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Il native advertising secondo gli editori

Capitolo 1. I cambiamenti di paradigma dovuti a internet e i nuovi modi di comunicare

3.1 Metodologia della ricerca

3.2.1 Il native advertising secondo gli editori

Nell’ottica di comprendere che cosa intendessero gli operatori di settore per native advertising, dopo avere introdotto il tema della ricerca e i suoi confini la prima domanda e l’inizio dell’intervista ha riguardato la definizione di native advertising. Ciò aveva l’obiettivo di restringere il campo di analisi alla loro diretta esperienza e alla loro percezione, permettendo comunque con approfondimenti richiesti più avanti di approfondire la terminologia.

La definizione che è stata fornita dai soggetti intervistati per quanto riguarda l’argomento oggetto della tesi è dipendente dal ruolo che questi occupano nella filiera pubblicitaria. A questo proposito, per fini espositivi è utile suddividere le informazioni estratte in base alla tipologia di attore.

Per quanto riguarda il ruolo degli editori, sono state coinvolte due figure direzionali della concessionaria del gruppo editoriale L’Espresso, A. Manzoni & C S.p.a. – Alessandro Furgione, l’Advertising Digital Director, e Danilo Borghese, il direttore commerciale –, Elia Blei, il direttore commerciale digital advertising di Condé Nast Italia, e infine un account manager per conto di un altro grosso editore, che ha tuttavia scelto di rimanere anonimo. A tutti questi soggetti è stata somministrata un’intervista semi-strutturata con le caratteristiche descritte nel capitolo terzo, avendo quindi come guida i sette concetti più interessanti da indagare.

Gli editori intervistati hanno espresso una visione concorde sulla definizione di native advertising. Per tutti si tratta di un contenuto di qualità editoriale prodotto per conto dell’azienda o da una sua divisione interna, o da un’agenzia, che si inserisce organicamente nel contesto editoriale proprio delle testate editoriali.

Per rendere chiaro sin dall’inizio cosa si intenda per contestualità all’interno di uno dei siti editoriale dei soggetti intervistati, si propone in figura un esempio tratto dal sito internet de La Repubblica12. Lo strillo editoriale del contenuto sponsorizzato (a pagamento, e quindi inteso come native advertising) si trova nella colonna centrale, proprio come si potrebbe trovare qualsiasi altro articolo redazionale.

12http://www.repubblica.it

Figura 3.2 – Esempio di contenuto sponsorizzato nella home page di repubblica.it

Se l’utente clicca sullo strillo editoriale e naviga dentro l’articolo, si ritrova in una normalissima pagina del sito di Repubblica, con la segnalazione chiara13 che si tratta di un contenuto sponsorizzato nella parte alta della pagina, come visibile dalla figura.

Figura 3.3 – Esempio di articolo sponsorizzato su repubblica.it, sezione Cultura

La definizione di native advertising da parte degli editori viene sempre arricchita da considerazioni che riguardano l’esigenza di fare native advertising – sia per l’azienda inserzionista sia per l’editore – facendo in molti casi delle distinzioni molto nette tra il prodotto editoriale in senso stretto, destinato a raccontare una storia, e le altre forme di

13 Per la discussione sugli aspetti relativi alla disclosure, cioè alla segnalazione che un contenuto

native advertising, che addirittura rientrerebbero in un significato “inflazionato” di fare native advertising.

“Il campo del native advertising è nato in campo abbastanza ristretto e si riferisce alla parte dei contenuti che le aziende fanno fare agli editori o che fanno internamente e in maniera indipendente, e hanno l’obiettivo di raccontare degli argomenti affini a quello che serve a soddisfare l’obiettivo di un loro prodotto. Poi questo termine nel tempo si è inflazionato, come tutto ciò che riguarda internet, per cui tutti i widget di raccomandazione, ad esempio, oggi vengono considerati dei prodotti di native advertising, mentre nulla hanno a che vedere con il native advertising in senso stretto, che è il primo che Le ho raccontato. Anche se secondo il Playbook di IAB il native advertising comprende tutte queste componenti. Mentre se torna indietro nel tempo, cioè circa due anni fa, troverà che il primo che ha fatto native advertising, cioè il New York Times con una campagna famosa di Dell, in quel caso lì i widget di raccomandazione nemmeno venivano menzionati.”

