Al sesto anno di recessione produttiva e sociale, il panorama economico italiano si va rapidamente e drasticamente modificando come ci ricorda la cronaca quotidiana e
come ci segnalano indagini approfondite1. Gli esiti di questa “Grande Trasformazione”
del sistema socio-economico italiano, nel più complessivo contesto europeo e globale, sono incerti e aperti. Tuttavia, ad oggi, le stime indicano che occorrerebbe un incremen-to di circa il 35 percenincremen-to della produzione industriale necessario per incremen-tornare al livello pre-crisi di pieno impiego degli impianti (80 percento della capacità produttiva), e che questo livello si raggiungerebbe in 13 anni se il ritmo di incremento della produzione
fosse dello 0.6 percento in media per trimestre2. Il tasso di disoccupazione calcolato
dall’Istat ha raggiunto nel mese di gennaio l’11,7 percento, il valore più elevato dal 1992. La disoccupazione giovanile è al 38,7 percento, il massimo storico. Il risultato delle elezioni del 24 e 25 febbraio, con la frammentazione del quadro politico e l’a-scesa prepotente di un partito di “outsider” come il Movimento 5 Stelle, riflette lo stato
di gravissima difficoltà di imprese e famiglie, nonché la sfiducia nei confronti delle élite
* di Stefano Manzocchi, Ordinario di economia internazionale, LUISS “Guido Carli”. Direttore LUISS Lab.
1. Si vedano ad esempio Giorgio Albareto, Paolo Finaldi Russo, Fragilità finanziaria e prospettive di
crescita: il razionamento del credito alle imprese durante la crisi, Questioni di Economia e Finanza
politiche, finanziarie ed anche intellettuali. Tutte queste élite sono state considerate da circa un quarto dei votanti incapaci di elaborare risposte convincenti per la crisi sociale, e preoccupate quasi soltanto di mantenere il proprio ruolo, le proprie rendite di posizione, il proprio potere indipendentemente dai risultati ottenuti (senza alcuna accountability, in sostanza).
Tornando al processo di trasformazione economica, anche solo definire un livello di produzione industriale pre-crisi diventa arduo in tempi in cui la diminuzione degli impieghi si intreccia con un mutamento strutturale che modifica l’universo delle imprese attive, le tipologie dei beni prodotti, le tecniche impiegate, i prezzi dei fattori
e delle merci3. Questa trasformazione si dispiega sul territorio inteso come entità
geo-economica e sociale. Da sempre le imprese, specie quelle industriali, tendono a concentrarsi in alcune aree e regioni più che in altre: questo è vero ovunque, e nel nostro Paese questo accade soprattutto nel Nord. La densità industriale, com’è noto da Alfred Marshall in poi, ha effetti sulla produttività delle imprese stesse. Quest’ultima non dipende solo dalla dotazione dei fattori della produzione e dall’efficienza con cui
questi sono combinati (fattori interni: lavoro, investimenti, management; o esterni:
infrastrutture, PA) ma anche dalla dimensione media d’impresa e dalla maggiore o minore presenza di attività industriali in un determinato territorio.
Pur difficili da stimare, il capitolo dà un ordine di misura per questi effetti sulla produt-tività delle atprodut-tività industriali. Il potenziale di recupero della produtprodut-tività nelle Province più arretrate è molto rilevante in termini di efficienza interna, di elementi di contesto, di
radicamento ed espansione della base produttiva. Per i policy maker, a livello centrale
o locale, si tratta di considerare le imprese industriali come “mobili”, e di coltivare quei comportamenti e quelle condizioni territoriali che ne favoriscono la tenuta, la competi-tività e l’attrazione: tra queste ci soffermiamo sulle infrastrutture, sul rapporto tra fiscalità e ruolo della Pubblica Amministrazione (PA), e sul capitale immateriale.
