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Dalla propaganda alla pubblicità politica

Nel documento La Comunicazione Corporate: (pagine 180-188)

Gli Strumenti e le Aree della

1.13. Dalla propaganda alla pubblicità politica

Dalla Seconda Guerra mondiale in avanti, per molti anni, la propaganda politica in occasione delle elezioni è stata condotta con i sistemi tradizionali dell’epoca prefascista: i comizi, con i bagni di folla, i battibecchi,

l’aggressività urlata, il “verbo” dei grandi leader e le imitazioni dei candidati di seconda categoria, e i manifesti, ispirati a tematiche semplici, perfino rozze, per almeno una quindicina d’anni. Basti ricordare qualche esempio: il soldato che muore in guerra, la madre vestita a lutto e le scritte Non avremmo avuto la guerra se

tua madre avesse potuto votare – Vota per la Democrazia Cristiana (1948); la

famiglia vestita su un balcone fiorito, con il testo Partito Comunista Italiano – Per la pace d’Italia – Votate Fronte Democratico Popolare (1948); l’enorme carro armato sovietico che sta per schiacciare una bambina: Salva i tuoi figli – Democrazia Cristiana (1948); una grande forchetta che sorregge le bandiere della Democrazia Cristiana e dei suoi alleati, Via il regime della forchetta – Vota comunista (1953): era la prima propaganda contro la corruzione politica, contro i connubi fra “palazzinari”

(costruttori edili che si arricchirono con la speculazione edilizia), assessori e sindaci, e il termine “forchettoni”, che entrò nel politichese del tempo. Di fronte al semplicismo di quei manifesti appare un vero capolavoro, anche psicologico, la vignetta di Giovanni Guareschi sul settimanale satirico-politico “Candido” adottata per molto tempo dalla Democrazia Cristiana, in quanto rivolta soprattutto ai comunisti non convinti ma che si adeguavano per conformismo di classe e alle tante mogli cattoliche degli elettori di sinistra: Nel segreto della cabina Dio ti vede Stalin no! (1948). Questo messaggio è stato successivamente ripreso dal personaggio di Don Camillo sia nei libri che nella trasposizione cinematografica delle novelle guareschiane.

In quegli anni ai comizi e ai manifesti si aggiunsero le automobili che gettavano ai passanti centinaia di volantini, quasi tutti lasciati per terra; molto più efficace risultò un’invenzione comunista, quella degli “agitatori di propaganda”, detti agit-prop, istruiti nelle sezioni e nelle scuole di partito: dal 1948, sulle piazze e negli altri luoghi cittadini di ritrovo e di passaggio, due o tre di loro fingevano di polemizzare animatamente su argomenti politici, coinvolgendo i passanti e sollecitandoli a discutere per fare emergere i punti di vista del PCI. Quella degli agit-prop fu l’unica vera novità, per tanti anni, rispetto alla propaganda prefascista. Poi vennero le tribune elettorali alla televisione, fredde e

sconvolgente (la RAI non accettava spot di propaganda e pochissimi erano gli annunci a pagamento sui giornali).

A metà degli anni Sessanta, nel clima di modernità nato dal benessere del miracolo economico (1958-1969), alcuni partiti tentarono qualche strada nuova. Il primo a rinnovare la propaganda politica fu il Partito Repubblicano con l’avvento alla segreteria di Ugo La Malfa (1963), che per rinnovare l’immagine ammuffita del partito scelse un grafico razionale e un po’ astratto, Michele Spera, che portò quell’attenzione all’immagine coordinata che allora era tipica dell’Olivetti e di pochissime altre aziende. L’esempio fu seguito dal Partito Socialista che cercò di unire l’efficacia del messaggio all’identità del partito.

La DC fece un tentativo più ardito, finito con un fallimento. Stavano per svolgersi le elezioni politiche del 1963 e il partito volle rinnovarsi dal punto di vista dell’immagine e sconfiggere gli avversari con un messaggio nuovo. Per questo motivo chiamò in Italia, Ernest Dichter, uno psicanalista austriaco che aveva fatto fortuna applicando le intuizioni freudiane alle ricerche per il marketing e la pubblicità. Il fondatore dell’Institute for Motivational Research scoprì che l’elettorato italiano era abbastanza stanco della DC, che era al potere dal 1944, che aveva la presidenza del Consiglio dal 1946 e che appariva ormai “vecchia”. I risultati di questa ricerca, consegnati alla SPES (Sezione Propaganda e Stampa della DC) furono tradotti in un manifesto non tradizionale e molto vicino alla pubblicità dei cosmetici:

una bella ragazza vestita di bianco, con in mano un mazzo di fiori, era disegnata su uno sfondo azzurro: lo slogan diceva La DC ha 20 anni (1963). È facile immaginare come quell’affermazione scatenasse la fantasia e il turpiloquio degli agit-prop comunisti che criticarono e ridicolizzarono il manifesto, con espressioni molto pesanti. Il fallimento propagandistico fu interpretato dai democristiani e dai politici degli altri partiti come il fallimento di Dichter, delle ricerche psicologiche e delle tecniche pubblicitarie alle quali nessuno si rivolse per almeno una quindicina d’anni.

