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La limitazione dell'autorità sociale: importanza della libertà politica

Capitolo 2 I Principi di Politica

4.2 La limitazione dell'autorità sociale: importanza della libertà politica

Ricordiamo che nel momento in cui Constant si accinge a scrivere i Principi di 175 Ivi, p.146.

politica ha già maturato l'idea secondo cui non è la forma di governo a decidere della natura di uno Stato (liberale o dispotica), ma i principi che ne ispirano la condotta e l'organizzazione. Ecco perché proprio alla definizione di questi principi Constant dedica il suo grande trattato. Come abbiamo avuto modo di sottolineare più volte nell'ambito della critica che Constant rivolge ad altri autori, il punto centrale e inalterabile della sua teoria è il principio di limitazione del potere, o, come egli preferisce dire, dell'autorità sociale. È questo, infatti, il termine che Constant usa al posto di “sovranità” o “potere sovrano”, e lo fa per due motivi principali. Innanzitutto il termine autorità sociale evidenzia la natura derivata del potere, lasciando trasparire la sua provenienza dal basso e anteponendosi, in tal modo, al concetto di sovranità elaborato dalla tradizione assolutista che rimandava, invece, all'idea di un'autorità esterna e superiore alla società che dominava i sudditi dall'alto176. In secondo luogo

tale espressione sottolinea la natura collettiva dell'autorità, rispetto alla quale la libertà si configura come qualcosa di essenzialmente individuale, contrapponendosi a quelle teorie moderne che, invece, rifacendosi al modello delle società antiche, definivano la libertà in termini essenzialmente collettivi. Dunque fin dalla scelta del termine da usare Constant si sofferma sull'importanza di concepire lo Stato come l'insieme dei cittadini che lo compongono e la libertà come la libertà individuale di ognuno, da usare sì anche pubblicamente senza per far ciò dover abdicare in favore di una presunta migliore volontà generale. Infatti non può esistere una infallibile volontà generale regolata sulla base di principi a priori universalmente riconosciuti.

La verità stessa è il risultato di una ricerca empirica condotta personalmente da

176 Cfr. A. Laquièze, État de droit e sovranità nazionale in Francia, in Lo Stato di diritto:

ognuno. Per sua natura è qualcosa che non può essere imposto: è preferibile errare seguendo se stessi che fare bene seguendo un comando. Nel primo caso, infatti, saremo sulla strada giusta e prima o poi arriveremo alla verità; nel secondo, invece, saremo nelle mani dell'autorità che potrà obbligarci a seguire una verità al pari di un errore e ingannarci e muoverci come marionette in ogni momento a suo piacimento. «Il sostegno naturale della verità – dice Constant – è l'evidenza. La strada naturale verso la verità è il ragionamento, la comparazione, l'esame»177. Anche per quanto

riguarda la legge non si tratta per Constant di norme universalmente valide, istituite a priori e nemmeno di regole stabilite da un sommo legislatore divino che conosce il bene comune, sa come raggiungerlo e assicura dunque l'infallibilità dei suoi mezzi. La legge è piuttosto un prodotto fallibile di uomini fallibili. Questa è certo necessaria per una convivenza civile, ma deve essere ridotta allo stretto necessario, quel tanto che basta per assicurare la tutela di ognuno e la pace. Riguardo all'obbedienza che si deve alla legge Constant è cauto nel prescrivere il diritto alla resistenza in considerazione dei disagi che scontri frequenti porterebbero all'ordine sociale, ma è fermo nel sostenere che non c'è niente nella natura della legge che obblighi i cittadini ad obbedirle ciecamente e acriticamente e stabilisce la necessità di un esame della sua legittimità in ordine al contenuto e alla fonte178. Questa stessa richiesta che Constant fa

ai membri della società singolarmente di non essere passivi esecutori di ciò che prescrive la legge, perché essa, in mancanza di principi universali, potrebbe essere l'applicazione di una volontà del tutto arbitraria e particolare, mostra l'importanza da lui attribuita all'elemento personale, della partecipazione, dell'autonomia, dello

177 B. Constant, Principi di politica, p.396 (XIV.3). 178 Cfr. Ivi, XVIII.2.

sviluppo – autonomo e personale appunto – di una serie di valori, di una morale, che sia sì comune e condivisa, ma a partire da un percorso di elaborazione e assimilazione personale di ognuno.

