• Non ci sono risultati.

La definizione di native advertising secondo le agenzie e gli esperti di settore

Capitolo 1. I cambiamenti di paradigma dovuti a internet e i nuovi modi di comunicare

3.1 Metodologia della ricerca

3.2.2 La definizione di native advertising secondo le agenzie e gli esperti di settore

Sono state intervistate due agenzie di tipologia molto differente. Claudio Vaccaro è managing director di BizUp, un fornitore di servizi di digital marketing alle aziende fortemente incentrata sulla produzione di contenuti, la loro ottimizzazione e la loro distribuzione, in ottica sia di digital PR che di performance marketing. All’inizio del 2015 è nata una divisione interna a BizUp, chiamata UpStory, che si pone come una piattaforma di native advertising e di branded content per mettere in contatto gli editori con le aziende inserzioniste. Ne verrà spiegato dettagliatamente il funzionamento nel paragrafo 3.5, dedicato al flusso pubblicitario del native advertising. È stato poi intervistato Luca De Fino, il responsabile delle attività di content marketing e di digital PR di Ogilvy & Mather Italia, un’agenzia di comunicazione olistica.

Per quanto riguarda gli esperti di settore, sono stati selezionati tre soggetti con esperienze diverse: Chiara Davanzo Zamarian ha quindici anni di esperienza nella comunicazione di marketing dal punto di vista aziendale, passando per ruoli lavorativi più legati al digitale e al mondo delle agenzie di digital marketing; Marzo Ziero è un esperto di strategie digitali e di digital marketing a performance; Andrea Gastaldon, invece, è un consulente esperto di content marketing e di digital PR, e ha apportato un interessante punto di vista per quanto riguarda la distribuzione dei contenuti.

In linea generale questi soggetti concordano sul definire il native advertising come un tipo di pubblicità che si inserisce organicamente rispetto al contesto digitale circostante. Nel caso di Claudio Vaccaro, data la forte esperienza con il digitale, la definizione è molto ampia e coincide con tutti i formati che sono presi considerazione dallo IAB (2013), fermo restando che rimane ancora molta confusione nel mercato.

“Nel mercato c’è ancora molta confusione, soprattutto tra contenuto e distribuzione, ma c’è poco da inventarsi, perché il mercato è già stato codificato dallo IAB nel 2013, che ha identificato sei formati nativi. La mia definizione di native advertising è quindi: ogni forma pubblicitaria che è coerente con il contesto editoriale, cioè che si inserisce in maniera coerente con tutto il contorno e il contesto in cui è inserito l’annuncio, sia nella forma sia nella funzione. Prendiamo ad esempio l’home page di un sito: se qui esistono dei contenuti editoriali, il formato pubblicitario nativo deve avere gli stessi caratteri, gli stessi colori, la stessa forma e lo stesso template degli altri fasci editoriali, ma deve essere ben identificato da un’etichetta che contrassegni il contenuto come sponsorizzato. Oppure: se questi contenuti su mobile navigano attraverso il tap del cellulare, anche quel contenuto sponsorizzato deve potersi navigare in quel modo. Quindi forma e funzione devono essere coerenti.”

[Claudio Vaccaro] Ma una definizione più astratta è quella di Luca De Fino, dovuta sicuramente al suo background di comunicazione tradizionale, che tuttavia coglie i cambiamenti e l’evoluzione in atto.

“Non c’è una definizione di native advertising migliore di un’altra. Io banalmente potrei dirti che il native advertising sono i classici publiredazionali che, portati sul web, assumono un aspetto e una conformazione diversa rispetto a quelli cartacei. Oppure diversa rispetto ai publiredazionali che conoscevamo rispetto a qualche anno fa sul web. Questo perché trattasi di contenuto sponsorizzato che si mimetizza in

modo organico con il contesto nel quale esso appare. Questo non è un tema solo di estetica, e di sostanza, perché il vantaggio è quello di non interrompere l’utente con delle forme intrusive di pubblicità, in modo tale che l’utente legga delle informazioni branded in un contesto in cui le informazioni non sono branded, e che ci sia un legame concettuale tra questi due tipi di fonti.”

