Capitolo 1. I cambiamenti di paradigma dovuti a internet e i nuovi modi di comunicare
3.6 Obiettivi e metriche di misurazione del native advertising
3.6.1 Obiettivi legati alle prime fasi del customer journey
Gli obiettivi delle campagne di native advertising si suddividono tra quelli legati alle prime fasi del customer journey – quindi più che altro di brand awareness e di brand consideration – e tra quelli legati a fasi più avanzate del customer journey – come la generazione di lead o conversioni di altro tipo, che possono anche essere l’acquisto in un e-commerce.
Per quanto riguarda i primi, si tratta di obiettivi che vengono impostati più che altro dagli editori, in accordo con le esigenze dei loro clienti.
Nel presente paragrafo gli obiettivi delle campagne di native advertising verranno trattati congiuntamente alla trattazione dei KPI – key performance indicators (indicatori chiave di performance, necessari per valutare il raggiungimento di un obiettivo) – e alle metriche di misurazione dei risultati.
Si avvisa sin da subito che questo paragrafo contiene delle lacune abbastanza gravi, in quanto molti soggetti intervistati si trovano ancora in una fase di sperimentazione per quanto riguarda il native advertising, e hanno iniziato delle campagne senza avere dei KPI impostati. Tuttavia ci si accorgerà di come esista una metrica implicita in grado di rivelare il successo di una campagna di native advertising, anche se non è condivisa tra tutti gli operatori del settore, la misurazione delle impression. Inoltre, le metriche utilizzate dai player di settore intervistati rappresentano sicuramente un’indicazione per porre le basi di una definizione condivisa degli obiettivi e degli indicatori di performance.
La rassegna dei risultati riguardanti gli obiettivi di brand awareness e di brand consideration per le campagne di native advertising parte dall’editore Manzoni, che ha rilasciato delle dichiarazioni molto approfondite sul tema, e che pongono le basi dei risultati successivi.
“Per noi l’obiettivo del native advertising è quello di raccontare un tema affine a un interesse da parte dei lettori per informarli, e poter essere vicini all’universo di valori del brand. Noi dobbiamo raccontare un tema, ad esempio di un’azienda che fa mecenatismo raccontiamo le opere d’arte che hanno restaurato, perché, con quali meccanismi, qual è il valore dell’opera di restauro. Non si sta parlando dell’azienda, ma di qualcosa di positivo che quell’azienda sta facendo. Questo è native advertising. Abbiamo avuto risultati dieci volte oltre le aspettative.”
[Alessandro Furgione] Di riflesso, la misurazione del successo, cioè dell’accettazione da parte degli utenti, ha tenuto conto di un indicatore di base, il tempo di permanenza sul contenuto.
“Misuriamo il successo con i tempi di permanenza sul contenuto, così come facciamo con gli articoli redazionali, con cui vengono confrontati. Abbiamo visto che non c’è nessuna differenza in termini di presenza degli utenti. È un aspetto importante, perché se vediamo che se la media degli articoli native è praticamente identica, se non in alcuni casi anche più alta di degli articoli scritti dai redattori, allora vuol dire che abbiamo esattamente colpito nel segno.”
[Alessandro Furgione] Quando si parla di tempo di permanenza sul contenuto non si intende il numero di volte in cui un contenuto è stato visualizzato, bensì quanto engagement ha ricevuto quel particolare contenuto. Un modo per misurare l’attenzione dell’utente nei confronti di un contenuto è infatti determinare se questi ha superato una particolare soglia di attenzione nei confronti del contenuto stesso, misurabile ad esempio in termini di tempo. La soglia è data dal confronto con gli articoli redazionali, cioè quelli non sponsorizzati: se questi eguagliano o superano i primi, significa che la campagna ha raggiunto il suo obiettivo.
Il tema del coinvolgimento è approfondito dall’editore in questo modo:
“Se si fa qualcosa sul digitale, bisogna farlo in maniera attenta, stando accorti al fatto che dall’altra parte c’è uno che legge, con cui entrare in contatto. Non si può più quindi pensare di parlare a una via: c’è una relazione. Si parla sempre di coinvolgimento, di engagement. Il digitale non è la carta, non è la televisione, dove uno dà e l’altro prende e non ci può essere interazione. Il digitale non è nato così.”