Si pretende forse che il termine legge sia sempre sufficiente, da solo, per obbligare all’obbedienza? Se un numero di uomini o persino un uomo solo senza alcuna funzione ufficiale, chiama legge l’espressione della sua volontà particolare, gli altri individui della società saranno forse tenuti a conformarvisi? La risposta affermativa è assurda, ma quella negativa implica che il titolo di legge non è sufficiente, da solo, a imporre il dovere di obbedire: tale dovere richiede pertanto una ricerca anteriore alla fonte dalla quale scaturisce la legge179.

Detto ciò, l'atteggiamento cauto nel prescrivere il diritto alla resistenza mostra una certa moderazione del liberalismo di Constant che, accanto alla difesa dei diritti e delle libertà individuali, non manca di sottolineare l'importanza di adeguarle al contesto sociale, di cui occuparsi attivamente. C'è una cosa, però, che non ammette eccezioni: mai permettere allo Stato di estendere le sue competenze oltre i limiti necessari, permettendogli di intromettersi nella sfera personale e pervertire la nostra morale. Constant dedica un intero libro180 a smentire le ragioni a favore dell’estensione

dell’autorità sociale. Non solo, infatti, non si dà nessuna garanzia del fatto che i governanti siano superiori ai governati, ma si verifica addirittura che nel potere ci sia qualcosa che espone in maniera maggiore alla corruzione, essendo i governanti dipendenti dal giudizio pubblico e influenzati dalla volontà di mantenere la loro posizione. Constant avverte che nessuno dei tre modi in cui si formano i governi dà garanzia della superiorità dei governanti. I governi, infatti, si possono formare o per 179 Ivi, p.527 (XVIII.2).

mezzo della forza, della quale Constant non ritiene necessario dimostrare l’inadeguatezza dato che «a nessuno verrebbe in mente di giustificarlo in linea di principio»181 o per ereditarietà rispetto alla quale si poteva dire che forniva monarchi

dotati di lumi superiori, in virtù di un dono del cielo, finché la monarchia si fondava sul diritto divino, ma «ai giorni nostri, nei quali i governi si basano su principi puramente umani, […] l’ereditarietà ci presenta soltanto una successione di governanti allevati nel potere, e l’esperienza è quasi superflua per indicarci il risultato di due elementi quali il caso e l’adulazione»182. Infine un governo può essere costituito

tramite elezioni, le quali danno certamente ai governi «la sanzione della volontà popolare»183 ma senza che ciò sia garanzia della presenza esclusiva di lumi in coloro

che sono investiti del potere. Molti autori hanno sostenuto che le elezioni avessero una natura, per così dire, aristocratica, in altre parole credevano nella capacità del popolo di scegliere i migliori. Tali asserzioni, però, non risultavano mai accompagnate da giustificazioni e argomentazioni valide. Su di loro Constant dice:

Gli scrittori che sostengono tale tesi fanno un ragionamento contraddittorio. Quando ci si permette qualche dubbio sull’eccellenza dei governi, la scelta popolare appare ai loro occhi come la confutazione definitiva di simili dubbi ingiuriosi; in questa prima parte del loro ragionamento il popolo è quindi infallibile. Ma quando si reclama per questo stesso popolo il diritto di dirigere autonomamente i suoi interessi e le sue opinioni, essi affermano che tale funzione spetta al governo; nella seconda parte del loro ragionamento essi dichiarano dunque il popolo incapace di camminare da solo senza cadere di errore in errore. Così, attraverso non so quale prodigio, una folla ignorabile, assurda, degradata, stupida, che non sa condursi in modo autonomo e che ha un incessante bisogno di

181

Ivi, p.66 (III.3). 182 Ibidem.

guida, si trova improvvisamente illuminata, soltanto per un momento e senza possibilità di ritorno; essa nomina o accetta i suoi capi per poi ricadere immediatamente nella cecità e nell’ignoranza184.