Nel caso delle infrastrutture, la priorità per il sistema delle imprese appare l‘avvio di una vera riforma del processo legislativo, che disboschi la pletora di leggi esistenti e le sosti-tuisca con testi essenziali e comprensibili anche per gli investitori esteri. Da questo può conseguire una riforma del sistema di autorizzazioni, che non costringa più le imprese a “rincorrere” i responsabili delle diverse fasi del processo, ma che consegni loro, per così dire, il progetto autorizzato e l’eventuale concessione “chiavi in mano”. Da questo punto di vista, il Paese è drammaticamente arretrato rispetto ai partner europei. A giudizio degli operatori la liquidità finanziaria potenzialmente disponibile sui mercati globali per finanziare le infrastrutture italiane oggi non è scarsa, mentre ben più stringenti sono i vincoli posti allo sviluppo delle infrastrutture dalla scarsa efficienza e certezza delle rego-le che emanano dal comparto della PA. Per utilizzare a pieno la rego-leva delrego-le infrastrutture come volano per la produttività, si tratta quindi di risolvere il nodo della scarsa fruibilità e della inaffidabilità del circuito legislativo-autorizzativo e giudiziario italiano. Alla
tiva di buona parte del mondo imprenditoriale, si contrappone tuttavia nel Paese una diffusa resistenza a realizzare alcune infrastrutture, che si è concretizzata in questi anni in numerosi episodi di contrasto e ribellione sul territorio (il caso dei No-TAV è il più noto, ma ve ne sono molti altri). Questa resistenza è riconducibile in parte a fenomeni del tipo NIMBY (“non nel mio giardino”), in parte a una sottovalutazione dei benefici di alcune infrastrutture, in parte a una visione alternativa del sistema socio-economico che privilegia le piccole opere pubbliche e le compatibilità ambientali, e ha alimentato
l’ascesa del Movimento 5 Stelle4.
Per quanto attiene alla questione fiscale colpisce, sul piano territoriale, l’escalation del “tax rate” sulle imprese in tutte la macro-ripartizioni ma specie nel Mezzogiorno, con un aumento medio di due punti e mezzo in un anno. Nel Centro-sud, le imprese che pagano le tasse sopportano una pressione in media superiore del 4 percento rispetto al Nord, dove è concentrata la base produttiva del Paese. Questo dato dovrebbe far riflet-tere: vero che l’evasione è proporzionalmente maggiore nel Mezzogiorno, ma il fatto che le attività produttive siano più rarefatte dove le tasse sono più alte è preoccupante perché indica una spirale regressiva. Inoltre, in prospettiva, come si potrà sostenere il costo di una Pubblica Amministrazione poco in sintonia con le esigenze delle imprese se la base produttiva si contrarrà ulteriormente? Una via d’uscita possibile dalla stagna-zione industriale sarebbe stabilire sin d’ora percorsi regionali per una ridustagna-zione delle imposte bilanciata dalla riduzione dei costi e/o da un aumento di efficienza delle PA. In prospettiva, creare e sviluppare imprese sul territorio dipenderà sempre più anche dal cosiddetto “capitale immateriale”. È un tema sviluppato presso il LUISS Lab e nei precedenti due Rapporti Classe Dirigente, ma che qui decliniamo su base regionale. Non è solo la spesa aggregata in Ricerca e Sviluppo che divide il Paese, ma quella delle imprese: quest’ultima è decisiva per la crescita dimensionale, la diversificazione industriale, l’attrazione di nuove aziende sul territorio. Non è strano che questa si con-centri laddove le imprese sono più presenti, ma è altresì necessario che questa spesa per l’innovazione si combini con il “fattore umano”: alti tassi di scolarizzazione, più diplomati e laureati nelle discipline che l’industria richiede. In Italia, solo di recente si sta davvero considerando che il “Soft Capital” potrebbe avere un impatto almeno pari a quello delle infrastrutture materiali. Eppure siamo lontani dagli obiettivi da noi stessi indicati nel Piano nazionale delle riforme (PNR) presentato a Bruxelles, e soprattutto le disparità regionali sono così marcate da costituire uno dei principali ostacoli alla ricomposizione geo-economica del Paese.