A conclusione dei dodici mesi sono state individuate tre strategie importanti da per-seguire nell’ambito specifico dell’occupazione giovanile, illustrate sempre nel testo
richiamato9 su tre livelli.
La prima strategia richiede di sciogliere la “glaciazione” delle politiche e dei
comporta-menti dei soggetti in gioco. Questo vale innanzitutto dal lato della domanda di lavoro, poiché se le imprese intendono avere ancora un futuro di sviluppo non possono
rin-serrarsi nel presente e far prevalere gli atteggiamenti di autoprotezione e di attendismo, bensì devono proiettarsi sul futuro con Mappe Cognitive nuove e con Mappe Emotive coraggiose. E questo ha una conseguenza immediata anche sul piano della costruzione di un tessuto di risorse umane di adeguata qualità, che non può nascere all’istante quando il ciclo riprenderà. Esso ha bisogno, al contrario, di essere adeguatamente selezionato in anticipo, formato e inserito per tempo. Se tutto è fermo in attesa del superamento della crisi, quando questa sarà superata le imprese correranno il rischio di trovarsi impreparate.
Ma il ragionamento vale altrettanto dal lato dell’offerta di lavoro e cioè dei giovani e delle famiglie, poiché bisogna tener presente come:
- il panorama delle opportunità lavorative sia profondamente mutato rispetto al passato: un tempo c’erano i “grandi fiumi” di richiesta di manodopera (pubblica e privata, prevalentemente a tempo indeterminato) mentre oggi ci sono sempre più i “rigagnoli” (più difficili da individuare e con un processo di transizione lungo di contratti atipici);
- un tempo esisteva un collegamento un po’ più stretto (ma non così stretto come oggi si ritiene) tra formazione avuta e lavoro in cui inserirsi, mentre le trasformazioni in corso rendono particolarmente ampio il fossato tra ciò che si è appreso durante la formazione e ciò che si va (e si andrà) a svolgere in concreto sul lavoro; - la crescita del livello medio di formazione delle risorse umane induce poi a
rite-nere che gli sbocchi professionali debbano essere tutti e necessariamente di tipo terziario, mentre la caratteristica fondamentalmente manifatturiera del nostro Paese e la necessità di presidiare anche i mestieri caratterizzati da una forte e intelligente manualità richiedono una revisione delle attese non solo da parte dei giovani ma anche delle loro famiglie (che sull’istruzione dei figli hanno puntato in maniera significativa);
- l’eventuale flusso di risorse umane giovani verso l’estero non debba chiamarsi sempre e comunque “emigrazione”, con tutte le connotazioni negative che questa definizione comporta, rimandando il pensiero degli adulti a una fase di povertà che il Paese ha vissuto in passato, con i grandi spostamenti di lavoratori dal Sud al Nord e dall’Italia all’estero: oggi lavorare a Düsseldorf piuttosto che a Bordeaux o a Stoccolma rappresenta una mobilità territoriale che deve rientrare del tutto nella fisiologia dell’inserimento professionale, senza pensare che la vita dei giovani debba necessariamente svolgersi all’interno di un ciclo da compiersi interamente sotto casa;
- non sempre le attese rispetto al lavoro sappiano mettere consapevolmente in gioco tre condizioni che debbono essere contemporaneamente presenti per facilitare un buon passaggio verso la vita attiva: quella della presenza di una chiara vocazione, quella del possesso effettivo dei talenti necessari per perseguirla e quella della pre-senza di opportunità di impiego più o meno coerenti sul mercato del lavoro (a cui si aggiunge – a sostegno delle tre condizioni menzionate – una forte determinazione personale da parte dei giovani);
- come, infine, non basti l’atteggiamento ansiosamente protettivo da parte dei genito-ri, che viene riconosciuto come eccessivo da tutti i quattro panel intervistati; mentre bisognerebbe investire di più le risorse economiche, psicologiche, assistenziali della famiglia di origine secondo una modalità meno “protettiva” e molto più “promo-zionale”, attraverso, ad esempio, un sostegno fornito all’uscita dalla famiglia per sperimentare l’esercizio della mobilità territoriale e professionale come per favorire la spinta verso l’imprenditorialità.
La seconda strategia richiede di concepire “politiche di sistema” e non – come spesso
accade – politiche frammentate che, pur moltiplicando i sostegni forniti ai giovani, rendono difficile l’interpretazione del percorso di accesso alle opportunità offerte. Se si tratta di affrontare non solo la difficoltà quantitativa (poca domanda, molta offerta), ma anche quella qualitativa (squilibrio tra qualità professionali richieste e qualità profes-sionali disponibili), ma soprattutto l’estrema flessibilità delle prestazioni che ai giovani si richiede, bisogna saper ricomporre il quadro delle politiche complessive: quelle del
lavoro, quelle della formazione, quelle del welfare di accompagnamento. Tale
convin-cimento risulta molto chiaramente percepito dagli stessi intervistati dei quattro panel, quando sottolineano come “non sia giusto chiedere la flessibilità ai giovani che entrano nel mondo del lavoro, senza che diventino flessibili anche i sistemi di collocamento, i sistemi formativi e il sistema pensionistico” (con un accordo degli intervistati che tocca l’81,6% per gli studenti, l’85,6% per i genitori, l’85,9% per i docenti e l’89,4% per i responsabili associativi).