Constant ritiene che il popolo possa fare delle buone scelte là dove si tratti di decidere rispetto a incarichi particolari, ecco perché deve essere chiamato a eleggere governanti le cui funzioni dovranno essere adeguatamente circoscritte entro limiti ben precisi. Come ha compreso Montesquieu «esso deve decidere soltanto sulla base di motivi che conosce e di fatti che cadono sotto i sensi»185. Il popolo, dunque, saprà riconoscere

il talento particolare di un uomo e lo affiderà all’incarico più adatto, apprezzerà un giudice per le sue sentenze, un generale per le sue vittorie e così via, ma mai questa scelta sarà, di per sé, garanzia del fatto che colui che viene eletto possieda un intelletto superiore e più illuminato degli altri. A ciò si aggiunge un altro inconveniente, riconosciuto da Condorcet186 e riportato da Constant: le qualità che conducono al

potere, in un governo fondato sulla scelta popolare, sono in genere più o meno incompatibili con altre qualità particolarmente adatte per lo sviluppo dei lumi. Infatti:

Per guadagnarsi la fiducia della maggior parte di una nazione sono necessarie tenacia nelle idee, parzialità nelle opinioni, qualcosa di positivo nella maniera di vedere e di agire, più forza che finezza e più prontezza nel cogliere l’insieme che delicatezza nel discernere i dettagli. Queste caratteristiche sono eccellenti per la repressione, per la sorveglianza, per tutto ciò che vi è di fisso, determinato e preciso nelle funzioni di governo; ma applicate alla sfera dell’intelligenza, dell’opinione, dei lumi, della morale, esse rivelano una rudezza, un’inflessibilità e una grossolanità che va contro il fine del miglioramento o del perfezionamento

184

Ibidem.

185 C.L. Montesquieu, Lo spirito delle leggi, op. cit., p. 156.

che ci si propone187.

Per quanto riguarda gli aspetti “aristocratici” e non meritocratici delle elezioni possiamo fare riferimento a Manin e al suo Principi del governo rappresentativo188, in

cui discute della natura di questa modalità di scelta. Innanzitutto c’è la questione della preferenza discrezionale dei votanti: quando i cittadini eleggono non è richiesto loro di usare standard imparziali per discriminare fra un candidato e l’altro. Se le elezioni sono libere niente può impedire ai votanti di discriminare fra i candidati sulla base di caratteristiche individuali e la possibile influenza della parzialità è proprio un corollario della libertà di scelta. Nulla nel metodo elettivo richiede che i votanti siano equi nei confronti dei candidati e con il voto segreto, non dovendo il cittadino offrire nemmeno una motivazione per la sua preferenza, questo aspetto risulta ancora più accentuato. Inoltre c’è il fatto che, seppure la situazione di scelta richieda, per la sua stessa natura, che il cittadino operi una distinzione e scelga il candidato sulla base di caratteristiche che questi possiede in grado superiore agli altri, è vero anche che le categorie in base alle quali è stabilita la superiorità non sono predeterminate oggettivamente, bensì cambiano di volta in volta e sono liberamente scelte dall’elettore. Per altro solo consentendo ai votanti di essere parziali nel trattamento dei candidati, di essere liberi di determinare quali qualità valutare positivamente e di scegliere fra tali qualità quali considerare criterio appropriato per la selezione politica, si risponde alle esigenze della teoria moderna del diritto naturale. Per quest’ultima, infatti, il diritto a governare può derivare solo dal consenso libero di coloro sui quali è

187 B. Constant, Principi di politica, p.68 (III.3).

188 B. Manin, Principes du gouvernement représentatif (1997), trad. it. a cura di V. Ottonelli, Il Mulino, Bologna, 2010.

esercitato il potere e mai da una qualità particolare del candidato (come era, invece, per gli antichi)189. Ci sono poi da considerare quelli che Manin definisce “i vincoli

cognitivi della scelta elettorale”: le elezioni, del resto, consistono nello scegliere fra individui noti. Il candidato, per essere eletto, deve attirare l’attenzione su di sé. La psicologia cognitiva ha dimostrato che l’attenzione si concentra sugli oggetti e sugli individui salienti e che gli stimoli salienti hanno un impatto sulle percezioni valutative.

I votanti […] - dice Manin – dal momento che sono consapevoli del peso infinitesimale che avrà il loro voto a conti fatti [...] non si cimentano in un confronto accurato di tutti i loro concittadini uno per uno. Invece, essi agiscono sulla base di una percezione generale, e la loro attenzione viene richiamata da quegli individui la cui immagine spicca rispetto a quelli di tutti gli altri190.