[Alessandro Furgione] Vengono inoltre sottolineate chiaramente le discendenze del native advertising, cioè il publiredazionale, che esisteva ben prima delle forme di digital advertising.

“Il native scimmiotta un po’ le attività di publiredazionale, perché vestirlo con la parola “pubbli-” significa dargli una connotazione pubblicitaria. Invece, l’azienda vuole che il contesto editoriale sia ad appannaggio dell’azienda stessa. Ecco come nascono i prodotti native introdotti nelle campagne media. All’interno dei loro mezzi digitali (esistono anche forme print di native), stare in un contesto come repubblica.it, un brand fortissimo, significa avere una riconoscibilità e un’autorevolezza del messaggio molto forte, perché vai a colpire utenti che hanno un tempo di permanenza altissima in home e nelle sezioni di approfondimenti e – detto questo – se l’azienda (i suoi creativi) sanno fare native, è un binomio tra publisher forte con l’azienda che propone delle tematiche interessanti, attraverso degli strigli accattivanti.”

[Danilo Borghese] Nel caso di Condé Nast, un editore posizionato verso l’editoria di alta qualità, il native advertising è un prodotto editoriale creato dai giornalisti delle redazioni dei brand del gruppo per un brand che vuole raccontare i propri valori e interessare il proprio target con delle tematiche affini ai loro valori e di cui si rendono promotori.

“Sostanzialmente, il concetto [di native advertising, ndt] parte dal fatto che i clienti hanno bisogno di raccontarsi, e non necessariamente di se stessi o dei propri prodotti, ma dei valori che sposano, o le tematiche a cui tengono particolarmente e di cui si fanno promotori. Il concetto di partenza secondo me, quindi, è questo: raccontare delle storie che riguardano i valori e le tematiche che si accostano bene ai valori del brand. Detto ciò, succede che il native advertising diventa interessante perché permette di approcciare in maniera giornalistica il contenuto. Quindi un giornalista scrive il contenuto, che è un contenuto editoriale puro, e anche la distribuzione di questo contenuto si inserisce all’interno del flusso editoriale puro. Quindi in posizioni che sono esattamente posizioni di articoli, perché è una storia editoriale a tutti gli effetti.”

[Elia Blei] Non è da dimenticare la dimensione del prestigio e dell’autorevolezza di una testata editoriale, un aspetto considerato dai brand per aumentare la propria credibilità. Ciò è stato sottolineato da tutti i soggetti intervistati appartenenti alla categoria degli editori:

“Un’azienda decide di pianificare il native advertising, quindi di scrivere un articolo nativo, quando ha l’esigenza di raccontare un prodotto, di dare qualcosa, di dare dei contenuti in un contesto prestigioso, che dia comunque credibilità al brand.”

[Editore anonimo] Il prestigio della testata editoriale è stato sottolineato anche da Danilo Borghese, che ha declinato questa dimensione evidenziando che si tratta di un audience qualificato del sito stesso, molto fidelizzato alla lettura del quotidiano digitale e con un tempo di permanenza in pagina molto alto.

Gli editori tendono a distinguere chiaramente quello che viene considerato “native advertising in senso stretto” – un contenuto editoriale vero e proprio, prodotto da una redazione e in linea con il tono di voce della testata – dalle “altre forme di native advertising”. A questo proposito, l’account manager di un editore che ha deciso di rimanere anonimo ha spiegato che nei siti del gruppo editoriale vengono proposti due tipi di native advertising: la forma “basic”, che è uno strillo editoriale a lato della pagina, e il “long form native”, uno strillo editoriale che è più impattante, trovabile a centro pagina (quindi più visibile) e che punta a un articolo editoriale sponsorizzato da un brand, che può contenere forme di interattività, come verrà raccontato nell’esempio del brand inserzionista Salewa.

