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La definizione di native advertising e i confini della disciplina

Capitolo 1. I cambiamenti di paradigma dovuti a internet e i nuovi modi di comunicare

2.1 La definizione di native advertising

2.1.1 La definizione di native advertising e i confini della disciplina

Dopo avere definito l’ambito di indagine nel corso del primo capitolo, inerente alle nuove forme di comunicazione online, si propone nel secondo capitolo una rassegna della letteratura sul native advertising insieme ad alcune statistiche sul suo utilizzo.

Tuttavia l’utilità dei paragrafi del primo capitolo è evidente se si pensa che uno degli obiettivi della ricerca del presente elaborato sarà quello di indagare dove si inserisce il Native Advertising nel consumer journey secondo le valutazioni dei soggetti intervistati. I paragrafi successivi al primo, invece, hanno posto le basi del discorso su cui si poggia l’esistenza del native advertising: nuovi paradigmi di comunicazione tra l’azienda e i clienti, il declino della display advertising a favore di forme di comunicazione più vicine alla narrazione (corporate storytelling e content marketing) e l’utilizzo di applicativi per bloccare le pubblicità sgradite su internet.

Fin da subito è utile avvisare che la letteratura sull’argomento non è molto approfondita, in quanto la maggior parte degli studi – tutti degli ultimi tre anni – sono esplorativi, e come obiettivo di ricerca si sono posti il tentativo di proporre una semplice definizione, in modo da restringere i confini di questa forma di comunicazione online per permettere di studiarla con maggiore definizione in futuro.

Tuttavia molte associazioni di pubblicità online, come lo IAB (Internet Advertising Bureau), e altri enti di ricerca, hanno fatto molto per testare l’utilizzo di questa forma pubblicitaria e di rendere evidenti i suoi benefici da molti punti di vista. Nella rassegna della letteratura verranno inclusi quindi anche i contributi provenienti da queste fonti.

Le definizioni di native advertising reperite sono molte, e riguardano anche forme di pubblicità in realtà tra di loro differenti.

Come discusso nel capitolo primo nella rassegna delle diverse tipologie di pubblicità online, Rodgers e Thorson (2000) tra queste hanno inserito le sponsorizzazioni (sponsorships). Queste sono definite come un contesto online in cui una forma indiretta di persuasione permette alle aziende di raggiungere i propri obiettivi di marketing associandosi a dei

contenuti chiave. Le sponsorizzazioni possono essere la semplice firma del brand (ad esempio: “sponsorizzato da Kraft Foods”), oppure possono apparire anche come parte del contenuto di una pagina web e il collegamento ipertestuale al sito ufficiale del brand. Come idea, questa forma introdotta dagli autori richiama quella dei contenuti editoriali sponsorizzati, che come vedremo rientrano all’interno del native advertising.

Abbiamo poi visto, nel corso del primo capitolo, che anche l’Internet Advertising Bureau inserisce le sponsorizzazioni tra le forme di pubblicità online, definendole come la fattispecie in cui l’inserzionista paga per un contenuto sponsorizzato (che può essere di diverse forme, da un semplice logo a un video) all’interno di un altro sito, rimandando al sito dell’inserzionista stesso.

Si era infine anticipata la classificazione della comunicazione online di Campbell, Cohen, & Ma (2014) che, tra le tredici forme di comunicazione su internet, ne inserisce quattro riconducibili – come vedremo – al native advertising. Queste sono:

• Il publiredazionale: contenuti correlati al brand o ai suoi prodotti creati da un brand e progettati per simulare lo stile e la forma di un contenuto editoriale (non a pagamento), per cui però il brand ha pagato l’editore;

• I contenuti editoriali dei brand: contenuti prodotti da un sito editoriale o di notizie ma per cui il brand ha un certo grado di controllo. Avviene il pagamento per uno spazio pubblicitario, e il controllo editoriale viene condiviso tra l’azienda e l’editore;

• I contenuti editoriali sponsorizzati: contenuti prodotti interamente dai siti editoriali ma la cui creazione avviene in cambio di uno spazio pubblicitario (nella forma di un banner) del brand che viene sponsorizzato. Il brand ha influenza sul contenuto, ma il controllo resta interamente in mano all’editore;

• Pubblicità consensuale: comunicazioni basate sul consenso e legate a un brand o ai suoi prodotti provenienti da un brand che si posizionano all’interno del flusso di un social network. Non avviene un pagamento per lo spazio in quanto il contenuto del brand si visualizza organicamente nelle bacheche degli utenti-follower della pagina. Come vedremo, quest’ultima è una forma impropria di native advertising, e verrà precisata con maggiore dettaglio in seguito.