Comunque, quell’episodio confermava, se interpretato correttamente, ciò che i

pubblicitari sapevano da tempo: le ricerche motivazionali possono costituire soltanto la base del messaggio, cioè contribuiscono a costruire la strategia creativa.

Verso il 1980 alcuni partiti scoprirono l’utilità delle agenzie pubblicitarie, rendendosi conto che la grafica, la scelta di caratteri più o meno moderni, i testi troppo razionali non bastavano a comunicare con gli elettori. I partiti si resero conto, con tempi diversi, che le agenzie erano in grado di inventare messaggi che rispettavano l’equilibrio fra testo e immagine, che sapevano usare il linguaggio televisivo (divenuto importante con la presenza delle televisioni estere dal 1975 e delle televisioni commerciali diffuse fra il 1978 e il 1981) e che pianificavano l’uso dei media, cercando di raggiungere il pubblico più numeroso con la minore spesa possibile. Il primo esempio fu quello del Partito Socialista che nel 1976 si rivolse al copywriter migliore del momento, Emanuele Pirella, e al suo socio Michael Göttsche.

Dal 1983, più o meno contemporaneamente, tutti i partiti politici scoprirono le agenzie di pubblicità e le televisioni private, aperte a qualunque genere di spot pubblicitari, anche politici: fu la morte dei comizi e delle tribune elettorali della RAI, sostituite dalla presenza dei politici alle trasmissioni “impegnate”, quali Samarcanda, Rosso e nero, Milano-Italia e alle innumerevoli altre che si sono susseguite negli anni, fino alle attuali Porta a Porta, L’infedele, Ballarò, Otto e mezzo. Walter Veltroni, attuale leader del Partito Democratico, dichiarò allora che «la televisione è divenuta la piazza della società moderna».

Agli inizi della collaborazione tra agenzie pubblicitarie e partiti politici, quasi tutti i tecnici del mestiere erano favorevoli al marketing politico e a trattare i partiti come prodotti commerciali. Si raccomandava di non limitarsi alla sola pubblicità,ma di promuovere campagne di comunicazione integrata oppure di trattare la propaganda con le tecniche del business-to-business invece che con quelle del largo consumo.

Alcuni professionisti si sono opposti alla tesi del “partito-margarina” sostenendo che i partiti hanno un tipo di elettorato (fra i quali il cosiddetto “zoccolo duro” e i fedelissimi) che non sono così disposti ad accettare un nuovo tipo di comunicazione,

comizi. Altri hanno aggiunto che la comunicazione politica deve distinguere fra il patrimonio culturale e ideologico di un partito e la sua eventuale azione di governo.

Chi si dedica in maniera professionale alla comunicazione politica deve tener presente che la pubblicità può creare l’immagine di una marca o di un’azienda, mentre nel caso dei partiti politici questi hanno già alle loro spalle un’identità e un’immagine che sono fatte di ideologia, di tradizione, di storia, di cultura, di personalità diverse, di successi o di fallimenti durante il loro periodo di governo.

Inoltre non si rivolgono agli elettori genericamente ma spesso hanno un forte rapporto con determinati ceti della società, con l’elettorato di certe regioni e perfino con gruppi d’età particolari (ci sono stati i partiti interclassisti che hanno fatto eccezione, come la Democrazia Cristiana o Forza Italia, ma anche essi avevano riferimenti in più di un ceto sociale).

La comunicazione politica è diversa dalla pubblicità per i prodotti, per ragioni simili a quelle che rendono difficile il lavoro per le campagne di utilità sociale. I prodotti sul mercato soddisfano i bisogni pratici (mangiare, lavare i piatti, tenere la casa pulita) oppure i bisogni di autorealizzazione (vestire, viaggiare, emergere). La pubblicità fa leva su un messaggio di utilità e comodità (gratificazione pratica) oppure su un messaggio di seduzione e di edonismo (autogratificazione narcisistica).