[Luca De Fino] L’aspetto sottolineato da Ogilvy è quello del legame concettuale tra una fonte editoriale e una fonte aziendale: si riconosce da lontano quanto detto da Elia Blei di Condé Nast, per il quale il native advertising significa fondere la qualità editoriale tipica delle redazioni giornalistiche con i contenuti prodotti dalle o per le aziende.

Viene fatta una forte associazione con l’idea di publiredazionale, soprattutto per fare intendere che l’idea di native advertising non è in realtà nuova, ma discende da un’idea molto chiara di contestualizzazione della pubblicità all’interno di un ambiente in modo che non sia percepita come invasiva.

Questa visione viene confermata anche da un esperto di settore, per cui il native advertising sarebbe una traslazione nel digitale del vecchio publiredazionale che apparteneva alla carta stampata.

“Secondo me il concetto di native advertising è un po’ sopravvalutato: ritengo che sia una forma pubblicitaria contestuale che unisce contenuti editoriali a contenuti squisitamente pubblicitari. Questa operazione, ora chiamata native advertising, in realtà esiste da sempre: con 15 anni di esperienza di lavoro posso dire con certezza che anche dieci anni fa si facevano lo stesso tipo di operazioni, magari meno sbilanciate sul digital e limitate alla carta stampata. È un po’ il buon vecchio

publiredazionale. Non erano molto distanti da quello che quantomeno oggi si propone da parte delle concessionarie in particolare italiane. […] Ad oggi le concessionarie pubblicitarie italiane nel native propongono una traslazione del publiredazionale sull’online, avvalendosi di supporti più multimediali come i video.”

[Chiara Davanzo Zamarian] Se però il publiredazionale si “mimetizzava” con il contesto circostante, di certo questo non può essere il caso del native advertising, in quanto ne vengono sottolineati gli aspetti di multimedialità e interattività, tipici del mondo digitale.

Lo stato di pubblicità “nativa”, inoltre, non deriva solo dal contesto in cui lo spazio pubblicitario è ospitato, ma riguarda soprattutto la dimensione della user experience.

”Quindi io lo vedo come nativo rispetto all’esperienza di navigazione dell’utente, e quindi per me è un tipo di pubblicità che effettivamente in termini di layout un po’ non si sveli troppo come pubblicità.”

[Marco Ziero] Il concetto di “native” non si ferma a queste molteplici sfumature sottolineate dalle agenzie e dagli esperti, perché il native advertising può avere una connotazione anche meno chiaramente pubblicitaria, nel senso di messaggio a pagamento.

“Il mio approccio è legato al native advertising come un concetto, un’attitudine di creazione dei contenuti. È un modo di intendere anche le iniziative, legato soprattutto al tone of voice e al target.”

[Andrea Gastaldon] Secondo Gastaldon, il native advertising, in questo senso, potrebbe essere un tipo di comunicazione aziendale creata e diffusa secondo i codici del tono di voce della testata editoriale dove il contenuto andrà ad inserirsi, e coerente rispetto al target con cui si vuole andare a comunicare.

Questo tipo di definizione farebbe rientrare le attività di comunicazione “native” nell’alveo delle attività di Digital PR, che hanno l’obiettivo di incrementare la reputazione aziendale o di aumentare l’awareness della marca o di un prodotto presso gli earned media, cioè presso quegli spazi terzi dove l’azienda può comunicare o fare parlare di sé.

Questa visione si avvicina a quanto espresso da Ogilvy, dove la divisione deputata a svolgere le attività di native advertising è quella di “Content Marketing & Digital PR”.

“Con dei progetti che utilizzano i contenuti anche con i prodotti di terze parti si può lavorare maggiormente sui values, i purposes, che vanno al di là del prodotto o servizio di una marca, e quindi si entra in un reame un pochino più corporate, di progetti che hanno l’obiettivo di fare reputazione, di influenzare, prima ancora di magari dirti “comprati questo perché paghi 1 prendi 2”.”

