo non è altro che un uomo con la medesima natura. Rousseau fa questo errore ed è, in conseguenza, costretto a ipotizzare l'intervento di un legislatore quasi divino:
un'intelligenza superiore, che vedesse tutte le passioni degli uomini e non ne sentisse alcuna; che non avesse alcun rapporto con la nostra natura, e pur la conoscesse a fondo; che per la sua felicità fosse indipendente da noi e tuttavia volesse bene occuparsi della nostra; infine che, preparandosi, nel progresso dei tempi, una gloria lontana, potesse lavorare in un secolo e godere di un altro151.
Possiamo dire, allora, che Hobbes comprende quelle necessità della pratica che 150 Ivi, p.195 (I.18).
rimangano sconosciute a Rousseau ed è certamente più vicino a quell'idea di volontà generale, come risultato empirico di dati empirici, sostenuta da Constant. Il problema è che, non partendo da una concezione liberale della libertà, non tiene in nessuna considerazione e non si preoccupa in nessun modo, nella sua formazione dello Stato, di tutelare quei diritti naturali che Constant riconosce agli individui come inviolabili. Anzi il filosofo britannico dipinge un quadro quanto mai crudo di quelle passioni che – contrariamente a Rousseau – ritiene tipicamente umane, a cui l’ideologia liberale non sarebbe in grado di porre un freno, spingendole anzi nel tutti contro tutti della logica mercantile, della concorrenza, dell’utile e dell’interesse.Il giusnaturalismo hobbesiano implica un restringimento della sfera di ciò che è lecito per natura, introducendo limiti individuali con la differenza, rispetto al liberalismo, che diritti e doveri non scaturiscono dalla natura ma dallo Stato, il quale, dunque, diviene l'unico sovrano assoluto.
Capitolo 4
Singolarità e libertà politica
Dato che la rappresentanza moderna ha implicito nel suo stesso atto di nascita un'espropriazione di potere ad opera del governo nei confronti della singolarità di ognuno è necessario prestare particolare attenzione e adottare particolari accorgimenti per far sì che rappresentanza non sia sinonimo di usurpazione. La logica della rappresentanza implica, infatti, che ognuno esprima un unico atto di volontà che non è politico ma che fonda lo spazio politico, rispetto al quale però il soggetto rimane escluso, non avendo più la possibilità di agire politicamente. È rispetto a questo andamento che dobbiamo invece recuperare la possibilità d'azione politica per l'individuo, tenendo a mente che politico è anche e innanzitutto ciò che sta al di là della struttura di governo e dei tecnicismi; è il contributo che ognuno liberamente può dare agendo, con la sua irripetibile particolarità, nello spazio pubblico; è la creazione di proposte, di idee nuove, di cambiamento; è il consenso continuamente reiterato o cancellato; è la passione per la partecipazione. Tutto questo lungi da essere in contraddizione con il liberalismo, mi sembra che ne costituisca il naturale proseguimento. Quello che deve essere limitato, in quanto male necessario, è il potere artificiale, mentre la politica, intesa come libertà personale di azione, è naturale in ognuno di noi, “compagna” della perfettibilità umana e deve essere incoraggiata. La giusta via, infatti, è quella che concilia la singolarità degli individui con la necessità di dar vita a un corpo politico coeso e unito nel raggiungimento del bene comune. Il bene comune, dal canto suo, deve essere perseguito non imponendo dall'esterno la
sottomissione a una presunta volontà generale, il che in qualunque forma sia effettuato porta alla formazione di un potere assoluto, ma facendo sì che ogni cittadino possa partecipare con il suo irripetibile contributo al cambiamento e al miglioramento.