In altre parole – sottolinea il Rapporto – abbiamo bisogno di dar vita a una “flessibilità bilanciata” che sappia mettere in gioco tutte quelle trasformazioni che servono dal lato dei sistemi di offerta, che siano in grado di accompagnare le tante forme di lavoro atipico che oggi i giovani debbono affrontare. Questo deve avvenire sul piano contem-poraneo di un’adeguata flessibilità, applicata:
- ai servizi formativi (e della relativa certificazione); - ai servizi di orientamento professionale e personale;
- ai canali di collocamento come pure di ricollocamento dopo aver eventualmente perso il lavoro precedente;
- all’anticipazione delle esperienze di lavoro, in tutte le forme possibili, già durante il periodo formativo, poiché – come è stato sottolineato da tutti gli intervistati nelle indagini contenute nel presente testo –, vivere anche temporaneamente dentro un’azienda aiuta a capire meglio come funziona il mondo del lavoro e le sue regole;
- all’acquisizione anche di quelle competenze definibili come soft skills, cioè quelle
legate ai comportamenti, agli atteggiamenti, alla capacità di relazione con le per-sone, le quali risultano particolarmente utili per realizzare un buon ingresso nella vita attiva.
La terza strategia deriva immediatamente da quanto appena ricordato: serve cioè una
nella fase anticipatoria della formazione sia nella fase di primo inserimento, si declina attraverso la capacità di stabilire rapporti soddisfacenti con i vari protagonisti. Ebbene allora bisognerà migliorare con decisione:
- la relazionalità tra la formazione e l’anticipazione delle esperienze di lavoro per i giovani che sono ancora presenti all’interno delle istituzioni educative;
- la relazionalità tra il mondo degli adulti e quello delle generazioni più giovani, all’insegna di un’apertura positiva sul futuro, senza farsi sommergere dai timori che conducono spesso gli adulti a proiettare sui giovani più un senso di involuzione se non addirittura di catastrofe annunciata piuttosto che un senso di nuove possibilità di sviluppo che il mondo può offrire;
- la relazionalità tra politiche della flessibilità riferite a settori diversi, nel senso che flessibili non possono essere – come si è ricordato – solamente i giovani che entrano nel mondo del lavoro, bensì anche le modalità con cui l’accompagnamento relativo deve avvenire sul piano della formazione, dell’orientamento, del colloca-mento, della copertura pensionistica;
- la relazionalità infine tra soggetti pubblici e privati che agiscono a livello territoriale, in modo da rendere “corale” l’apertura di una stagione dedicata al passaggio alla vita attiva, in vista di sperimentare un sistema più fluido e interconnesso, in cui ogni settore delle politiche e dei servizi fornisca il proprio contributo specifico, ma in un quadro che sappia mettere a sistema i diversi apporti, contribuendo a creare una vera e propria Piattaforma per le giovani generazioni.
Parlare di relazionalità, in particolare con riferimento alle politiche e ai soggetti collettivi, significa affrontare un tema fondamentale, quello delle “giunzioni” inappropriate, le quali originano dal fatto che ogni ambito si sente appagato dalle iniziative che riesce a mettere in piedi nel proprio quadro di competenze, trascurando il fatto che le debolez-ze più importanti riguardano proprio il collegamento tra un sistema e l’altro (il passaggio tra una situazione di studio e una situazione di lavoro, tra una situazione di lavoro che si esaurisce e un’altra che va trovata, tra una situazione di lavoro e una situazione di studio e riqualificazione, e così via).
Insomma mentre oggi le giunzioni sono ancora “terra di nessuno” esse debbono diven-tare sempre di più “terra di tutti”. Infatti far bene il proprio mestiere per le istituzioni, come per gli altri soggetti collettivi, non basta più, se non si riesce anche a far bene il collegamento tra mestieri diversi.
E qui viene ancora una volta a manifestarsi l’importanza di dar vita ad “alleanze per lo sviluppo” a livello locale, in cui deve convergere la capacità delle diverse classi diri-genti di collaborare per un comune obiettivo concreto. Il che implica un’assunzione di “responsabilità del Fare”, diretta ad adottare a un tempo una visione di medio periodo e a praticare un’azione significativa di breve periodo che sappia adeguatamente inter-pretare la prima.