È piuttosto evidente che chi possiede un marchio ne ottiene un beneficio in termini di valore economico, meno chiaro è invece il risvolto relativo al valore sociale del brand.
L’ubiquità dei più famosi brand globali ha fatto sì che su di essi si sia focalizzato lo scontento di molti, che instaurano una relazione diretta tra i marchi e lo sfruttamento dei lavoratori nei paesi in via di sviluppo e l’omogeneizzazione delle culture. Inoltre, i brand sono stati accusati di affievolire la competizione e favorire il capitalismo attraverso la creazione di monopoli e di ridurre la scelta per i consumatori.
Le argomentazioni che invece si oppongono a questa visione sostengono che il brand crea valore sia economico che sociale, attraverso l’incremento della competizione, il miglioramento delle prestazioni dei prodotti e dei servizi e che la pressione su chi possiede un brand induca comportamenti socialmente responsabili.
Inoltre, proprio perché la competizione tra brand si basa essenzialmente sulle performance e sul prezzo, forte è la spinta all’innovazione e allo sviluppo di nuovi prodotti.
Vi sono infatti alcuni studi che dimostrano in maniera significativa come i settori dove il peso del brand è minore lanciano meno nuovi prodotti e investono significativamente di meno in ricerca e sviluppo.
Quasi metà del campione delle aziende senza brand risulta non aver sostenuto alcuna spesa in ricerca e sviluppo, mentre nel caso delle aziende con brand sono meno di un quarto quelle che non hanno fatto alcun investimento in ricerca e sviluppo. È proprio il bisogno di mantenere le caratteristiche di differenziazione di un brand a incentivare gli investimenti in ricerca e sviluppo, da cui poi deriva un continuo processo di miglioramento e sviluppo dei prodotti.
Un certo numero di società con brand molto famosi sono state accusate di comportamenti non socialmente responsabili. Nike è stata in passato criticata per la condotta riguardo all’impiego di minori nelle attività produttive di fornitori di alcuni paesi in via di sviluppo.
Oggi Nike rende disponibili sul sito (www.nikebiz.com) i risultati di audits esterni e interviste con i propri lavoratori.
L’attenzione delle aziende agli aspetti socialmente responsabili è facilmente capibile se si considera che una riduzione di pochi punti percentuali del fatturato può determinare una perdita nel valore del brand di alcuni miliardi di euro. Numerosi sono i focus di analisi attraverso i quali è possibile studiare le relazioni tra valore del brand e Responsabilità Sociale d’Impresa (RSI).
Sponsorizzazioni a sfondo sociale
Le sponsorizzazioni con uno sfondo di tipo sociale sono più efficaci di quelle esclusivamente commerciali e addirittura in alcune circostanze il basso legame tra brand e causa sponsorizzata risulta un beneficio per il brand.
RSI quale assicurazione contro i danni in una crisi di prodotto
Si indaga sul comportamento dei consumatori in situazioni non routinarie come le crisi legate ai danni causate da un certo prodotto. Le aziende a cui si associano caratteristiche negative in merito alla RSI si ritiene abbiano un ruolo maggiore nel causare le crisi, ne abbiano un controllo più diretto e che per tali aziende le crisi siano più frequenti.
Le associazioni in merito alla RSI hanno un impatto diretto sull’attribuzione della colpa da parte dei consumatori nel caso di una crisi di prodotto: associazioni negative in merito alla RSI portano a incolpare l’azienda, mentre associazioni positive portano ad attribuire la colpa ad altri soggetti estranei.
In circostanze di crisi di prodotto, l’attribuzione della colpa determina l’intenzione all’acquisto e dunque il valore del brand. Inoltre la RSI funge da polizza di assicurazione contro i danni che potrebbero essere causati a un brand durante una crisi.
Alleanze sociali tra aziende profit e no profit
Il marketing legato a una causa implica spesso il “prendere a prestito” una causa no profit da parte di un’azienda profit con lo scopo di incrementare la redditività dell’azienda profit.
Nell’ultimo decennio alleanze nelle azioni di marketing a favore di cause sociali sono diventate frequenti e sofisticate e sono state proclamate quale nuovo paradigma filantropico.
Nonostante tale crescita però molto spesso si tratta di relazioni costruite su basi contingenti e solamente di rado esse vengono valutate in termini di impatto di lungo termine.
Infatti, l’unica misura presa in considerazione per analizzare il successo del marketing legato a una causa sociale è sempre stata semplicemente l’incremento di fatturato. Una corretta valutazione invece dovrebbe tenere conto, sia per l’azienda profit che per quella no profit, di tutti i costi e benefici per entrambe le parti coinvolte nell’alleanza sociale.
Per l’azienda no profit i benefici si riassumono essenzialmente in una maggiore informazione e awareness riguardo alla causa sostenuta e una maggiore efficacia della propria mission.
Dall’altro lato è necessario misurare il trade-off tra nuove donazioni e possibile diminuzione delle donazioni da parte di vecchi benefattori, in quanto, come conseguenza dell’azione di marketing sociale a elevata visibilità, essi potrebbero ritenere che la causa è ora ben finanziata.
Per l’azienda profit invece, da un lato vi saranno i flussi in uscita a sostegno della causa, dall’altro vi saranno i benefici attesi, ma non solamente in termini di incremento di breve termine del fatturato, ma anche e soprattutto in termini di miglioramento dei rapporti con i propri dipendenti, diminuzione dei costi di relazioni esterne sia con la comunità finanziaria che in generale con tutti gli altri stakeholders (fornitori, consumatori, ecc.). Gli effetti positivi che derivano all’azienda dalle alleanze sociali sono dunque proprio gli elementi sui quali si fonda la creazione del valore del brand.
