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Definire le giuste priorità: il contributo delle classi dirigenti alla performance industriale

Nel documento 7 7 (pagine 105-109)

Abbiamo argomentato che una strategia per l’attrazione e lo sviluppo delle attività industriali, e per il conseguente rilancio della produttività, passa per un impegno forte

delle élite e delle classi dirigenti per dotarsi di regole e processi che consentano di

investire in infrastrutture, di ridurre il peso della PA e parallelamente il carico fiscale sulle imprese, di ottemperare agli obiettivi della strategia ”Europa 2020” da noi stessi sottoscritti. Questo impegno è necessario sia a livello nazionale sia a livello locale, come testimoniano i casi di “Alleanze per lo sviluppo” analizzati da Nadio Delai nel capitolo

4 del volume. Ma nel frattempo la crisi sta indebolendo sempre più le élite politiche,

finanziarie, industriali e sindacali del Paese, mentre le recenti elezioni registrano una crescente frustrazione e indignazione tra le imprese e le famiglie. L’”operazione verità” compiuta dal governo dei tecnici sullo stato dei conti pubblici e della produttività, pur indispensabile e fin troppo rimandata, non si è accompagnata a una coerente e credibi-le strategia di rilancio economico del Paese che salvaguardasse la tenuta sociacredibi-le. Ancor più grave, nell’anno di vita del governo Monti, è stata la quasi totale impermeabilità

delle élite politiche alle proposte di riforma che riducessero costi, privilegi e

inefficien-ze ai diversi livelli di governo e di Pubblica amministrazione. Un processo politico e amministrativo complicato e inefficiente come quello attuale è un “lusso” che l’Italia non può più permettersi, quali che saranno le linee strategiche della politica economica negli anni a venire su infrastrutture, capitale umano, sviluppo del tessuto produttivo. All’orizzonte, si ripropone più complessa che mai la questione territoriale italiana. Comunque evolveranno la vicenda politica italiana e il contesto europeo, tutto indica che essa sarà il crocevia di forti tensioni sociali e politiche nei prossimi mesi e anni. A fronte di un Nord che dal 2008 ha visto progressivamente incrinate le sue certezze economiche, sta un Mezzogiorno dove la densità industriale rischia di scendere sotto il livello di guardia. In prospettiva l’insieme delle due debolezze appare più esplosivo che mai, ma mentre il Nord è ancora in grado di reperire le risorse per una ripresa, speriamo già nel corso del 2013, la situazione al Sud appare preoccupante. Non colpisce tanto che la recessione abbia inciso di più nelle regioni meridionali, o che queste rischino di perdere occupazione manifatturiera anche nei prossimi anni. Colpisce soprattutto che la quota delle imprese che intraprendono strategie di internazionalizzazione siano il 13 percento al Sud contro il 26 nel resto d’Italia, o che i giovani con una occupazione

siano meno del 30 percento, circa la metà che al Nord16. Lo spettro è la desertificazione

socio-economica: le proiezioni Istat suggeriscono un calo della popolazione meridiona-le da 21 a 17 milioni entro il 2065, con un’età media superiore di dieci anni a quella attuale e un rapporto anziani/attivi che passerebbe dal 27 al 70 percento. La causa principale dello svuotamento industriale del Sud risiede in quelli che gli economisti chiamano “vantaggi dell’agglomerazione”: solo dove l’industria è presente, si

consoli-da e si ramifica, conviene investire. E così le spirali virtuose e viziose si avviluppano, rischiando di tagliar fuori il Mezzogiorno.

Dagli sviluppi sul mercato interno non possiamo attenderci molto nei prossimi mesi e forse nei prossimi anni. Nel breve termine la flebile ripresa annunciata dal Governatore Visco appare più che altro come il fondo della recessione più che la rampa di lancio

per una crescita sostenuta della domanda interna: pesano l’incertezza politica, il credit