Quello che vuole mostrare Manin è che quella che viene definita “aristocrazia elettiva” non comprende i “veri” áristoi ma soltanto coloro che sono percepiti come tali:

Il principio elettivo non garantisce che venga selezionata la vera eccellenza

politica (se «vero» significa ciò che è conforme a criteri razionali e universali). Le

elezioni funzionano sulla base di una percezione relativa dal punto di vista culturale di ciò che costituisce un buon governante. Se per esempio i cittadini credono che le abilità oratorie offrano un buon criterio di eccellenza politica, faranno le loro scelte politiche su tale base. Chiaramente non c’è alcuna garanzia che l’essere dotati nel parlare in pubblico sia un buon indicatore della capacità di governare. […] In secondo luogo […] possono anche considerare [i cittadini] un buon oratore pubblico qualcuno che non sarebbe giudicato tale da uno scienziato

189 Qui sta la differenze fondamentale fra la concezione della giustizia antica (che si trova per esempio in Aristotele) e la concezione moderna del diritto naturale. Per Aristotele certe caratteristiche conferiscono di per sé, a coloro che le possiedono, il diritto di governare. Queste realizzerebbero l’eccellenza della natura umana. Al contrario per i teorici moderni del diritto naturale il diritto a governare può essere conferito solo per mezzo del consenso.

sociale o da un esperto di retorica. La differenze cruciale […] è quella fra la superiorità percepita e la superiorità definita in base a standard universali. Il principio elettivo porta naturalmente alla selezione della prima, ma non della seconda191.

È la natura stessa del processo elettore, dunque, ad attribuire a questo metodo di scelta aspetti inegualitari e aristocratici. La libertà di scelta permette la parzialità e ciò, oltre a non garantire che i candidati scelti per governare siano i migliore, non conferisce nemmeno a tutti le stesse possibilità di ricoprire una carica. Ma la dimensione aristocratica delle elezione, sostiene Manin, è inseparabile da quella democratica: se i cittadini volessero eliminare l’elemento aristocratico, considerato che sono loro che, scegliendo liberamente, conferiscono questa connotazione, dovrebbero rinunciare al loro diritto di voto e eliminare, dunque, anche l’elemento democratico . Al contrario se l’élite volesse eliminare l’elemento democratico dovrebbe delegare la scelta ad un’altra élite che, certamente, favorirebbe se stessa.

Dopo aver scartato, fra le ragioni ammissibili per estendere l’autorità sociale, il fatto che i governanti siano superiori intellettualmente e moralmente rispetto alla restante parte della popolazione, Constant continua la sua esposizione aggiungendo altre argomentazioni a favore della teoria della sovranità limitata. Oltre a non esserci nessuna garanzia del fatto che i governanti siano meno esposti all'errore, bisogna constatare che gli errori dei singoli sono meno nocivi di quelli dell'autorità. Infatti laddove siano i singoli a sbagliare permane l'autorità della legge a reprimerli, al contrario gli errori dell'autorità godono dell'approvazione della legge, per cui «gli errori dell'autorità sono generali e condannano gli individui all'obbedienza, mentre gli 191 Ivi, pp. 162-164.

errori degli individui sono sempre particolari e non influiscono in nulla sulla condotta degli altri»192. Segue che è auspicabile limitare l'attività dell'autorità al minimo

indispensabile, concedendo leggi proibitive, ma mai coercitive. Non c'è niente di più sbagliato del teorizzare un governo in cui ogni azione sia posta sotto il controllo della legge.