Reputazione aziendale, RSI e comportamento dei consumatori
Un tema ancora abbastanza controverso è l’integrazione tra RSI e il marketing.
Le società, infatti, se da un lato sono spinte a intraprendere attività socialmente responsabili, dall’altro però sono disincentivate a comunicare in merito a tali attività.
Il pubblico dei consumatori generalmente non approva società che sfruttano l’impegno in merito alla RSI a fini commerciali; nel contempo, però, può succedere che non si abbiano del tutto informazioni riguardo alle attività RSI dell’azienda. È quindi spesso difficile per i manager gestire il difficile equilibrio tra praticare e comunicare il proprio coinvolgimento in attività socialmente responsabili.
È stato condotto uno studio per misurare l’efficacia di attività socialmente responsabili in termini di risultati psicologici e comportamentali dei consumatori. Da esso risulta come, da un punto di vista psicologico, la RSI viene giudicata positivamente se proattiva, ma non viene vista con il medesimo favore se reattiva, ovvero in risposta ad antecedenti comportamenti non socialmente responsabili. Dal punto di vista comportamentale risulta che se da un lato politiche di premium price possono essere supportate da RSI, dall’altro però i consumatori non sono disposti a sacrificare la qualità a beneficio della RSI. Il comportamento dei consumatori inoltre viene influenzato maggiormente da informazioni negative riguardo alla RSI che da quelle positive.
Quando poi le aziende comunicano con i consumatori, le società solitamente investono molto più tempo, fatica e denaro nel creare un’immagine positiva per i propri brand, che nel promuovere la propria reputazione quale azienda. Infatti uno dei principali obiettivi delle campagne antiglobalizzazione è mettere in evidenza quello che appare come un grosso divario tra l’immagine immacolata che le aziende costruiscono per i propri brand e il supposto comportamento distruttivo e irresponsabile delle aziende proprietarie dei brand stessi.
Il livello di fiducia dei consumatori nei brand più famosi è infatti molto elevato: tale fiducia dei consumatori nei brand diventa dunque spesso una leva molto importante per raccogliere consensi per le attività socialmente responsabili e la RSI sta diventando una fonte addizionale di valore per le aziende che stanno dietro ai brand.
9.6.Case History. Le alleanze sociali in Italia: il caso della Dash36
La Procter & Gamble nasce a Cincinnati (Ohio) nel 1837. Oggi è una multinazionale con oltre 100.000 dipendenti in tutto il mondo, con oltre 300 marchi di cui 8 leader mondiali nelle rispettive categorie di prodotto.
La P&G è presente in Italia dal 1956 e attualmente vi lavorano circa 2.000 persone. Nel 2002 ha sviluppato un fatturato di oltre 1.1 miliardi di euro e commercializza numerosi marchi, tra cui Dash, Ariel e Bolt (bucato); Ace, Mastro Lindo e Viakal (pulizia della casa); Pantene, Infasil, AZ, Oil of Olaz e Pampers (igiene e cura della persona); Tempo (fazzoletti); Pringles (snack salati); IAMS ed Eukanuba (alimentazione degli animali domestici).
Nel 1987 la P&G è la prima azienda italiana a legare una delle proprie marche commerciali ad un’azienda no profit. P&G sceglie Dash quale brand da legare alle iniziative sociali, poiché si tratta di una marca molto diffusa tra le famiglie italiane.
Da 35 anni è consumato da oltre 10 milioni di famiglie, ha vendite annuali per oltre 40 milioni di unità, un indice di notorietà del 99,9% e una quota di mercato del 22%.
Nasce così l’iniziativa “Dash Missione Bontà” con cui fino ad oggi sono state realizzate, sia nei Paesi in via di sviluppo che in Italia, sei iniziative sociali importanti.
Il primo progetto rivolto all’Italia è stato nel 1999 e si tratta di “Ospedale Amico”, nato dalla partnership tra P&G e ABIO (Associazione per il Bambino in Ospedale), con l’obiettivo di realizzare delle sale gioco all’interno dei reparti pediatrici negli ospedali di tutte le regioni italiane. Il progetto “Ospedale Amico”
prevedeva il raggiungimento di tre principali obiettivi: la realizzazione di 24 sale giochi nei più grandi ospedali di tutte le regioni italiane, la creazione di nuovi gruppi di volontari e la raccolta di donazioni da parte dei consumatori. Al termine della campagna tutti gli obiettivi furono raggiunti e superati. Sono state realizzate 31 sale gioco, il numero dei volontari ABIO è passato da 1.000 a oltre 3.500 persone e sono stati raccolti 208.186 euro grazie al contributo dei consumatori.
Nel 2003 è partita la seconda edizione del progetto “Ospedale Amico” che coinvolge oltre a Dash e ABIO un terzo soggetto, l’AIL (Associazione Italiana contro le Leucemie-Linfomi e mielosa). L’obiettivo di questa seconda edizione è di costruire una sala giochi in ogni ospedale pediatrico italiano. Si intende inoltre sensibilizzare il pubblico verso il mondo del volontariato in ospedale, favorendo la formazione di nuovi volontari che andranno ad animare le sale giochi realizzate.
Indipendentemente dai risultati conseguiti direttamente in termini di incremento delle vendite, l’operazione “Ospedale Amico” ha permesso a P&G di raggiungere l’obiettivo di rendere Dash un brand socialmente responsabile, in maniera continuativa nel tempo. I benefici principali derivanti dalla collaborazione con le due associazioni sono quindi innanzitutto legati all’aumento della soddisfazione e di conseguenza, della fedeltà dei consumatori Dash.
9.7.Nuove tendenze: le aziende lanciano il natural – un’altra faccia del