[Luca De Fino] Anche UpStory, la piattaforma di native advertising creata dall’agenzia BizUp, tra le varie ragioni è nata dal presupposto di unire l’expertise dell’agenzia nell’ottica della creazione dei contenuti con quella della loro diffusione dal punto di vista della reputazione aziendale. Le pubbliche relazioni nell’era digitale hanno sorpassato il semplice ruolo di attività di relazioni con i media, ma si pongono in un continuum molto forte con le attività rivolte alla creazione dei contenuti. Ciò fa intendere che produzione e distribuzione del contenuto

devono essere presi in considerazione in una logica integrata. Questo sarà evidente quando verranno riportati i risultati sul flusso pubblicitario del native advertising nel paragrafo 3.5 e poi nella discussione di questo punto nel paragrafo 4.3, non soltanto nel caso delle agenzie ma anche nel caso degli editori, che hanno iniziato a dotarsi di unità creative responsabili di produrre contenuti di native advertising per i propri clienti, e delle aziende, guardando al caso Pixartprinting.

3.2.3 Il native advertising secondo le aziende inserzioniste

Il punto di vista delle aziende sul native advertising si è inserito in un discorso più ampio riguardante tutte le forme di comunicazione digitale che le stesse aziende svolgono. Salewa, ad esempio, azienda del settore dell’abbigliamento sportivo outdoor e di montagna, ha intrapreso nel 2014 un percorso di evoluzione nella comunicazione che la ha portata a dare sempre più peso alle attività digitali. Tra le forme di comunicazione digitale utilizzate dall’azienda nell’ultimo anno e mezzo, c’è stata anche quella di native advertising o “advertorial”. Dopo avere spiegato le esigenze in termini di ottimizzazione del budget e di risultati attesi che hanno portato l’azienda a utilizzare anche gli strumenti native, è stata data la seguente definizione:

“Per native advertising intendiamo un tipo di contenuto che viene inserito all’interno di un flusso editoriale e racconta una storia, in modo interattivo.”

[Andrea Scroccaro] Vediamo quindi che un’azienda inserzionista individua due caratteristiche chiave dal native advertising che sono state sottolineate anche da altri soggetti, soprattutto dagli editori, cioè l’inserimento di un contenuto all’interno di un flusso editoriale, e la caratteristica di raccontare una storia in modo interattivo. Nonostante questa definizione, il native advertising è sempre stato usato come sinonimo di “advertorial”, mentre altri soggetti, come si è visto in precedenza, a questo termine danno un significato diverso, proprio dell’era pre-digitale.

Perché Salewa potesse considerare il native advertising è stata necessaria un’evoluzione organizzativa e quindi una ri-strutturazione dei ruoli aziendali: le attività di native vengono gestite dal team dedicato alle PR, con la precisazione che però nel contesto digitale hanno una connotazione diversa.

“Abbiamo portato nuovo expertise all’interno dell’azienda, assumendo persone con skill specifiche: PR non solo nel senso di relazioni con la stampa, ma di communication manager. L’evoluzione poi è stata verso il native advertising.”

[Andrea Scroccaro] Vediamo quindi alcuni tratti nella definizione di native advertising, vicina alle Digital PR, che erano stati sottolineati già precedentemente dagli esperti di settore. Anche Sodastream, azienda leader nella produzione di gasatori domestici, si è avvicinata al native advertising facendo rientrare queste attività all’interno di quelle di Digital PR.

“La decisione di fare native advertising è stata inclusa all’interno di un progetto di comunicazione più ampio. Non abbiamo deciso di fare native in sé, ma di fare un progetto di pubbliche relazioni, coinvolgendo un testimonial internazional, La Montagna di Game of Thrones. Tra i vari mezzi, quest’anno abbiamo deciso di testare Outbrain.”