crunch, la paralisi politica ed economica dell’Eurozona. Ma anche spostando lo sguardo sul medio termine, è difficile pensare che un Paese invecchiato, con una bassissima natalità e una distribuzione del reddito che rispecchia più l’impegno, i risparmi e le ren-dite delle generazioni ormai anziane, possa tornare ad alti ritmi di consumo sostenuti nel tempo. Per necessità, occorre guardare ai mercati esteri più dinamici, verso l’Atlan-tico e il Pacifico. Le nostre imprese industriali lo hanno compreso da tempo, e hanno fatto di necessità virtù, anche se la debolezza del mercato nazionale pesa pure per gli esportatori che lavorano sovente, rispetto ai concorrenti, con un eccesso di capacità produttiva e dunque costi più alti per via di una componente nazionale del fatturato in caduta da anni. Riorientare le vendite dall’interno verso l’estero non è questione che si possa risolvere all’istante, e nel frattempo la capacità inutilizzata pesa sui conti aziendali. Il recente Rapporto sulla competitività dell’Istat fotografa l’imponente e prolungato sforzo di trasformazione delle imprese industriali italiane sui mercati esteri durante il triennio 2007-2010, e dà conto di quel processo di trasformazione del tessuto produttivo al quale spesso ci si riferisce come “distruzione creatrice”: le imprese con relazioni commerciali e produttive con l’estero sono diminuite infatti di 5.000 unità, ma sono aumentate del 18 percento quelle che adottano forme più evolute di inter-nazionalizzazione mentre quelle che hanno ripiegato su forme meno sofisticate sono state il 12 percento. Circa 3.500 imprese, dunque, si sono mosse verso modelli di business più avanzati. E colpisce che se interrogate sui vincoli all’espansione estera, le imprese dichiarino come, oltre alla dimensione ridotta o alla scarsità di credito, pesino le difficoltà gestionali e organizzative. Come più volte abbiamo sostenuto, investire in competenze e capitale immateriale è la vera bussola per navigare sul mercato globale. “Politica industriale” è una parola-chiave, ma occorre intendersi sul cosa significa. Un corso di formazione regionale può rappresentare un trasferimento corrente se serve solo a sussidiare il reddito dei “formatori”, ma deve essere contabilizzato come un investimento se aumenta in modo strutturale le competenze del “formati”. Non si trat-ta quindi solo di spendere, ma senza un adeguato bacino di capitrat-tale umano, i pochi laureati del Mezzogiorno saranno abili solo per i concorsi scolastici o per l’emigrazione intellettuale, mentre l’istruzione superiore tecnica resterà carente.

Senza un significativo stanziamento automatico di credito d’imposta per la ricerca delle imprese (si potrebbe attingere al Fondo di 2 miliardi dal riordino degli incentivi presso il MISE e nel Sud ai Fondi al prossimo Bilancio UE, una volta che sarà varato), solo il pubblico spenderà in R&S al Sud, e questo non è sufficiente. Per comprenderlo basta

osservare come si sono mosse in questi anni, pur coi vincoli della crisi, le élite politiche

termine presentato nel 2010 dal governo Tory si propone di aumentare le risorse pubbliche destinate all’istruzione come viatico per la crescita economica. In Francia, è in corso da mesi un dibattito informato e vivace per la revisione del regime di credito d’imposta per la ricerca e sviluppo delle imprese, con lo scopo di aumentare se possi-bile le risorse pubbliche che già raggiungono il miliardo di euro all’anno. In entrambi i casi, la ragione è che si ritiene assai elevato il rendimento pubblico per l’investimento in capitale umano. In Francia, ad esempio, si stima un effetto leva di 1,31: ogni euro di credito d’imposta stanziato ha generato 1,31 euro di ricerca e sviluppo in più, con un effetto strutturale aggiuntivo sulla crescita annua dello 0,5% dopo 15 anni per via

dell’impatto della R&S17.

L’impegno delle classi dirigenti per una nuova governance dei processi economici e amministrativi è tanto più necessario nelle regioni del Meridione. Dai Fondi europei, se spesi in tempo e bene, può giungere un contributo importante alla presenza e all’efficienza industriale nel Sud. Nei due anni trascorsi, i Governi hanno agito bene per recuperare l’inerzia della seconda metà del decennio passato, ed evitare che una gran parte dei Fondi strutturali andassero perduti per via dei ritardi nei programmi regionali e della carenza di risorse per il co-finanziamento. Abbassando al 25 percento la quota di risorse nazionali per i programmi di Convergenza, si sono recuperate in extremis risorse per infrastrutture, istruzione, sicurezza e occupazione giovanile. Su questa linea di responsabilità e innovazione occorrerà insistere con ancora più decisione nei pros-simi anni.

la responsabilità dello sviluppo

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