In senso ancora più ampio, però, come è chiaro dalla rassegna della letteratura nel capitolo secondo, lo IAB (2013) considera come native advertising anche forme meno editoriali di pubblicità, tra cui i widget di raccomandazione14. Se però assumiamo l’ottica di un editore, la distinzione tra queste diverse forme è ancora più netta, se non declinata con toni critici.

“La mia definizione di native advertising dipende dalla mia esperienza, e questo è il

mio punto di vista. Io lavoro per un editore, e quindi è normale che io dia questa risposta, se invece Lei parla con Outbrain, ad esempio, che è un widget di raccomandazione e ha solo quello – o con Ligatus o 4W – loro si definiscono “native advertising”, ma sono prodotti che esistevano ben prima del native advertising, perché Ligatus e Outbrain esistono da almeno 7-8 anni; 4W, invece, è un marketplace che esiste da 10 anni con un prodotto che utilizziamo anche noi. Non è mai cambiato nulla: questi prodotti esistevano già prima, e non si chiamavano native advertising. Addirittura Google ha fatto un rebranding della loro parte di AdSense e hanno una componente che chiamano native advertising.”

[Alessandro Furgione] I prodotti come i widget di raccomandazione sono quindi considerati dagli editori dei marketplace di annunci pubblicitari nativi (in senso lato) o dei network che mettono in connessione editori e aziende, la cui posizione sta ai confini della definizione di native advertising. Si tratta peraltro di forme di pubblicità digitale che vengono utilizzate dall’editore stesso, con obiettivi e forme ben diversi rispetto al native advertising in senso stretto.

“Noi abbiamo due offerte di tipo diverso. Come prima cosa siamo rappresentanti in Italia di Taboola, che è un widget di raccomandazione. Però distinguiamo in maniera netta ciò che fa Taboola da ciò che fa il native advertising puro. Il native advertising in forma pura viene venduto con una logica di garanzia sulle views che noi generiamo grazie al fatto che abbiamo una piattaforma di raccomandazione.”

[Alessandro Furgione] Anche Condé Nast adotta la stessa visione nei confronti di questi strumenti di native advertising in senso lato, considerandoli alla stregua di piccoli annunci classified: per analogia, gli stessi riquadri pubblicitari pagine degli annunci dei quotidiani.

14 I widget di raccomandazione saranno spiegati dettagliatamente nel paragrafo 3.2.4, dedicato ad

“[…] c’è native e native. Oggi, Outbrain non è native. Sono piccoli annunci, che vengono chiamati “native”, ma non sono native. Se io inserisco un annuncio in cui metto una foto, non è un native. Il Native è proprio un prodotto editoriale che va a raccontare qualcosa. Ed è creato in base a quello che è la tematica o il valore o l’area di cui un brand vuole farsi promotore. Ma è un prodotto editoriale. Quegli altri non sono native.. Quelli sono piccoli annunci classified: come sulla stampa una volta c’erano i piccoli annunci, adesso questi sono traslati sul digitale.”

[Elia Blei] Cos’è quindi il native advertising, nella visione degli editori? È un pezzo che ha semplicemente la stessa qualità editoriale a cui la redazione giornalistica ha abituato i lettori, che contiene i codici di comunicazione propri della testata, con la sola differenza che è frutto di una collaborazione molto stretta tra brand inserzionista ed editore.

“Il native è un prodotto editoriale che si va ad inserire all’interno del tessuto editoriale di un sito, quindi ha a tutti gli effetti la forma di un articolo fatto da un giornalista, ed è un articolo fatto da un giornalista, ma su una tematica che è promossa da un cliente. Poi può essere o meno articolato, più o meno interattivo. La creatività non ha limite. Ma deve essere un tema editoriale. Se no è un publiredazionale, che è un’altra roba, o un piccolo annuncio. Magari può essere distribuito nello stesso modo, ma non è native.”

[Elia Blei]

3.2.2 La definizione di native advertising secondo le agenzie e gli esperti di