[Francesco Favaro] Per questa azienda non c’è stata quindi una vera presa di consapevolezza nei confronti del native advertising e le sue potenzialità, anche se la cultura aziendale aperta alle sperimentazioni ha permesso di poter proseguire su questa strada. Tuttavia Sodastream ha utilizzato solo una tipologia di native advertising in senso lato, quella permessa da Outbrain, che verrà spiegata nel paragrafo 3.2.4. Viene confermato, inoltre, anche da quest’azienda che il native richiede un progetto di content marketing dietro, in questo esempio assente.

“Abbiamo ricevuto tante richieste da parte di commerciali per una possibile presentazione di nuove forme di native, declinate da loro, perché non c’era un progetto di contenuti dietro Ritengo però che il native possa andare a fare cassa di risonanza su quello che viene comunicato in televisione.”

[Francesco Favaro]

Per KIA, azienda produttrice di automobili appartenente al gruppo Hyunday, la definizione di native advertising è poco chiara perché nel mercato c’è molta confusione, ma risponde a un obiettivo ben preciso, cioè quello di veicolare ai propri clienti dei contenuti in linea con le loro aspettative. Del native advertising, in particolare, viene sottolineata la dimensione di non invasività e l’integrazione tra la presenza della marca e il suo contesto.

“Il concetto di native advertising confonde ancora attività editoriali con attività pubblicitarie. Il vantaggio del native però dare dei contenuti al nostro cliente di

riferimento in linea con le sue aspettative, che non siano contenuti pubblicitari. Per noi è di fondamentale importanza perché parliamo al cliente apertamente, senza interrompere la sua attenzione, ma è il potenziale cliente che in quel momento si ricava un momento suo personale di privacy dove si va ad approfondire delle sue curiosità per quanto riguarda tecnologia e design, e all’interno di quell’argomento ci vede KIA che è integrata perfettamente nel contenuto.”

[Giuseppe Mazzarra] Nel caso di un’azienda inserzionista del settore fashion, la decisione di fare native advertising si è inserita all’interno di una proposta da parte del centro media di una strategia di comunicazione integrata.

“L’esigenza di fare native non è nata interna all’azienda, ma è stata una proposta dell’agenzia di media buying. Uno degli obiettivi del piano marketing del 2016 era quello di rendere il canale digitale come il canale principale di comunicazione dell’azienda. Le agenzie che ci seguono ci hanno consigliato dei metodi innovativi ma abbordabili in termini di tecnologia e di budget. Il media buyer ci ha parlato della “moda” del momento, il native advertising, che secondo noi è un modo di fare pubblicità online armonizzandolo con il contesto in cui l’utente si trova.”

[Digital Marketing Specialist – azienda settore fashion] L’armonia di un contenuto con il contesto circostante è un carattere sottolineato da quasi tutti i player intervistati. Si tratta della caratteristica fondamentale anche secondo il digital marketing manager di Pixartprinting, azienda specializzata nella stampa online di materiale di comunicazione. Il native advertising ha diverse sfaccettature: nella definizione dello IAB, come sottolineato anche dagli editori e dalle agenzie, significa ben sei forme di pubblicità diverse. E queste sono tutte prese in considerazione da Pixartprinting, che però dà una declinazione particolare di native advertising, intendendo la social advertising – in particolare la pubblicità su Facebook – come la forma più nativa di pubblicità in quanto perfettamente coerente con l’esperienza utente in quel contesto particolare.

“Credo che Facebook rappresenti al massimo il native advertising, perché profila adeguatamente l’utente e contemporaneamente, all’interno della sua esperienza utente, si mostrano annunci che non sono disruptive rispetto al contesto.”

[Davide Turatti] Si vedrà nel paragrafo 3.9, dedicato agli esempi di applicazione del native advertising da parte delle aziende inserzioniste – comprendente l’esempio di Pixartprinting, come il native

advertising in senso stretto non venga esattamente perseguito dall’azienda, sebbene abbia una forte idea del potenziale del content marketing e del suo sfruttamento.