La pubblicità commerciale fa leva sull’”io”, sul “tutto e subito”, sulla felicità personale; la pubblicità sociale invece fa leva sul senso del dovere, sulla solidarietà con gli altri. Più complessa è la comunicazione politica che mette in relazione le speranze e gli interessi, spesso contraddittori, dei singoli e il loro maggiore o minor grado di solidarietà per gli altri, con le tradizioni ideali e i comportamenti pratici dei partiti, le loro ideologie, gli atti di governo, le promesse agli elettori. Un caso fuori dalla norma è stato il movimento di Forza Italia. Contro tutti i partiti ricchi di storia e di ideologia, ha rappresentato l’antipartito e l’antideologia, è stato il frutto di una grande operazione di marketing, il partito-azienda nato dall’attivismo dei venditori di Publitalia e dei fondi assicurativi di Berlusconi e dai focus group che registravano i desideri medi della “gente”. Il Cavaliere, dopo aver archiviato nel Novembre 2007 il

movimento di Forza Italia, è pronto a lanciarsi in un’altra operazione di marketing politico, quasi di restyling: ha capito che la gente chiede qualcosa di nuovo, teme probabilmente che i comitati anti-politici di Beppe Grillo possano allontanare l’opinione pubblica dall’attuale modus operandi della politica e quindi ha fondato un nuovo partito, il Partito della Libertà, che sembra avere connotati decisamente populisti. Citando le parole di don Baget Bozzo: «Berlusconi ha costruito un telelinguaggio, il messaggio nella forma dello spettacolo. In questo modo Berlusconi si è creato un popolo omogeneo al messaggio e attraverso le sue televisioni si è formato il pubblico per lui e per la sua politica».

Testimonianze

Un caso di successo: l’ascesa mediatica di Umberto Bossi

Un articolo del 1990 disegnava così la figura di Umberto Bossi, segretario della Lega Nord: «ha la giacca perennemente stazzonata, non fa spot televisivi, ha fatto disegnare il simbolo da un suo amico geometra e spesso parla anche in dialetto».

Bossi non ha mai avuto televisioni a sua disposizione, ma solo giornali di provincia e, per le elezioni del 1992, l’appoggio del quotidiano “L’Indipendente” di Vittorio Feltri che ne fece la bandiera della Lega Nord e in pochi mesi lo portò da 20.000 a 140.000 copie; e ciò senza contare la simpatia de il “Giornale” quand’era diretto da Indro Montanelli e gli entusiasmi di alcuni giornalisti e intellettuali, anche di sinistra, che vedevano in lui l’”uomo nuovo”. Inoltre, fino al 1994, in Lombardia e in Veneto, Bossi aveva l’appoggio di quasi tutti i parroci di paese e di molti delle città senza contare che attualmente dispone di Radio Padania e del quotidiano “La Padania”.

Ma tutto ciò non spiegherebbe il suo successo: a parte le sue intuizioni sugli umori di una parte dei settentrionali, resta il fatto che Bossi, pur non possedendo televisioni, ha creato in continuazione eventi, slogan, cerimonie assurde, polemiche a base di insulti, scandali verbali che per quindici anni hanno fatto sì che le televisioni, i quotidiani e i periodici parlassero continuamente di lui. La televisione e i mezzi di comunicazione sono stati la cassa di risonanza delle cerimonie alle sorgenti del Po, lungo il corso del fiume fino alla

“consacrazione” alla foce, delle adunate a Pontida e degli slogan popolareschi (Roma ladrona, Terroni go home, Forza Etna, La Lombardia è la gallina dalle uova d’oro, Qui si disfa l’Italia o si muore, La Lega ce l’ha duro, Abbiamo inchiappato Spadolini, ora tocca agli altri). Come avrebbero fatto i telegiornali a ignorare questi fatti e questi insulti?

Umberto Bossi è stato sempre un grande protagonista della televisione e ne ha tratto tutti i vantaggi, a cominciare dalla gratuità dei servizi su di lui. Le virulente dichiarazioni secessioniste del professor Miglio, le sparate di Irene Pivetti (non ancora convertita alle frivolezze televisive, non ultima la sua partecipazione alla trasmissione “Ballando con le stelle”) contro il cardinale Martini, il linguaggio sboccato, se non turpe, gli insulti, le minacce (“i trecentomila fucili del Bergamasco”), il folklore, le contraddizioni hanno fatto di Bossi un grande comunicatore per le televisioni e i giornali. Talmente grande che suo figlio

1.14.La pubblicità e l’inarrestabile processo di banalizzazione del male54

Uno dei più tragici fatti di cronaca che hanno funestato il 2007 è stato sicuramente il caso di Marco Ahmetovic, il ventiduenne giovane rom che lo scorso aprile, ubriaco, travolse con il furgone, uccidendoli, quattro ragazzi di Appignano del Tronto (Ascoli Piceno). Il tribunale lo ha condannato a 6 anni e 6 mesi e oggi è agli arresti domiciliari in un residence. Negli ultimi giorni di Novembre 2007 sul sito di aste on-line E-bay sono stati messi in vendita jeans, orologi, occhiali da sole e profumi (tutti con il marchio “Linearom”, promossa dal “manager” Alessio Lundas, che sta curando gli interessi di Ahmetovic) ispirati alla figura e alla cultura gitana del giovane, utilizzato come testimonial. Sul quotidiano “La Stampa” di Giovedì 29 Novembre 2007 il mass-mediologo Klaus Davi ha pubblicato un interessante editoriale sul ruolo della pubblicità e dei mass-media di fronte a tragici fatti di cronaca nera.