Dobbiamo lasciare che ognuno si formi e si imponga “il proprio senso”. Infatti, in mancanza di principi universali stabiliti una volta per tutte, a cui potersi affidare ciecamente, la scelta migliore sarà certamente quella che deriva dall'incontro-scontro di più opinioni diverse: il “dialogo” produrrà qualcosa in cui si è raccolta la parte migliore di ogni punto di vista. Ciò che spetta al governo è fornire gli strumenti adatti – una libera informazione, una consona educazione, un giusto esempio e così via – affinché ognuno abbia la possibilità di compiere la scelta migliore possibile. È come l'individuo di Levinas che per poter realizzare un'autentica relazione con l'altro, che sia rispettosa di entrambe, necessita di essersi precedentemente definito in totale autonomia e in maniera assoluta. L'individuo deve definirsi autonomamente, costituire la propria morale e il proprio senso, il proprio ideale di giustizia e di bene che sia, al contempo, personale e comune – nel senso di bene comune che abbiamo già stabilito – per far sì che si possa dare una relazione autentica con lo Stato che sia di cooperazione, di divisione dei compiti, di rispetto reciproco. Il rischio è che un individuo che basta a se stesso scelga di rimanere chiuso “a casa propria” e di non entrare in relazione. Ma è un rischio che dobbiamo correre per poter costituire una società in cui ognuno sia in relazione con ogni altro vedendo rispettato il proprio “tu”, il proprio essere diverso e irripetibile. In politica vale lo stesso: o scegliamo di 192 B. Constant, Principi di politica, op. cit., p.73 (III.4).

privilegiare un “noi” fittizio, una volontà generale – che non è altro che una volontà altrui da cui farci guidare e comandare – fidandoci e affidandoci ad essa per ogni aspetto della nostra esistenza e pagandolo a prezzo della nostra libertà o, proprio in virtù di questa libertà, in virtù della capacità che l'uomo ha di essere autonomo, di darsi delle regole e dare vita a una morale, privilegiare il percorso personale di ognuno, dando la possibilità al genere umano di perfezionarsi veramente e di realizzare quei principi di libertà, uguaglianza e giustizia ai quali la storia secondo Constant mira193.

Perché un popolo faccia dei progressi, basta che il potere non li ostacoli. L’avanzamento fa parte della natura umana: il governo che lo lascia libero lo favorisce a sufficienza. […] Se l’autorità resta neutrale e lascia parlare, le diverse opinioni entrano in conflitto tra di loro e dal loro urto scaturiscono i lumi. In tal modo prende forma un giudizio nazionale e la verità raccoglie ben presto un tale consenso che non è più possibile ignorarla. […] Il tempo, dice Bacon, è il più grande riformatore194.

Tutto ciò che un governo deve fare è garantire, con leggi minime e indispensabili, la pace e la sicurezza, vegliando affinché nulla ostacoli lo sviluppo delle facoltà di ognuno. Tutto il resto deve essere lasciato nelle mani della libertà degli individui. Se, infatti, le loro facoltà saranno lasciate libere di realizzarsi – permettendo loro di procurarsi i giusti mezzi e le condizioni perché ciò possa avvenire e garantendo che tutte le conoscenze acquisite dalle generazioni precedenti si possano trasmettere a

193 Su questo argomento cfr. B. Constant, Sul momento presente e sul destino della specie umana, o

breve storia dell'eguaglianza e La perfettibilità della specie umana in Breve storia dell'uguaglianza e altri scritti sulla storia, op. cit.

quelle successive195 – allora nella storia si realizzerà un disegno della natura che ha

come fine il più alto dispiegamento delle potenzialità umane196.

Subordinare la volontà individuale alla volontà generale – dice Constant - senza che ve ne sia assoluta necessità, significa ostacolare in modo gratuito ogni tipo di progresso. L'interesse individuale è sempre più illuminato, per ciò che lo riguarda, del potere collettivo. Il suo difetto è quello di sacrificare ai suoi scopi, senza riguardi e senza scrupoli, tutto ciò che gli è contrario. Può essere quindi necessario reprimerlo [in questi casi], ma mai guidarlo197.

Ecco la cieca fiducia che Constant ripone nella libertà individuale e da qui il cardine di tutta la sua teoria politica:

Vi è una parte dell'esistenza umana – dice Constant – che resta necessariamente individuale e indipendente e che è, di diritto, sottratta a ogni competenza sociale. La sovranità esiste solo in maniera limitata e relativa. La sua giurisdizione finisce là dove inizia l'indipendenza dell'esistenza individuale198.

A ciò si lega in maniera inscindibile il ruolo fondamentale che ha per la teoria di Constant la libertà politica, la partecipazione di ognuno con il proprio contributo. Le circostanze sono mutate rispetto all'andamento delle società antiche – come Constant racconta nel Discorso – e il fine preferibile non è più la partecipazione, ma i godimenti