Vediamo che la sponsorizzazione come forma di pubblicità online è considerata dalla letteratura da molti anni; tuttavia, appena emerge il tema del native advertising notiamo altresì che non c’è una definizione affatto univoca.

Il native advertising, infatti, è un’etichetta che gli addetti al settore hanno utilizzato negli ultimi anni per chiamare molte forme diverse di comunicazione su internet, dall’evoluzione del publiredazionale agli articoli sponsorizzati su un sito editoriale fino ai post sponsorizzati sui social network.

In generale, e provando a mettere un po’ di ordine, per native advertising si intende un formato pubblicitario creato per un mezzo specifico in termini di formato tecnico e di contenuto, dove entrambi gli aspetti sono “nativi” rispetto al canale in cui appaiono, e inadatti ad apparire in un contesto diverso (Joel, 2013).

Ciò significa che se uno spot pubblicitario viene creato per uno specifico evento (ad esempio una manifestazione sportiva) ed è adatto ad essere trasmesso solo durante quel periodo, non si tratta di native advertising, perché a livello tecnico il formato dello spot pubblicitario può apparire su diverse piattaforme. Allo stesso modo, se un articolo sponsorizzato di un determinato brand apparisse solo su una testata editoriale, secondo Joel (2013), non si dovrebbe trattare di native advertising, poiché potrebbe essere pubblicato anche in altre testate editoriali.

Secondo l’autore, infatti, si può parlare di native advertising solo quando sia dal punto di vista tecnico (la piattaforma in cui viene inserita la pubblicità) sia dal punto di vista di contenuto (che non viene replicato in altri formati) c’è unicità. L’esempio che viene riportato è un post sponsorizzato su Facebook di un brand: una forma di pubblicità che può apparire solo sul news feed di Facebook, e che lo stesso brand non può replicare in nessun’altra piattaforma.

Tuttavia, gli autori non hanno una visione univoca sul native advertising. Secondo Campbell e Marks (2015), il native advertising è una forma pubblicitaria online desiderata dai consumatori che appare nel mezzo di un flusso di contenuti. Si tratta cioè di una forma unica di pubblicità online in cui:

1. Il consumatore dà il permesso all’inserzionista di comunicare con lui;

2. Il formato pubblicitario minimizza il disturbo dell’esperienza dell’utente in cui si inserisce.

L’aspetto più importante risulta essere quindi la valorizzazione della user experience, con il duplice scopo da un lato di ottimizzare la probabilità che un contenuto pubblicitario venga visualizzato, e dall’altro di renderlo più rilevante per il consumatore.

Il mescolamento della pubblicità con i contenuti circostanti non è una pratica nuova, in quanto discende direttamente dal publiredazionale (advertorial), una forma di pubblicità

creata per non infastidire il consumatore e non sembrare una pubblicità (Kim et al., 2011). Ciò che distingue il native advertising dal publiredazionale è l’organicità con cui si inserisce all’interno di un’esperienza di navigazione da parte dell’utente (Matteo & Dal Zotto, 2015). La logica alla base potrebbe sembrare simile, ma in realtà nelle piattaforme digitali il confine tra “contenuti editoriali sponsorizzati” e “contenuti editoriali” è davvero minima, pertanto potrebbero sembrare la stessa cosa. Inoltre, il native advertising può rendere i contenuti dei brand “social”, in quanto sono condivisibili sui social network con le stesse logiche degli articoli normali. Questi aspetti di somiglianza, tuttavia, nonché questa assenza di etichette, sfumano molto l’etica giornalistica per cui i contenuti editoriali dovrebbero essere ben distinti dalle pubblicità, anche e soprattutto adesso che si sta lentamente andando oltre alla display advertising (pubblicità interruttiva) per sposare la logica dell’integrazione senza interruzioni. E secondo Matteo e Dal Zotto (2015) se l’evoluzione della pubblicità online passa attraverso gli aspetti della condivisibilità e della diffusione da parte degli utenti, senza che sia interpretata come un’interruzione, allora la pubblicità si sta re-inventando, e si sta affermando come un servizio di valore per i consumatori.

D’altronde la natura della disciplina non rappresenta affatto un concetto nuovo, se viene attribuita questa citazione a David Ogilvy: “It has been found that the less an advertisement

looks like an advertisement and the more it looks like an editorial, the more readers stop, look and read. Therefore, study the graphics used by editors and imitate them. Study the graphics used in advertisements, and avoid them.”

2.1.2 La definizione dell’Internet Advertising Bureau e le diverse tipologie di