[Alessandro Furgione]
Quindi l’obiettivo del native advertising, più nello specifico, è quello di fare branding puro, e di affermare il brand a un livello alto. Non si può parlare di obiettivi top-of-the-funnel, cioè
legati alle fasi più avanzate del customer journey, perché sarebbe un boomerang per il brand.
“Il native advertising serve per affermare il brand a un livello alto: è come se fosse l’integrazione delle campagne istituzionali che un tempo molte aziende facevano in tempo di crisi, non quelle che hanno delle esigenze nel breve termine di aumentare le vendite. Rientra nella casistica di quelle aziende che devono posizionare il brand a un livello molto molto alto. Stanno cercando di vendere l’idea, non un prodotto.”
[Alessandro Furgione] Le modalità in cui avviene la misurazione del successo di un contenuto sponsorizzato è anche il suo parametro di vendita. All’azienda che vuole fare native advertising vengono venduti un certo numero di contatti certi, cioè persone che visualizzeranno l’articolo e avranno un particolare engagement nei suoi confronti. Misurare il successo all’interno di un articolo è quindi misurare l’engagement di un lettore.
“Il parametro di vendita per quanto riguarda il nostro editore sono le visualizzazioni dell’articolo scritto, ma in Italia siamo solo noi a venderlo così: gli altri vendono il volume e la visibilità data agli strilli, non ai contenuti. È un approccio completamente diverso: il nostro è quasi un approccio a performance, mentre il resto del mercato lavora a visualizzazione dei “banner” per portare traffico. Noi non facciamo pagare le aziende per il numero di volte che l’utente è esposto al box dell’articolo, ma per il numero di volte in cui l’utente legge il contenuto. Ci sono due modi di valorizzare e vendere il native advertising: il primo caso è un modello più superficiale e superato, che può andare bene per la display advertising, ma altrimenti non ci sarebbe nessuna differenza, se non che si scrivono dei contenuti.”
[Alessandro Furgione] Vediamo che un altro editore, concorrente di Manzoni, adotta infatti una logica di misurazione diversa. Vengono considerate sia le impression – quindi il numero di esposizioni all’articolo, senza il click su di esso – sia i click sull’articolo, in modo da stabilire una metrica di click-through-rate (numero di click sul contenuto diviso il numero totale di visualizzazioni), in modo similare rispetto alla display advertising.
“Gli indicatori che usiamo sono le impression sviluppate dall’articolo nativo, e i clic all’interno per leggersi all’articolo. Se poi all’interno dell’articolo ci sono dei link, che portano al sito, sarà l’azienda che vede gli accessi al sito con i referral. Però l’obiettivo
non è creare traffico al sito del cliente, ma rimanere in quel contesto editoriale, un contesto editoriale, autorevole, ad esempio un contesto sportivo.”
[Editore anonimo] Nemmeno in questo caso vengono prese in considerazione delle metriche più avanzate sul customer journey, in quanto l’obiettivo non è portare l’utente fuori dal sito in modo da avere delle conversioni, ma quello di rimanere all’interno del contesto editoriale.
L’obiettivo più importante è infatti quello di brand awareness, in coerenza con l’inserimento in un contesto editoriale autorevole, e in linea con i valori di un brand.
“Secondo me l’obiettivo più importante è quello di mantenere il brand all’interno di un contesto editoriale autorevole, e ciò comunque racchiude brand awareness. Perché comunque se sei presente nella home page di un sito editoriale importante brand awareness la fai, ad esempio un brand sportivo in un contesto sportivo.”
[Editore anonimo] Secondo Condé Nast gli obiettivi del native advertising non sono generalizzabili, ma sono un caso unico da campagna a campagna. Gli obiettivi, infatti, possono essere anche di interazione, oltre che di mera awareness, come ad esempio su Wired dove per Vodafone è stato proposto un quiz.
“Ogni campagna ha un obiettivo diverso. Alcune hanno l’obiettivo di fare interagire l’utente nostro con il brand, come abbiamo fatto per Vodafone con dei quiz, su Wired o su Vanity Fair, oppure – come per Mini – andare a raccontare la storia di dieci destinazioni dove stare all’aria aperta, collegandosi alla Mini Cabrio. L’obiettivo era sviluppare una tematica che si accostasse al loro prodotto. Oppure siamo andati a fare dei contenuti più creativi in cui abbiamo mischiato infografiche ed immagini con effetti artistici particolari, con un obiettivo più di awareness.”