«Ci risiamo, qualcuno ha avuto la bella pensata di riutilizzare un omicida per l’ultima della serie delle cattive trovate pseudo-pubblicitarie. L’idea di ricorrere come testimonial allo

“zingarello” colpevole di aver investito ubriaco alla guida quattro ragazzi, è il sintomo di quanto profonda sia la decadenza del culto del sensazionalismo nella nostra società. È chiaro che chi realizza o solo ventila simili operazioni ha un unico obiettivo: quello di procurarsi un indotto di notorietà attraverso l’orrore.

La serie è lunga: si va dai maghi della fama che pensano di utilizzare Azouz nei reality, agli pseudo-fotografi che sognano di mettere sotto contratto due ragazze di provincia, cugine di una giovane assassinata, che grazie ad un fotomontaggio hanno conquistato la ribalta delle cronache.

L’utilizzo dell’orrore e del sensazionalismo nell’advertising è un filone abbastanza recente ed ha una chiara e inconfutabile origine: la realitizzazione estrema della cronaca.

Un fenomeno che non ha nulla a che vedere con le campagne sociali, anche estreme, che abbiamo visto in questi giorni proposte dalla Regione Toscana o con gli spot classicamente provocatori delle passate campagne Benetton. I primi veicolano contenuti forti anche attraverso emozioni violente al limite del buongusto, ma comunque efficaci.

Negli ultimi esempi a cui abbiamo assistito, qualsiasi logica di marketing si sacrifica sull’altare di un ormai diffuso processo di banalizzazione del male.

E qui inizia il gioco: di chi è la colpa? Dei giornalisti che romanzano queste vicende fin nei minimi particolari? Delle ricostruzioni dettagliate messe a punto dal diabolico Bruno Vespa? Del dilagare sistematico di un gusto horror-trash nel costume? Sicuramente esistono responsabilità individuali e collettive quando l’infierire nell’oltraggio di certi tabù, anche informativi, diventa un fatto meccanico che ingenera emozioni fredde a catena.

Ma sarebbe troppo semplice sparare sull’attrazione fatale per il dark dei giornalisti italiani e non solo. È vero, talvolta la morbosità di certe corrispondenze raggiunge livelli difficilmente sopportabili. Tuttavia dietro simili idee, dietro la celebrazione volgarmente miope dell’eroe negativo, c’è solo una grave forma di ottusità etica ed estetica che non fa ben sperare per il futuro della società.

Viene da chiedersi quali utilità per la marca pubblicizzata potrà mai avere la celebrazione, e quindi la subdola assoluzione, di un delinquente. Il marketing ha come obiettivo quello di rendere un prodotto il più diffuso possibile; la pubblicità ha invece il compito di accompagnare questo percorso attraverso una collocazione dello stesso prodotto in un mondo di valori e di emozioni che si ritengono conformi al così detto target con cui si vuole dialogare.

Il fulcro di tutto è ormai l’emozione. Ma perché una strategia di comunicazione raggiunga un obiettivo è importante anche che un messaggio ingeneri una qualche forma di emulazione, per questo le aziende che si indirizzano ai più giovani sono molto attente nel vagliare testimonial che in qualche modo rappresentino, nei settori per lo più sportivi e musicali in cui operano, dei modelli positivi.

Almeno fino a qualche tempo fa era così, ma qualcosa sta cambiando. Oggi basta pensare all’ascesa della premiata ditta Kate Moss e Pete Doherty; e per guardare a casa nostra, non sono state forse le vicissitudini giudiziarie di Fabrizio Corona a farne uno dei fotomodelli più contesi?

Chi ha buona memoria sa bene che dalla notte dei tempi l’eroe negativo è stato sempre più fascinoso ed attraente di quello positivo. La soglia che la coscienza occidentale non aveva ancora superato era però la promozione sulla pubblica piazza del cattivo così deresponsabilizzato delle sue colpe. Tutto ciò per dare sfogo agli istinti più bassi della logica perversa della notorietà.

Nella grande letteratura e nell’arte l’anti-eroe ha sì sempre avuto una funzione

crescita morale. Con certe operazioni come quella dello “zingarello-testimonial”, l’eroe del male è asservito alle logiche pseudo-consumistiche più obbrobriose e autolesioniste: lo si celebra attraverso la pubblicità, e la comunicazione in genere, per sottrarre lui e quindi noi tutti alle responsabilità che certi fatti impongono. E poi, al di là di tutto, siamo sicuri che serva a vendere orologi? Io ne dubito»

Nel documento La Comunicazione Corporate: (pagine 180-188)