[Elia Blei] Vedremo nel sotto-paragrafo successivo che questi obiettivi possono puntare anche oltre alle prime fasi del customer journey.
Per misurare il successo di questa tipologia di contenuti, Condé Nast utilizza le condivisioni e il social engagement, una metrica considerata anche da altri editori.
“Per misurare il successo del native advertising utilizziamo le condivisioni. Ogni volta che lanciamo un native all’interno del nostro tessuto editoriale lo lanciamo anche sui social del brand di Condé Nast su cui vengono distribuiti. E questo genera viralità,
perché poi se un contenuto piace viene condiviso, chi lo legge di nuovo lo ri- condivide, e così via, generando buzz.”
[Elia Blei] Un’azienda del settore fashion, invece, ha sperimentato una campagna di native advertising e – essendo un’operazione test – non ha impostato dei KPI definiti. Tuttavia, come anticipato nell’introduzione di questo paragrafo, gli editori considerano le impression garantite come una metrica implicita per garantire il successo, tanto che spesso il modello commerciale si basa sul numero di esposizioni che un articolo di native advertising ha.
“Non avevamo nessun obiettivo, essendo un’operazione test. Abbiamo seguito solo le indicazioni dell’editore, che ad esempio per Vanity Fair ci ha garantito 1 milione di impression. Poi nel momento di analizzare il ritorno dei dati, ci hanno mandato una tabella con le impression garantite e le impression ricevute. Le impression ricevute, però, sono state in linea con quelle promesse. C’è stato un over-delivery su GQ. Poi comunque ci hanno mandato un altro report dove ci hanno mandato i click e il CTR, e sta a noi interpretarne il successo, ma non lo abbiamo ancora fatto perché aspettiamo il secondo slot della campagna, l’autunno prossimo.”
[Digital Marketing Specialist – azienda settore fashion] KIA, invece, che ha già iniziato ad utilizzare il native advertising da quasi due anni, ha un set di indicatori chiave di performance molto sviluppato, che comprende sia KPI di breve periodo, quindi il tempo di permanenza nella pagina e i click sul sito di KIA, sia indicatori di medio periodo, come il monitoraggio della brand awareness con riferimento ad alcuni attributi del brand comunicati nella campagna.
“Come indice abbiamo avuto dei KPI di breve periodo, misurabili a fine campagna – il tempo speso all’interno della pagina, il bounce rate e il numero di click su una pagina di KIA. Nel caso del Sole 24 Ore i risultati sono stati veramente interessanti. […] Il tempo speso all’interno della mini pagina Sorento nostra è a più del 200% di una campagna banner normale. Nel medio periodo andiamo a valutare è il concetto di brand awareness. Noi abbiamo un monitoraggio trimestrale fatto da una agenzia internazionale di ricerca, TMS, su base europea. Il brand KIA viene valutato e paragonato a 10 brand competitor, e di volta in volta si monitorano alcuni elementi che sono poi gli attributi del DNA del brand. Il mese successivo alla campagna c’è stato un incremento del 5-10% degli elementi che volevamo diffondere noi. Quindi nell’attività del Sole 24 Ore il concetto di qualità e tecnologia.”
[Giuseppe Mazzarra] Gli indicatori più adatti per misurare il successo di un contenuto sponsorizzato, secondo un esperto di settore sono su due fronti: il social engagement, appunto, perché la condivisione è l’indicatore più forte tra tutti quelli prima citati, ma viene aggiunta anche una valutazione qualitativa.
“Il parametro con cui valuto questo tipo di campagne sono sicuramente quelli del numero di visualizzazioni e il tempo di permanenza sulla pagina, ma aggiungerei anche l’engagement e le condivisioni sui social da parte degli utenti. Se un contenuto è talmente potente da diventare anche condiviso spontaneamente dagli utenti, è un indice che mi dice che l’obiettivo è stato raggiunto. In più, ho anche una valutazione qualitativa: ri-utilizzerei quel contenuto prodotto anche sui miei canali proprietari, perché di qualità e di interesse per l’utente?”
[Chiara Davanzo Zamarian] Vedremo nel sottoparagrafo successivo come per lo stesso soggetto intervistato esistano però degli obiettivi più avanzati, sempre legati al successo dell’engagement di un articolo.